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Messaggi di Gennaio 2017

Le maschere

Post n°3505 pubblicato il 26 Gennaio 2017 da valerio.sampieri
 

Le maschere

Ve saluto Arlecchino, Balanzone,
Purcinella, Gianduja, Rugantino,
maschere piene de riputazione,
davanti a voi m'inchino.
Maschere oneste, forse un po' antiquate;
ar giorno d'oggi voi nun sete adatte
pe' facce ride a noi, nun ce provate
perché ve pijerebbero pe' matte.



Ormai c'è un'antra maschera, guardate!
Oggi è l'omo politico sortanto
che ce fa ride nun se sa si quanto!
È 'na maschera propio divertente!
Manca regolarmente de parola,
cambia opignone come fusse gnente,
cià 'na gran faccia tosta
e lo vedrete appena ve s'accosta.
Nun c'è banchetto che nun sia invitato;
cià un gargarozzo che nun j'impedisce
de magnà e beve come 'no sfonnato
e diggerisce tutto, diggerisce,
senza bisogno de bicarbonato.
Viaggia a sbafo? 'Mbè che vói che sia?
Va a beneficio der proletariato
e pe' fa onore a la democrazia
cià lo scompartimento ariservato.
A la Cammera lotta pe' difenne
l'interessi de chi ce l'ha mannato
e d'argomenti lui ce n' ha da venne
specie p' atturà er becco a l'avversario
che vorebbe penzalla a l'incontrario.
- A buffone! Venduto! Porco! Spia!
Nu' l'avete mai intesi? Che peccato!
Ve sete perza propio l'occasione
de capì si ched'è l'educazione.
Poi quarche vorta vanno a finì a botte
perché sur «porco» mbè, lassamo core,
ma quer «venduto» no, nun se pó ignotte,
è un inzurto de quelli propio gravi!
Così vedrete chi scavarca er banco
chi zompa giù in pratea peggio d'un grillo
che manco ar circo Togni, no pe' dillo,
trovate sartimbanchi accusì bravi.



Che maschera simpatica, spassosa,
peccato pe' 'na cosa ...
eh, già, ce sta l'intoppo
che a conti fatti viè a costacce troppo.
Ve saluto, Arlecchino, Balanzone,
Purcinella, Gianduja, Rugantino,
davanti a voi m'inchino
e scusateme tanto er paragone.

Nino Buzzi
Strenna dei Romanisti, 1957, pag. 166

 
 
 

Er vino

Er vino

Er vino è ssempre vino, Lutucarda:
indove vôi trovà ppiú mmejjo cosa?
Ma gguarda cquì ssi cche ccolore!, guarda!
nun pare un'ambra? senza un fir de posa!

Questo t'aridà fforza, t'ariscarda,
te fa vvienì la vojja d'esse sposa:
e vva', (1) si mmaggni 'na quajja-lommarda, (2)
un goccetto e arifai bbocc'odorosa.



è bbono asciutto, dorce, tonnarello,
solo e ccor pane in zuppa, e, ssi è ssincero,
te se confà a lo stommico e ar ciarvello.

È bbono bbianco, è bbono rosso e nnero;
de Ggenzano, d'Orvieto e Vviggnanello:
ma l'este-este (3) è un paradiso vero!

Note:
1 E ve', e vedi.
2 Sterco.
3 Celebre è la storia dell'est est est di Montefiascone.

Giuseppe Gioachino Belli
Terni, 3 ottobre 1831 - De Pepp'er tosto
(Sonetto 156)

 
 
 

Frate Orsenigo

Post n°3503 pubblicato il 26 Gennaio 2017 da valerio.sampieri
 

Frate Orsenigo

Avere mal di denti a Roma alla fine dell'800 non era affatto un problema. Sull'Isola Tiberina infatti, tra la spalletta di Ponte quattro Capi e la chiesa di S Giovanni Calibita, c'era un ottimo gabinetto dentistico molto rinomato, frequentato, gratuito e, soprattutto, indolore.
Era lo studio di Fra Battista Orsenigo, il più famoso "cavadenti" di tutta Roma attivo tra il 1868 e il 1903.
Fra Orsenigo era originario di Pusiano (Como) e aveva imparato nella bottega del padre, macellaio, l'arte dell'usare le mani e del tagliare. A 26 anni aveva poi preso i voti e la sua abilità fu scoperta e coltivata dal chirurgo Fra' Benedetto Nappi, dell'ospedale di Firenze, che lo addestrò in quella che era considerata la "bassa" chirurgia e in particolare nel togliere i denti. Quando Fra' Orsenigo si trasferì a Roma gli donò molti ferri odontoiatrici e fu proprio con questi ferri che il frate giunto a Roma aprì il suo gabinetto. Ma il suo non era uno studio dentistico come tutti gli altri.

La sua specialità infatti era quella di estrarre i denti alle persone senza l'ausilio di alcuno strumento ma con la sola forza delle mani e spesso il paziente si ritrovava senza dente senza nemmeno accorgersene. Il frate, con la scusa di palpare la gengiva dolente, esercitava una leggera pressione e il dente si staccava senza male alcuno, anche perchè il paziente era rilassato nel non vedere pinze, tenaglie o altri arnesi, di indubbia utilità ma dall'aspetto spaventoso per il povero dolorante paziente. Di sicuro lo aiutava in questa operazione anche la sua non comune prestanza fisica tanto che fu definito, dall'umorista Filiberto Scarpelli, come "un corrazziere lombardo in abito fantesco". E pare che il frate si esercitasse ogni giorno con una pesante clava per rinforzare la muscolatura delle mani e fortificare così la presa delle sue dita.

Tratto dal sito Roma sparita: Frate Orsenigo - Er cacciadenti auffa de 'na vorta

 
 
 

Caffè concerto

Caffè concerto

«Salone Margherita», «Sala Umberto» ...
vecchi Caffè Concerto
d'un' epoca finita.
Stucchi dorati, li palchetti bassi,
se stava tanto stretti,
che pe' móve du' passi
dovevi chiede un sacco de permessi.



Comincia lo spettacolo:
mentre l'orchestra sôna,
ariva 'na tardona
che fa da primo nummero.
Brutta, piccola, grassa,
allenta quarche stecca
coperta dar zun-zun de' la grancassa.
Ecco er trio de l' acrobbati:
so' li «Diavoli Rossi»;
tre accidentoni grossi
vestiti in carze a maja
co 'na cintura d'oro che sbarbaja.
Fra zompi e capitomboli,
arzeno un porverone
da soffocà, fra er pubbrico,
ar meno 'na decina de persone.
Er «fine dicitore»,
che canta le romanze appassionate,
fa sospirà d'amore
zitelle e maritate.
Pallido, secco, er grugno addolorato:
nun sai si soffre pe' un amore traggico,
o so' tre giorni che nun ha magnato.
Macchiettisti, divette, e pe' finale
la solita sciantosa forastiera
«stella internazionale».
Chi dice che sia russa,
chi francese o tedesca;
ma un «va a morì ammazzato»
fa capì ch' è 'na stella ... romanesca.


......
Vecchio Caffè Concerto
de le belle serate de 'na vorta,
la compagnia s'è sciorta
e l'attori più vecchi, in quarche ospizio,
se tengheno ogni giorno in esercizio
pe' l' urtimo spettacolo.
E aspetteno er segnale
der galoppo finale ...

Mario Ugo Guattari
Strenna dei Romanisti, 1957, pag. 246

 
 
 

Er coco der re

Post n°3501 pubblicato il 25 Gennaio 2017 da valerio.sampieri
 

Er coco der re

Doppo li primi scoppi de le bombe
sur tetto der palazzo, appena intese
l'aria sgaggiante (1) de la Marsijese
ch'esciva finarmente da le trombe,
er Re diventò pallido e scappò.
Addio lista civile! Addio bandiera!
De tanti magnapane a tradimento
nun ce fu un cane che je disse: «spera!»,
nun ce fu un cane che l'incoraggiò!
Scapporno tutti. Nun restò ch'er Coco,
fermo, davanti ar foco der fornello:
nun ce restò che quello! Troppo poco!



Anzi, la sera, er Presidente stesso
de la nova Repubbrica je fece:
- E tu nun sei scappato? Me fa spece (2)!
Io me pensavo che j'annavi appresso...
- Ah, mai! - rispose er Coco - Nun potrei!
Io resto ar posto de combattimento
convinto che, levato er condimento,
come magnava er Re magnerà lei.
Sotto ar tiranno ch'è scappato via
facevo er pollo co' la pasta frolla,
e adesso lo farò co' la cipolla
pe' fa' contenta la democrazzia.
Ma, in fonno, la sostanza è tale e quale.
Presempio, lei, da bon repubbricano
ha già levato er grugno der Sovrano
dar vecchio francobbollo nazzionale,
e n'ha stampato un antro co' la stella
co' tanto de Repubbrica su in cima...
Ma la gomma de dietro è sempre quella
e er popolo lo lecca come prima.

Note:
1 Vivace, squillante.
2 Mi maraviglio.

Trilussa
1910
Da: "Le storie", 1923
Trilussa, Tutte le poesie, Mondadori 1954, pag. 308

 
 
 

Lavagna bianca

Lavagna bianca

Su la lavagna bianca, piccoletta,
scritto cor gesso nero
er nome d'un pupetto.
Ma nun l'ha scritto lui.
Chedè sto frullo d'ale?
Che vô sto passeretto
qui dentro ar cimitero? ...
Cici, cici, cici e all'improviso
un volo spaurito
e un punto nero
che sparisce lassù ...
Nell'infinito.

Costantino Bosca
Strenna dei Romanisti, 1957, pag. 263

 

 
 
 

Armando Morici, 2 sonetti

Er fijo prodiggio

Sto pupo quà, sora Nunziata mia,
m'è nato co' l'ingegno de Marconi,
pe' quanti fii ho visto bravi e boni
come lui chi volete che ce sia?

Ier'assera me prese du' bottoni
de la giacca d'istate de mi' fia,
e li guardò co' tanta bramosia
da facce arimané come minchioni ...

Qualunque cosa acchiappa, pôro fio,
nun je la levi più, fa resistenza,
mena sempre cazzotti e strilla: È mio!

Parla come si fusse n'avvocato,
a du' anni cià tanta inteligenza,
che già comincia a dì: Morammazzato!

Li punti de vista

Quanno ch'er cavajere, spaventato,
s'accorse tutto un botto ner salone,
che j'amancava la decorazzione,
penzò dentro de se: So' rovinato!

Io che so stato sempre l'espressione
dell' onestà più vera e ho litigato
pe' l' orgojo e la gloria d'un passato,
pe' l' orgojo e la gloria d'un blasone,

mo devo da commette la schifenza,
d' entrà dentro un salotto aristocratico
senza er nastrino e l'onorificenza?

Questo nun sarà mai - disse - percui,
sgranciò la croce in petto a un diplomatico
e se la mise sopra ar fracche lui.

Armando Morici
Strenna dei Romanisti, 1957, pag. 278

 
 
 

Ciceruacchio

Ciceruacchio

A Mario Lizzani

«Dove vai?» «Vado via. Tento la sorte
pe' gastigà li despoti e li re ...
A chi me segue j'offro fame e morte ...».
«Viva la libertà - Vengo co te».
Così Ciceruacchio, anima indoma,
a Garibbardi che lassava Roma.

E lo seguì come un innammorato,
de notte a' luccichio de lo stellato
e, de giorno, attraverso a la boscaja
pe' non esse scoperto e assassinato
da la sbirraja.

E soffrì sonno, soffrì fame e sete
ma sempre avanti, a la garibbardina,
finché nun sentì stregnese la rete
tesaje da li monti a la marina.

Ma ormai gnente da fa che la partita
era troppo ingaggiata
e nun defezionò. Parola data,
sasso tirato: a costo de la vita.

Finché 'n d'una capanna abbandonata
portata a braccia, spalida, sfinita
tra le zanzare e l'aria intossicata
serenamente nun moriva Anita.

Morte che, sarvognuno,
(guarda er capriccio guarda, der destino!)
portò li sbirri a catturà er tribbuno.
......



«Chi sei?» « Ciceruacchio!»
«Tu, in carne e ossa? Tu, er cospiratore
contro Sua Santità e l'Imperatore
d'Austria e Ungheria?

Dì un po', 'ndó stanno li compagni tua?»
«Nun fo la spia».
«E Garibbardi?» Vattel' a cercà
dove se more pe' la libbertà!»

A 'sta risposta er giudice restò
quasi de stucco, poi, presa la penna
motivò la sentenza e la firmò:
... reo di congiura contro il Papa e Vienna.

Arbeggia. Ariva er martire. Un plotone,
forse er più boja che la Santa Lega
abbi capata pe' l'esecuzione,
è già schierato in ligna. Un frate prega.

La solita illusione
perché subbito un ordine ... una scarica ...
e l'Eroe furminato, che sie piega
come 'na cerqua rotta da un ciclone!

Romolo Lombardi
Strenna dei Romanisti, 1957, pag. 138

 
 
 

Li cancelletti

Li cancelletti (1)

Ma cchi ddiavolo, cristo!, l'ha ttentato
sto pontescife nostro bbenedetto
d'annàcce (2) a sseguestrà ccor cancelletto
quella grazzia-de-ddio che Iddio scià (3) ddato!

La sera, armanco, (4) doppo avé ssudato,
s'entrava in zanta pace in d'un buscetto (5)
a bbeve (6) co l'amichi (7) quer goccetto,
e arifiatà (8) lo stommico assetato.



Ne pô ppenzà de ppiù sto Santopadre,
pôzzi avé bbene (9) li mortacci sui
e cquella santa freggna de su' madre?

Cqui nun ze (10) fa ppe mmormorà, ffratello,
perché sse (vd. n. 10) sa cch'er padronaccio è llui:
ma ccaso lui crepassi, (11) addio cancello. (12)

Note:
1 Leone xii fece porre alle porte delle bettole un cancello onde per mezzo a quello si spacciasse il vino, ed alcuno non si fermasse dentro a bere. Così tutti bevevano per le strade, con non minorazione di scandalo.
2 Andarci.
3 Ci ha.
4 Almeno.
5 Buchetto.
6 Bere.
7 Con gli amici.
8 Ristorare.
9 Possano aver bene.
10 Si.
11 Nel caso ch'egli crepasse.
12 Di fatti Pio viii, successore di Leone, fece tor via i cancelletti, de' quali in certi rioni il popolo fece tanti falò.

Giuseppe Gioachino Belli
Terni, 2 ottobre 1831 - De Pepp'er tosto
(Sonetto 155)

 
 
 

La casa vecchia

Post n°3496 pubblicato il 23 Gennaio 2017 da valerio.sampieri
 

XLV.

La casa vecchia


Eh, Sor Aghita mia, de qui nun s' esce:
O annàssene (1) o pagà. Che bell' azzione!
Se tratta lui che (2) me vorrebbe cresce
Arméno un scudo ar mese de piggione.

Mo curro a ved'un po' si m'arïesce
De parlàcce e arifà la locazzione
Più mejo che se pò, ché m' arincresce
Doppo tant' anni de cambià (3) padrone.

La casa come casa, du' stanzacce,
Manco c' è er ferro da stènne li panni,
E se commatte co' certe gentacce! ...

Ma io, se sa, (4) me ce so' affezzionata,
E annàmmene de qua doppo tant' anni,
Saria sicura de morì accorata.

Note: 1 Andarsene. - 2 Si tratta che lui. - 3 Il Belli avrebbe scritto cammià, perché al suo tempo tutti i Romaneschi dicevano cosi. Oggi invece dicono spesso anche cambià, ed è questa una delle moite parole che attestano la lenta trasformazione cui va soggetto il vernacolo per avvicinarsi alla lingua comune, cioè al tipo fiorentino. - 4 Si sa: naturalmente.

Luigi Ferretti.
Centoventi sonetti in dialetto romanesco, Firenze, G. Barbèra, Editore, 1879, pag. 93

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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