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Messaggi del 22/11/2014

Il Dittamondo (1-04)

Post n°662 pubblicato il 22 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO IV

Sí come presso fui a quella strega, 
vidi la faccia sua livida e smorta 
qual preso pare, a cui le man si lega. 
Vecchia mostrava e ’n su le gambe storta; 
arricciava la carne e ciascun pelo, 5 
come porco per tema talor porta. 
Tutta tremava e ne le labbra un gelo 
mostrava tal, che non copriva i denti 
ed era scapigliata e senza velo. 
Gli occhi smarriti e in qua e lá moventi 10 
avea la trista e cosí sbalordita 
borbottando parlò: "Perché consenti, 
perché consenti a perder la tua vita? 
Certo tu ne morrai, se non t’avvedi 
di lassar questa impresa tanto ardita". 15 
"Non per morir, ma per campar mi diedi 
a seguir tanto ardire e da piú senni 
confortato ne son, che tu non credi. 
Ben so ch’al mondo per tal patto venni 
ch’io dovessi morire e bene istimo 
che contro ciò tutti i pensieri son menni. 
E so ancora ch’io non sarò il primo 
né ’l deretan, che dee far questa via, 
ché tutti ne convien tornare al limo. 
E bestial cosa sarebbe e follia 25 
di temer quel, che non si può fuggire": 
questa cotal fu la risposta mia. 
"Bene t’ho inteso; ma tu non de’ ire 
ispermentando sí la tua ventura 
in istrani paesi, per morire". 30 
"Oh, rispuos’io, giá non è piú dura 
di fuor la morte, che ’n casa si senta". 
Ed ella: "Tu non avrai sepultura". 
"Questo che fa? Ché ’l corpo non tormenta 
né truova cosa che li faccia guerra, 35 
poi che la luce sua del tutto è spenta. 
E se non fia coperto da la terra, 
il cielo il coprirá, né con piú degno 
coperchio nessun corpo mai si serra. 
Non fu trovato di tombe lo ’ngegno 40 
a ciò che i morti n’avesson dolcezza, 
ma per li vivi, ch’è d’onore un segno". 
Dissemi ancor: "Tu morrai in giovinezza". 
Per ch’io rispuosi: "Questo fia men doglia 
che l’aspettar di languire in vecchiezza; 45 
ch’allor fa buon morir, quando s’ha voglia 
di vivere e quel viver tegno reo 
dove l’uom senso a senso si dispoglia. 
Di ciò s’avvide il forte Maccabeo, 
di ciò s’avvide il Greco ardito, il Magno, 50 
e ’l buon Troian, che tanto d’arme feo. 10 
Il ben morire è nel mondo un guadagno 
e ’l viver male è peggio che la morte: 
faccia uom che de’ e non si dia piú lagno". 
E quella a me: "E tu puoi, per tal sorte, 55 
cadere in povertá, infermo e frale, 
e non sará chi t’aiuti e conforte". 
"Di questo, rispuos’io, poco mi cale; 
ché de le due converrá esser l’una: 
o il mal vincerá me o io il male. 60 
La povertá e i ben de la fortuna 
per tutto truovo e veggio l’un dí grande 
tal, che poi l’altro con fame digiuna. 
Giá fu chi visse di frondi e di ghiande; 
nostra natura, quando si contenta, 65 
poco cura di veste o di vivande. 
Piú son le cose onde l’uomo spaventa, 
che poi non fanno mal, che quelle assai 
che con danno e percosse si tormenta". 
Ed ella a me: "Or pensa, se tu vai 70 
in luogo strano, acerbo e sconosciuto, 
e non sappi la lingua, che farai?" 
"Le mani e i piè natura per aiuto 
m’ha dato, dissi, e l’argomento tutto, 
per ch’io sarò piú lá, che qui, un muto". 75 
Ed ella: "Or vuoi un buon consiglio asciutto? 
Pensa di viver qui e stare in pace 
e di quel c’hai prender diletto e frutto". 
"Lo tuo parlar, rispuosi, non mi piace, 
però ch’egli è consiglio da cattivo, 80 
che mangia e bee e ’n su la piuma giace: 
ché l’uom non de’ pur dire i’ pappo e vivo 
come nel prato fan le pecorelle, 
ma cercar farsi, dopo morte, divo. 
Omai va via, ché de le tue novelle 85 
ammaestrato fui e poi m’annoia 
c’hai le fazion che non somiglian belle". 11
Per ch’ella si partí dolente e croia 
e io rimasi qual riman colui, 
che fa tra sé di sua vittoria gioia. 90 
E poi che sviluppato da lei fui 
lettor, e vidi me disciolto e libro, 
presi il cammin tanto dubbioso altrui, 
quanto udirai dal terzo al sesto libro.

 
 
 

Il Dittamondo (1-03)

Post n°661 pubblicato il 22 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti
 
LIBRO PRIMO
 
CAPITOLO III
 
Entrati nel suo povero abitacolo, 
sarebbe lungo a dir le cose strane 
che mi contò d’uno e d’altro miracolo. 
La cena nostra fu solo acqua e pane 
e, letto, d’orso una pelle pilosa; 5 
e cosí stemmo in fine a la dimane. 
Era la mente mia grave e pensosa,
volendo ricordar ciascun peccato, 
che fatto avea ne la vita noiosa, 
quando quel padre, ch’era giá levato 10 
per dir sue ore, mi disse: "Che hai, 
che sí sospiri e mostri tribulato?" 
"Ho, rispuos’io, che ho peccati assai 
dubbiosi e gravi". E poi mi tacqui apresso 
e nel tacer languendo lagrimai. 15 
"In questo tuo cammin se’ tu confesso?" 
Rispuosi: "No; e trovandomi vosco 
questo era quel di ch’io piangea adesso". 
"Figliuol mio, disse, il mondo è come un bosco 
pien di serpenti e di fieri animali 20 
e ciascun porta isvariato tosco. 
E noi siam tutti mobili e mortali: 
onde vegliar convene e stare attenti, 
per saperne guardar da li lor mali. 
Se il primo nostro e de’ nostri parenti 25 
padre avesse proveduto a questo, 
noi viveremmo liberi e contenti. 
Ma di’, ch’ al tuo piacer son fermo e presto". 
Per ch’io ai piedi suoi tutto devoto 
ciascun peccato li fei manifesto. 30 
E poi che di me fu, ben chiaro e noto, 
diemmi la penitenza cosí dura, 
quanto volea a lavar tanto loto. 
Giá venia il sol per alcuna fessura 
del romitoro, quando a camminare 35 
m’apparecchiava e davami rancura. 
Onde mi disse: "Di’ che vuoi tu fare". 
E io rispuosi: "Alleviar quel carco, 
che scarcar mi conven sol con l’andare". 
"Tu credi, disse, forse quinci un varco 40 
securo come se fossi in Vinegia 
e dovessi ir da Rialto a San Marco. 
Giá fu cosí; ma tal piú non si pregia,
ché per tutto le strade ci son tronche, 
coperte d’erba e di prun che le fregia. 
Nel monte Gif non ha tante spilonche, 
quante si truovan per questo cammino, 
né tanto oscure né profonde conche. 
E non dire: - Io son pover pellegrino -, 
ché i bacarozzi non guardano a quello, 50 
pur che possan far male a lor dimino. 
Per tutto posso dir ch’è baccanello; 
e però la tua voglia qui sia stretta 
tanto, ch’attempi il sol, che vien novello: 
ché molte volte l’uom, per troppa fretta, 55 
volendo far, disfá; e dico ancora 
colui sa guadagnar, che tempo aspetta". 
"O caro lume mio, rispuosi allora, 
poco sapria chi dal vostro consiglio 
si dilungasse il minuto d’un’ora". 60 
E cosí, per fuggir morte o periglio, 
credetti io a lui, come creder de’ 
ammaestrato da buon padre il figlio. 
Dolce diletto e caro ancora m’è, 
quando rimembro le sante parole, 65 
che allor mi disse de la nostra Fè. 
Giá era al cerchio di merigge il sole, 
quando parlai con grande reverenza: 
"L’andar mi sprona e il partir mi dole". 
Il padre, pien di tutta conoscenza, 70 
m’intese e disse con soave boce: 
"Tempo è bene, omai, per mia credenza". 
Indi mi trasse al sasso de la croce 
e gli occhi sporticando, il cammin mio 
mi divisò di una in altra foce. 75 
Divotamente il comandai a Dio; 
ed ello: "Or va, ché come salvò Elia 
nel carro, sí te salvi al tuo disio". 
Misimi allor per la mostrata via, 
avendo sempre attento l’occhio e ’l viso, 80 
se cosa alcuna innanzi m’apparia. 
E, mentre ch’io guardava tanto fiso, 
una femina iscorsi assai di lunge 
sí sconcia, ch’io ne fui quasi conquiso. 
E come avièn che la paura punge 85 
l’uom talor sí, che tragge il sangue al core 
e l’altre vene per lo corpo munge, 
e che, da poi c’ha stretto sí ’l valore, 
in fra se stesso di sé si rimembra, 
onde racquista il perduto colore, 90 
sí perdei io il sangue per le membra 
subitamente e poi cosí raccolsi 
in me virtute e colore insembra. 
E quanto i passi miei piú vèr lei volsi 
ed ella i suoi vèr me, e via piú brutta 95 
a membro a membro la sembianza colsi: 
pensa qual parve a figurarla tutta!

 
 
 

Elena Cornaro Piscopia

Post n°660 pubblicato il 22 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Nobilissima schiatta, molta avvenenza, vastità di sapere, non fucata modestia, [p. 329]irreprensibil costume, pietà singolare resero questa giovane la maraviglia delle donne del suo tempo. Nella più tenera età eranle familiari, oltre ad alcuni idiomi viventi, l’ebraico, il greco, il latino; ed il gran numismatico Carlo Patin, nel dedicarle una sua opera, esclamò: Tu Romam Athenas, Hierosolymamque vehis! Le più astratte materie della filosofia, delle matematiche, dell’astronomia, sin anche della teologia, erano suo alimento; e se sentiasi inspirata a far versi sapea con molta dolcezza accompagnarne il canto colle dita su’ tasti, poichè anche la musica le era assai famigliare. Sin dal 1653, suo undicesim’anno, avea fatto voto di virginità, che mantenne inviolato, rinunziando d’impalmarsi sino con principi forestieri. Per consentire al paterno volere l’anno 1678 nel duomo di Padova, fra la pompa più solenne, ottenne laura in filosofia; dopo di che sì nell’università, come nelle accademie si fece alcuna volta ascoltare con grande ammirazione; nè era a que’ giorni straniero di alta nascita o di molta dottrina, che non amasse di visitarla, e che non restasse preso sia del suo sapere, sia della nobiltà e urbanità del suo tratto. Forse la troppo austera vita che condusse abbreviò i suoi dì, essendo passata [p. 330]a più salda vita in età di soli 38 anni, nel 1684. Un generale compianto dimostrossi con grandi esequie, con lugubri canti, con solenni onorificenze, con raccolte pubblicate a stampa, e colla erezione del suo simulacro nel portico dell’università padovana. Il celebre p. Bacchini mise a luce, quattr’anni dopo la sua morte, alcuni brevi suoi Discorsi, Lettere ed Elogi. Se questi componimenti non adeguano oggidì la fama di cui essa godette, è da accusarsi la decadenza in cui erano a’ suoi tempi le amene lettere nelle veneziane contrade; oltre a che l’illustre donzella non curavasi punto di fama letteraria, tutta concentrata com’era nell’esercizio delle cristiane virtù. Massimiliano Deza suo biografo osservò che di due miracoli può dirsi ch’Elena andasse adorna, l’uno d’essere stata dotta senza paragone, l’altro d’essere stata donna senza vanità.

Tratto da: Alcuni ritratti di donne illustri delle provincie veneziane (1826) di Bartolommeo Gamba.

Un profilo più articolato di Elena Cornaro Piscopia è sul blog Bibliofilo Arcano.

 
 
 

Viè cqua

Post n°659 pubblicato il 22 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Viè cqua

T'alliscio su le labbra co' le dita,
la fronte co' la mia t'ho accarezzata,
badanno de nun dà 'na capocciata,
ma resta cqui, però, ... mica è ffinita!

La tua bbellezza mai sarà sfiorita.
'N'anima bella mai pô annà cambiata,
er Celo a mme, Tesò, t'ha 'rigalata
ed io te vojo avè tutta la vita.

Mó viè vvicino a mme, sédete accanto
a 'st'omo che respira e che tt'adora,
co' ccui nun saprai ppiù che vvôr dì 'r pianto.

Te bbacio su la bbocca tua che odora
perché devi capì che t'amo tanto:
l'amore nun pô annassene 'n malora!

Valerio Sampieri
21 novembre 2014

 
 
 

Due sonetti del Tasso

Post n°658 pubblicato il 22 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

SONETTO I 

A nobiltà di sangue, in cui bellezza 
Fiorisce a prova, e come il sol risplende, 
A valor, a saper, che più s'intende, 
Dov'egli più si loda e più s'apprezza: 

A chiaro ingegno, a pura mente avvezza 
In contemplar le forme, ond ella scende: 
A spirto ardente che se stesso accende, 
Or nulla gloria è no^a e nulla altezza. 

E nvidia a voi non fanno avari tempi 
Per diadema ch'usasse il verde Egitto 
per fallace onor di vaghe stelle. 

Che più degne virtù, luci più belle 
Vi son vera corona; e'n Duce invitto 
Vince la nuova fede antichi esempi. 

Torquato Tasso

Impresso alla pag, 98 della parte II -delle Rime del Tasso in- data di Brescia 1503 in 8." Intitolato alla Signora 'Bianca Cappello granduchessa di Toscana. Nel tom. III delle Rime di Torquato Tasso di nuovo corrette ed illustrate (dal Rosini) Pisa, Capurro, 1822 in 8.<^ pag. 13, si vede intitolato, non si sa come, al signor Virginio Orsini. 


SONETTO II 

La Regina del mar, che n' Adria alberga 
E 'n terra signoreggia e'n mezzo all'onde, 
E 'l capo estolle e 'l piò nell'acqua asconde, 
E 'l nome al Cielo avvien che inalzi ed erga: 

Più che per aura, ond'atro orror disperga, 
E per Sol che Tillustri e la circonde, 
Per voi si rasserena e non altronde 
Par che luce e candor si chiaro asperga. 

E benché Atene, Sparta, Argo e Corinto 
E Roma dian gli esempì, onde s'adorni, 
Ella colostri merti all'altre il porge. 

Perchè nel premio usato in voi si scorge 
Non usata virtù, eh' a' nostri giorni, 
Quel, che seguì, già pareggiando ha vinto. 

Torquato Tasso

Impresso alla pag. 99 della II parte delle Rime del Tasso in data di Brescia 1593 in 8. col titolo come il precedente alla signora Bianca Cappello. E' ricordato dal Tasso nella sua lettera del 28 di giugno 1586 col num. 526 dell'Epistolario edito dal Guasti. 

Da "Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici", Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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