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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Messaggi del 02/01/2015
Post n°948 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Interlocutori: Thetide, Achille, Coro di donne che cantano e saltano. O destrieri dell'acque, Ecco del vostro nuoto E del mio lungo corso il fin'è giunto. Deh! pur mi doni il fato Che giunga anch'egli il mio desio in porto, E dell'unico mio diletto figlio, Che in alto sonno involto ho qui condotto Io sua pietosa madre Cessi il mortal periglio Che gli minaccia il ciel nemico d'Asia. O sola del mio cor dolce radice, Tu dormi, ohimè!, tu dormi Ed io, misera me!, la notte e i giorni Meno per tua cagione Vigili e tormentosi. Come, viscere amate, Sarà possibil mai Ch'alle materne lagrime, a' sospiri, A' prieghi di colei, ch'a te già diede E lo spirto, e la vita Il tuo cor indurato non si spezzi? Ah figlio! Ah figlio! il tuo feroce ingegno L'invitto animo tuo, che sol di gloria Ha immoderata sete; E quell'(ohimè!) che col dolor m'ancide, Tu per udir delle canore trombe Il fiero suon, ch'alla battaglia sfida, Sordo non udirai Il fiebil suon de' miei pietosi accenti? Oh! Troia, de' miei mali Amarissimo fonte; Oh! del troiano eroe Troppo crudel rapina, Ch'altrui la sposa, a me rapisce il figlio; E voi di ferro e di guerrieri onuste Navi, d'Asia terror, di Grecia pianto, Se voi di render gravi Sì prezïosa salma; Se i vostri lunghi errori De' seguir il mio figlio, Disserri e sleghi il dio rettor dei venti I tempestosi noti, Sì che turbato il mar, sempre turbata Miri la greca agente. E tu che nel ciel regni, o sommo Giove, Che sol del fato negli eterni abissi Vedi i segreti agli altri dei mal' noti; Se deve Achille ne' troiani campi Inevitabilmente Cader ferito e morto, e me sua madre Lasciar orba e dolente, Ah! tu ch'onnipotente Se' detto, fa ch'egli non parta,e resti. Tu del cor giovanil gli ardenti affetti E i spiriti guerrieri Tempra e sopisci, tu, che 'l tutto puoi; Questo suo cor cangiando Che sol di guerra e mortal guerra è vago. Inspira nel suo petto Vital desìo di pace e di riposo. Signor benigno, ascolta Questi miei prieghi, che pietà materna Bagna di calde lacrime et amare; Ma che col tuo favor tardi a destarlo? A che tanto diffidi? Breve stilla di pioggia un sasso rompe, Non potrà largo pianto, E pianto di pietosa e diva madre, Spezzar ancor un cor di figlio umano? Figlio? Ma per sé stesso ei si risveglia; Vuo' tacer, e vedere Qual sarà meraviglia Del varïato cielo E di mirar mia deità presente. Achille Ecco il lido, ecco Troia, Armi, ecco Ettore. Ah! che vaneggio. Ma dove sono, e dove longa caccia Oggi m'ha tratto! Io già non ho memoria Di questa spiaggia mai, di questo mare, Di questi alpestri scogli, E dove è Pelio et ossa? Ma tu chi sei, che con divino lume M'assali? Ah! ben ti riconosco o madre A me questa tua luce Recar non può se non notte d'infamia. Conosci la tua fraude, i tuoi disegni, La tua pietà crudele. Ai regi et agli eroi; Alle palme, ai trofei M'ha tolto, et or m'espone Agli scogli e alle selve. Thetide Figlio, misero figlio, Di più infelice madre Il mio materno amor, la mia pietate Che tu, crudel, crudel a torto chiamo Al tuo fiero destino, Alla fatal tua morte Ti sottragge e ti dona A la mia vita, di cui non have il mondo Cosa più pretïosa. Achille Sì, se vivesse senza onor il mondo. Thetide L'onor'è un ombra di fugace bene. Achille La vita senz'onor è come morte. Thetide Ma l'onor senza vita è un fumo e un sogno. Achille È padre della gloria e della fama. Thetide E la fama e la gloria è un'eco vana. Achille Ella è dell'uomo la seconda vita. Thetide Ell'è più tosto la seconda morte. Achille Chi glorïosa fama uccider puote? Thetide Il tempo micidial de' nomi e d'opre. O figlio, tu non sai, né saper puoi (Ché tua tenera età non lo consente) Quali faccia tra noi alte rapine L'artiglio irreparabile del tempo. Per lui rovinan le città possenti, Per lui cadono i regni, Per lui la vostra fama, Che tanto il vano mondo apprezza ed ama, Qual nebbia al vento si dilegua e sface In questo vostro sì mirabil mondo, Che goder non potete, Se non vivendo. Altro di vero bene Che la vita v'è dato: La vita, che natura Nostra madre comune Insegna a custodir con tanto studio Non agli uomini solo; Ma quel ch'è suo mirabil magistero A tutto ciò che sotto il ciel ha vita. Dunque perché sprezzar sì caro dono? Perché gittar invano Così caro tesoro? Vivi, mio figlio, vivi, E se lo stame de' begli anni tuoi Di recider non curi per te stesso, S'a te per te la vita non è cara, Siate almen cara (ohimè!) per me tua madre, La qual' s'avesse amor, com ebbi un tempo Luogo e stanza nel ciel tra gli altri dei, Stella tra l'altre grande e rilucente, Ti stringerei tra le materne braccia; Così tu di periglio, io di timore Saremo entrambi fuore. Ma poiché ciò ne vieta il ciel nemico, E che son già vicini I termini fatali, I giorni, ohimè!, pericolosi tanto, Cedi, deh! cedi al fato, Soggioga alquanto i tuoi virili affetti, E queste vesti ch'io Solo per tua salute ho qui recate Non isdegnar; ma soffri Di veste femminil' andar ornato; Acciò da crudo e dispietato ferro Così tosto non sia lacera e guasta Della grand'alma tua la viril veste. Ma perché torci il guardo? Ah! che minaccian le sdegnose luci? Ti vergogni tu forse Che con questi ornamenti S'amollisca il tuo cuore? Per te, mio figlio, i' giuro, Giuro per l'acque de' congiunti mari Ciò non saprà Chirone il tuo maestro. Coro di donne che cantano e ballano: Corriam, veloce piede Mostra devota fede. Corriam a coglier fiori Per celebrar di Palla i sacri onori. Ecco già scopre un odorato Maggio Del sol novello il mattutino raggio. Thetide Par ch'in vista si sia cangiato e cangi Mirando sol di quelle donne il coro. Sì come amica mente Le seguita col guardo. Oh come a un tempo solo Arrossa, impallidisce, e suda, e trema. Questi d'amor son segni ch'io conosco; Egli ama certo, oh caso fortunato! Io ridurro con questo mezzo forte L'ostinato suo cor alle mie voglie. Vedesti, o figlio, quali Splendean, tra queste selve Fra quest'alpestre scoglio e quest'arene Beltà più che terrene? Non sotto l'agghiacciato Pelia ed ossa Miravan gli occhi tuoi Così rare bellezze Di cui, se vago sei, Ascolta per goderne i detti miei. Tra così dura impresa, Per cagione amorosa, Tra così belle donne Finger l'abito e 'l nome, Odi, mio figlio, come Ti coprirò con queste spoglie, e i crini Di chiome feminili T'innestarò con sì leggiadro modo Che qual vergine poi T'introdurrò nella bramata schiera Delle amate donzelle. Tu intanto ascolta, e fa de' miei ricordi Fida conserva, e quando il tempo il chieda A tuo pro te ne serve. Sia breve e lento il passo, Gli occhi sian parchi e le parole rare, Pronto il rossor, tarda l'audacia, e l'ira Del cor in tutto spenta. Così mentisci, me maestra, il sesso. Nel rimanente poi Segui quel che t'insegna Natura, Amor, l'occasïone e 'l Tempo. Achille O Achille, o da te stesso, O da principii tuoi tanto diverso, Che più non merti d'esser detto Achille. Sogni tu forse? Ah! non son sogni questi Sono degli occhi tuoi purtroppo desti Effetti, onde tu sempre Di te medesmo teco ti vergogni. Son questi i finti usberghi, e queste l'armi Ch'alla pugna apparecchi? Or' va guerriero invitto, Dell'asta invece, e fa fuggir con questa L'armate schiere a tua vergogna estrema. Ma che parlo? Che penso? E qual fierezza Chiudo nel petto? E qual crudo desio Sol di sangue e di strage, e sol di morte D'ogni umano pensier l'alma m'assale? Ho io di fiera il core, In cui sempre s'annida ira e furore? Fiera allor fui, che con le fiere io vissi, Or! son uomo, e mi pregio Che quest'anima mia Incominci a sentir gli effetti umani. Amor, da te l'umanità conosco. Che dico Amor? Anzi da te, mia donna, Che con la tua beltà, madre d'Amore, Rendesti in questa mia mente amante. O sesso, già da me tanto sprezzato Ed or tanto adorato. O donna, o santo dono, e santo pregio Del cielo e di natura, Quanto in virtù di tua bellezza puoi! Tu con questa dai vita a quell'affetto Ch'in vita cerca il mondo, Amor chiamato; Onde per te sol viene, e per te solo Caro sostegno suo non cade il mondo, L'uomo che più di te si pregia e stima, Perché di te più di superbia abbonda, Senza te che sarebbe? Un secco tronco, Una sterile pianta, e quel ch'è peggio Sarebbe in petto umano alma ferina. Ché, s'il sesso virile è mansueto, Tale tu 'l fai, e quanto ha di gentile, Di cortese e d'umano, S'ingrato egli non fosse, da te sola Riconoscer dovrebbe. Ma che tardiamo, o madre, A seguir il mio sole? Non più, non più parole. Ecco di nuovo appar, di nuovo s'oda La celeste sua luce ed armonia. Thetide Taci, mio figlio, mira solo et odi. Coro di Ninfe: Queste rose e questi achanti Saran' poi de' nostri amanti. Ch'esser può devoto un core E di Pallade e d'Amore. Amiam, l'Amor è nume, anzi guerriero; Bellona ha l'asta, ha l'arco il cieco arciero. Achille O sirene del cielo, Ch'in terra non son già cose sì rare Dalla bellezza del suo volto acceso, Dalla dolcezza di tua voce preso, Teco viene il suo core, Io 'l segno, a noi fido sia duce Amore. Thetide O ciel benigno, o fati amari, o Giove, Quanto, signor, la tua pietà mi giova. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Il Dittamondo Io dico che, seguendo, la mia spene m’incominciò a dir: "Tu se’ in Dalmazia: 5 per che con senno andare si convene, ché questa gente, per la lor disgrazia, benché sian nati del sangue di Dardano, pur non di men del mal far non si sazia. Son come tigri, ché par che sempre ardano 10 per uccidere altrui e per rubare e poco a Dio e meno ai Santi guardano. Una cittá fu giá qui lungo il mare, che diede il nome a questo paese ch’ è grande, onde per noi fa l’affrettare". 15 Cosí andando e parlando, discese in Epirro, che dal figliuol d’Achille, secondo ch’io udio, lo nome prese. Noi trovammo, cercando quelle ville, una fontana, dove l’acqua scende 20 fredda e sí chiara, che par che distille. Quivi, se l’uomo una facella prende accesa e ve la tuffa dentro, spegne; poi, se lungi la gira, si raccende. E perché chiaro ogni luogo disegne, 25 i Molosi son qui che da Moloso, figliuol di Pirro, il nome par che tegne. Non è qual fu di forma Oreste ascoso nel paese di Sparta e di Laconia, li quai cercammo senza alcun riposo. 30 Un monte v’è, il cui nome si conia Tenaro, ed èvi ancora lo spiraglio d’Inferno e qui si credon le dimonia. Per questi luoghi dandomi travaglio, presso a Patrasso nove colli vidi, 35 ch’ombra v’è sempre e non di sole abbaglio, Taigeta e ’l fiume; e di lá li piú fidi fan fe’ del prelio, che fu anticamente tra i Laconi e gli Argivi, e de’ micidi. Noi fummo dove andar solean le gente 40 al tempio di Castore e Polluce, ben ch’ora è tal che poco si pon mente. La galatica pietra quivi luce, utile a quella che ’l figliuol nutrica, ché natura ha ch’assai latte produce. 45 E, per quel che di lá par che si dica, Antea, Leuttra, Teranna e Pitina, ciascuna fu famosa e molto antica. Dal re Inacus il nome dichina d’Inaco fiume, che pare uno strale: sí corre, quando pioggia vi ruina. Vidi in Arcadia Cilleno e Minale: questi son monti e passammo Liceo, acerbo molto a colui che vi sale. Ancor notai il fiume Erimanteo, 55 cosí nomato da Erimanto duca, che per udita quivi si perdeo. L’albeston lí natura par produca, che a Giove in contro al padre fu difesa, sì come in molti versi par che luca. 60 La pietra è tal, che, poi ch’ella è accesa, mai non si spegne e somiglia a vederla di ferrigno colore e grave pesa. E come fra noi è nera la merla, candida è sí di lá, che par pur neve: 65 dolce a udire e bella a tenerla. Fama è quivi da gente antica e breve che Arcas ad Arcadia il nome diede, figliuol di Giove: e cosí l’hanno in breve. Io ti giuro, lettor, per quella fede 70 ch’io trassi de la fonte, che sol quello ti scrivo, che per piú autor si crede. Assai mirai, ma non vidi, il castello di Pallanteo, per quel che fece a Roma Evandro col figliuol, che fu sì bello; 75 ma pur tra quella gente vile e doma la fama è morta, sí ch’io dico bene che qual ne parla quello indarno noma. La vera Grecia fu dov’è Atene, la qual cittade giá si scrisse alonna 80 di ciascun ben, ch’a buon regno convene. Questa si disse sostegno e colonna d’ogni arte liberal, questa si tenne di filosofi antichi madre e donna. Ellenadon Deucalionis venne 85 re del paese e da costui poi move che la contrada Ellas dir si convenne. Qui vidi cose molte, antiche e nove; ma, per amor di Teseo, notai sassi Scironia prima che altrove. 90 Cinque monti con Icario trovai: Ebrieso, Egialo, Licabetto e Imetto, degno piú degli altri assai. Giunti a un sentiero solingo ed istretto d’un gran monte, Solin mi disse: "Vienne, 95 ché buon per noi è far questo tragetto". Grave era il poggio a salir tanto, che nne fece posar piú e piú volte; in prima tremâr le gambe e riscaldâr le penne, che noi fossimo giunti in su la cima. 100 |
Post n°946 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Intermezzo del signor Aluigi Putti. Arione parla. Intermezzo II Arione Deh! qual pietosa deitade eterna A questi lidi salvo oggi m'adduce? Qual divina virtù tanto comanda Al sordo mare e a le marine belve? Quinci chiaro si scorge Turba che miri, e ti stupisci quanto D'anima saggia i sommi divi han cura. Arione son' io, quell'Arione Ch'al suon di questa cetra Ispiro in umil cor nobil desìo, Et in nobil desio spirti divini; Dò spirto e senso all'insensate piante, Agli insensati e inanimati sassi! Ché non può dotta mano e saggia mente, Vivo onor di me stesso, ed in me stesso Quanto possa virtù si vede espresso. Nacqui in Metimna, e fra' Corinti poi A Periandro re sì caro i' vissi; Che se di quello onde la pazza schiera Del volgo sciocco vanamente è vaga Fossi anch'io stato ambizïoso amante, Entro i tetti reali eternamente Lungi da ogni altra cura avrei goduto Quasi a pari del re gioia e riposo. Poco io temea gl'invidïosi morsi Dell'invida famiglia, e m'eran poco Noiosi a l'alma adulatori insani. Non avean mai dentro al mio petto albergo Desìo d'onore, o cupidigia d'oro; Ma di mia sorte assai contento e lieto Vivea tranquilla e moderata vita, Nulla il soverchio desïando, e nulla Per la fortuna mia superbo, o vano Che di quello s'appaga alma prudente Che lice, e tanto quanto de' s'estolle. Ma che giova il goder? Stavo tranquillo, Noto a pena a sé stesso, e di sé stesso Entro angusto confin chiuder il nome. Preposi alfin d'onor la voglia ardente E vago anch'io di far' eterna al mondo La mia fama, ancor debile ed inferma, Poco stimando le grandezze e gli agi, Lasciai Corinto, e verso Italia bella Per lo salato mar drizzai le prore. Vidi Italia felice, ivi talora Cantai fra ninfe boscherecci carmi; Ed accordai con ruvida zampogna E con stridula canna umili accenti. Talor fra gente nobile e guerriera Snodai la lingua in più sublimi note, E fei qual'io mi fossi a tutti chiaro A regi ed a bifolchi, e fui non meno Ne' palagi Arïon che nelle selve. Cantai qual foco amoros'alma senta, Come beltà di donna impiaghi e scalda Amor, che spesso entro due lumi ardenti Di nascoso attendea l'anima al varco. Ad incauto amator feci palese Talor sotto soavi Parolette e sospiri, Sotto amorosi scherzi E sembianti amorosi. Scopersi altrui mirabilmente l'angue, Temprai d'afflitto cuor gli affanni e 'l duolo Col mio canto, e sovente Le tempeste acquetai d'alma sdegnosa. Cantai ebro di gioia e di dolcezza Le dolcezze talor d'alma felice. I dolci risi, i dolci vezzi, i dolci Ed amorosi baci, E quel dolce morire, Che dà vita al gioire. Così nell'arte mia mirabil mastro A tutti caro i' vissi, e ricco alfine Di gemme e d'oro, entro del cor mi nacque Un gran desìo di riveder Corinto. Oh fame empia dell'oro, a quali cose Non tiri tu gli avari petti umani? Gente cortese in apparenza, e piena Di scellerata voglia Sopra un securo legno allor s'offerse Di condurmi a Corinto. Io tutto lieto Con le cose più care il legno ascesi, E di placido mar solcammo l'onde. Fendea del lieve pin l'acuto rostro L'onda tranquilla, e de le bianche vele Gonfiava i lini a noi benigno il vento. Era tutto oggimai Dagli occhi nostri dileguato il lido, Quando l'avara turba, Ch'e poco dianzi sì benignamente M'accolse, allor tutta crudel m'assalse, E mi disse: Arione, oggi deponi Quant'hai di prezïoso in poter nostro. Così volean l'oro, le gemme, e quanto Io meco avea tutto rapirmi a forza. E per far che sepolto eternamente Fosse il lor disonesto, empio desire, Voleano il corpo mio gettar' a l'onde. Io che pregando molte volte indarno Tentai da lor ricomperar la vita; Alfin quando conobbi L'opra esser vana, una sol cosa chiesi, Che dei più degni vestimenti ornato Che meco avessi, e carco di quell'oro, Premio di mie fatiche, inanzi morte Cantar con la mia cetra una sol volta Potessi almeno il mio misero fato; E quasi novo cigno Intonar' io medesmo A me medesmo i funerali accenti. Trovò questa dimanda Pietà nel cor di quella cruda gente, E soltanto da lor pregando ottenni. Cantai qual mi vedete D'oro ornato e di gemme, in ricche vesti, In alta parte asceso, e dopo il canto Precipitoso io mi gettai nel mare. Abbian, diss'io, con la mia morte fine, Anime avare, il mio felice stato, Le mie ricchezze, e vostre inique brame. Allora, oh! mostro di pietà divina, Pronto al bisogno mio fra l'acque apparmi Un veloce delfin, che quinci ancora Fuor' de l'acque si scorge, e sopra il dorso Tosto portommi qual vedeste a voi, Onde ragione è ben che la mia lingua Canti oggi la pietà che mi die' vita, E quel pesce cortese, Che quinci anco si vede, e forse attende Grazie da me, grazie infinite io renda. Arione così detto, canta la seguente stanza: Eterni duci, che reggete il freno A vostra voglia de l'acquoso regno, Ceda il suo fulminar Giove sereno. Non vanno i suoi de' pregi vostri al segno, Il cielo eterno non racchiude in seno Di quel che sia fra voi pregio più degno; Non son fuori del mar grazie più rare, Poiché il mar di pietà si trova in mare. Poi si volta al delfino, e così dice: Te, cortese delfino, Che mi portasti al lido Con presto moto e fido Non ti lasci il tuo Dio Fra il numeroso armento Del liquido elemento; Ma sì cortese e pio Come esser' a te piacque Ti faccia un Dio de l'acque, Se pur ne l'acque sei, Fra pesci, come sembri, e non fra dei. Qui si parte il delfino, e seguita Arione e dice: Tu parti, ed io mi parto. Quella potenza che può farti eterno Del tuo corso e del mio tenga il governo. Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°945 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) O fortunato Glauco, or sì ch'hai fatto Una preda da uomo, anzi da mastro, Anzi da Dio nonché da uomo, o mastro; Non ti dorrai già più de la ventura. Mira un poco quai pesci oggi pretendi Da far' invidia a quei (così son' belli) Che guizzano immortai là su nel cielo, E se piacciono agli occhi, a quel ch'io credo, Privo non fia del suo piacere il gusto. Vadano i regi ambizïosi, alteri Di scettri adorni, e di corone e d'ostro, Portino il sen pien di spinose cure, E lor' combatta eternamente l'alma Dolor mortale ed immortal timore, Ché non fia mai che Glauco invidia porti. A le infelici lor felicitadi Me questa cura e questa vita giova, Povera sì; ma giusta ed innocente. Questa sete è il mio manto, e questa canna Lo scettro di pensier vuoto e d'affanni. Questi miei pesci sono il mio tesoro, Di vivo argento almen, s'ei non è d'oro. D'oro non è, ché con inganni e frodi O con ingiusta e vil arte s'acquisti, Qui non si vende, o non si cambia, o compra; Ma i don si godon della donatrice E madre de le cose, alma natura. O caro mio tesoro, o cara preda, Con che soavità, vien' ch'io ti miri Traggansi avanti que' superbi duci, Ch'hanno di ferro insieme il core e l'armi; Guidino armate schiere, empian di strage E di sangue, e di morte il mondo tutto: Portin mille corone, abbian d'intorno Al carro trionfal misera pompa Di presi e vinti innumerabil stuolo. Io non invidio lor, né cangerei Con tutte le lor' palme e spoglie opime Una del pesce mio minima squama; Né già sarebbe ciò senza ragione, Ché non s'agguaglia a pura e giusta preda Come è la mia, preda nefanda e cruda, Di sangue uman contaminata e brutta. Questa mia preda a me natura insegna, Ond'io sostenga la mia vita frale; Ma da la lor torse natura il guardo, E son di lor' ministri ira e furore, Cupidigia, violenza e feritade. Segua in somma chi vuol Marte brutale, Io vo' seguir Nettuno, e la sua caccia, Non già quella de' monti e delle selve, Ch'ancor che quella sia com'è la nostra, Arte innocente di natura anch'ella, Bisogna che d'ingegno almeno e d'arte A la caccia del mar ceda e s'inchini. Il seguir' animal fugace in terra Nel tuo elemento, in cui tu fermi il piede E stender gli occhi ov'egli stende il corso Qual meraviglia è questa? E se tu 'l giungi Perché sia vinto da stanchezza, o vero Perché l'arresti o fossa, o fiume, o monte, A creder mio non è mirabil cosa; Ma tentar elemento altrui, non nostro, Il seguir fere agli occhi istessi ignote E con mille argomenti in fiumi e in laghi E nell'istesso aperto, immenso mare Farle prigione ov'han' libero il nuoto, Oh! questa sì ch'ogn'altra industria avanza. Però non fia già mai ch'io lasci, o cangi Per studio alcun questo mio nobil studio Quel domar tutto il dì la terra arando A me non piacque mai, né fia che piaccia. Troppo è lungo aspettar un anno intero De le fatiche e de la terra il frutto; Ove i campi del mar fruttano ogn'ora: Il pascere curar gregge ed armenti, E un servo divenir de' servi suoi. Io vuo' dunque seguir quest'arte mia, Utile, onesta, ed ingegnosa e degna Dei primi abitator', del cielo eterno, E ben' esser' ne de' stimata e degna, S'il maggior Dio che sia fra tutti i dei Non isdegna seguirla; io dio Amore, A cui già l'insegnò fin dai primi anni La bella madre sua che nacque in mare. E pescator Amor e non guerriero, Com'altri vuole, anzi com'altri sogna; Ché s'egli in atto di ferir armato Agli occhi nostri si mostrasse, e quale Sarìa quel cor così securo e franco Che non fugisse spaventato altrove? Ma vien' celato Amor, che tu nol' vedi; E quando in chioma d'or' vien, che s'appiatti, E quando nel seren di duo begli occhi Talor tra i fiori di vermiglie guancie, Talor s'asconde tra fiorite labbra, Qui tende mille insidie e mille reti, Ond'egli colga i miserelli amanti. Assai sovente ei suol pescar all'amo E l'adesca talor con dolce riso. Talor con un soave, onesto sguardo, E quando d'un vezzoso atto gentile, O di melate parolette il cuopre. Come l'anima incanta e desïosa, E s'avventa a predar l'esca divina, E d'amor resta preda, anzi di morte. Quinci le donne, che compagne sono Di Venere e d'Amor son date a l'arte Sol di pescar, e pongono in pescare Tanto studio, che lor darebbe il core Prender pescando anco l'istesso Amore. E ben per prova io 'l so, ch'ancor ch'io sia Sì scaltro pescator, fui preso anch'io Dalla più bella, e più leggiadra e vaga E gentil pescatrice, e pellegrina, Che nell'onde d'Amor unqua pescasse. Ma dove mi trasporta estrema gioia A così ragionar? S'altri m'udisse Mi stimerebbe pazzo, ov io son lieto. Meglio fia che la dolce, amata preda Io posi in grembo a quest'erbetta molle, E ch'io procuri ormai che questa rete, Che Nettuno bagnò, Febo rasciughi. E uno, e due, e tre, e quattro, e cinque, Ma fia meglio contarli alla capanna. Quand'io vi miro ben, siete pur belli Ancorché morti, io vuo' stender la rete. Qui stende Glauco la rete, e intanto canta una frottola; poi soggiunge queste parole: Ohimè! che veggio? Ohimè! Dunque se n' fugge E non posso, ed è vero. Pur' era morta. Oh meraviglia! E come? Ma io son' desto, o sogno, Son vivo, o morto? Ah! che son vivo e desto, E veggio la mia preda, e veggio il vero. Già ne l'onde fuggita, Né posso ristorar il mio gran danno. Ahi! son le leggi di natura rotte, O è mutato in ciel novo consiglio Che si racquisti la perduta vita? È quest'opra stupenda Di qualche deità, sacra et occulta, O pur del suco di quest'erba è forza? Ma qual puote aver mai virtute un'erba? Vuo' pur far prova che sapore abbia. Ohimè! ch'è quel ch'io sento? Son io, o non son io? Tutto sento cangiarmi. Deh qual novo desìo, anzi furore Mi rapisce a bramar nova natura? Star più non posso, o terra, Mai più da me per non vedersi a Dio. Io vengo, o mar, io vengo a mutar mondo, Siimi cortese del tuo sen profondo. Qui sorgono quattro ninfe del mare, mentre che Glauco entro vi si immerge e cantano il seguente madrigale: Vieni, o felice Glauco, Dal cielo amato, sì ch'ei si compiacque Farsi d'uom della terra un dio de l'acque. Vita innocente e pura A goder si conduce alta ventura, Che mai bontà senza mercede eterna Non lascia il giusto dio ch'il ciel governa. Una delle ninfe parla dopo ch'hanno cantato insieme: Avventurato Glauco, Quanto lodar ti dei D'esser consorte in mar degli altri dei. Ma non minor in noi la gioia nasce Che facci in te dall'esser tu beato, La nostra per l'altrui gioia s'avanza Come lume per lume, E quinci risonar' hai forse udito Quando sei giunto in questi salsi umori: Ecco chi crescerà li nostri amori. Qui Glauco in fra le ninfe in mazzo l'acqua parla e dice: Di gioia e di stupor sì pieno ho il core Ch'io non so se sia vero, ed è pur vero, Che mia natura frale Sia cangiata in divina ed immortale. O provvidenza eterna, Quando fia mai ch'io ti ringrazio e lodi? Già di render le grazie io non mi vanto, Se non m'aìta, o ninfe, il vostro canto. Qui le ninfe e Glauco cantano insieme il seguente madrigale e poi si partono ed attuffansi in mare. Ogni cosa creata Ben deve al suo fattore Donar quanto più può gloria ed onore. Ma noi con qual misura, o con quai modi Canterem le sue lodi, Se sopra noi senza misura piove La gloria di colui che 'l tutto move? Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Il Dittamondo cosí mi disse lo mio vivo lume. E io a lui: "Va pur, ch’io son disposto 5 a te seguir con l’ali e con le piume". Indi si mosse e io altresí tosto e, giunti al mar, salimmo sopra un legno, ch’andava dritto ov’io avea proposto. Per questo modo appunto ch’io disegno, 10 in Lipari passammo, cosí detto da Liparo, che in prima tenne il regno. Senza smontare, con benigno aspetto m’incominciò il mio consiglio a dire: "Apri l’orecchie qui de lo ’ntelletto. 15 Tu dèi pensare al cammin che de’ ire; se ben dovessi ogni isola cercare, col tempo ch’ai nol potresti fornire. Per ch’io l’abbrevierò, senza l’andare, additandoti sempre, quando andremo, 20 dove son poste e come stanno in mare. Per queste parti, lá dove ora semo, quattro ne sono nominate poco, ché ’l ben, piú che non suol, n’è ora scemo. Iera è l’una, che per lo molto foco 25 che fuori sbocca, a Vulcano è data per fabbricare e posseder quel loco. Ad Eolo re è Strongile sacrata, per li gran venti ch’escon de la foce, mortali e fieri alcuna fiata. 30 Ancor per tutto è nominanza e voce come Erifusa e Fenicusa aora Venus per dea e a lei fan la croce. Dal mar di Pisa in fino a qui ancora 34 tu truovi la Gorgona e la Caprara, 35 Pianosa e dove Giglio fa dimora. L’Elba in fra l’altre vi par la piú cara, sí per lo molto ferro e per lo vino, per Capolivro e ’l Porto di Ferrara. E truova chi ben cerca quel cammino 40 Ponza, Palmara, ch’Astura vagheggia, quando ’l tempo è ben chiaro e pellegrino. E cosí, ricercando questa pieggia, non si convien che Bucetta si lassi, che con Gaeta ognor par che si veggia. 45 Ancor si truova l’Ischia in quei compassi e Capri: e queste stanno in contro a Napoli sí presso, che vi vanno in brevi passi. Gli abitator vi son subiti e vapoli: lodano Dio coloro che vi vanno, 50 se senza danno da lor sono scapoli. Contro a Scalea e Andreano stanno Didini e la Micea e questa gente la via di Conturbia spesso fanno. Or puoi veder ch’io son, se ben pon mente, 55 venuto in su la punta di Calavra, a onde, sempre, come va il serpente. E perché il vero a l’occhio tuo ben s’avra qui la piú parte al modo di Grecia parlano e hanno costumi di cavra. 60 Ora mi volgo al golfo in vèr Venecia, dove isolette sono assai, ma tale che per me poco ciascuna si precia: perché la cosa tanto quanto vale dee l’uom pregiare e chi tiene altro modo 65 inganna altrui e spesso a sé fa male". Qui si taceo; e io ch’a nodo a nodo legato avea nel cuor le sue parole, li dissi: "Ciò che di’ intendo e odo. Ma fammi chiaro ancor, vivo mio sole, 70 da cui derivan questi tanti nomi, che ’n questo poco mar la gente tole". Ed ello a me: "Per li superbi e indomi pelaghi, venti e scogli, che l’uom trova da Pisa al Corso, in fin ch’al Sardo tomi, Leone è detto, e poi par che si mova da Liguria il Ligur, la cui pendice tien quanto mare il Genovese cova. Ionio da Io ancora si dice e da Adria cittade l’Adriano, 80 la qual di qua fu giá molto felice". Cosí, per non passare il tempo invano, ragionavamo insieme ed ello e io sempre di quello che m’era piú strano. Passato noi Suasina, udio 85 dire al padrone: "Durazzo ci è presso, dove Giulio Cesar giá fuggio". "Buono è smontar, disse Solino, adesso". E io a lui: "Quel che credi che sia lo miglior, fa, ché tu sai qual’è desso". 90 Indi scendemmo e prendemmo la via. |
Il Dittamondo Dubbio non è, e fama n’è tra loro, che da Mesen, che fu d’Enea trombetta, 5 lo nome prese, al fin del suo lavoro. "Qui puoi veder, disse Solin, la stretta lá dove Silla si converse in mostro e puoi udire i mugghi che vi getta. E guarda come col dito ti mostro: 10 vedi Reggio in Calavra, lo qual mira con diece miglia e men dal lato nostro. Ma vienne omai, ch’altro disio mi tira e fa che spesso muovi la pupilla al dolce e bel paese che qui gira. 15 Etna vedi, che il fuoco sfavilla per due bocche, con mugghi, in su la vetta, sí che vi fa tremar presso ogni villa. E, con tutta la fiamma che fuor getta, veder si può canuto in tutto l’anno, 20 sí come un vecchio fuor di sua senetta. Quei di Catania in contro al fuoco vanno col corpo di Colei, che per dolore vinta non fu da Quinzian tiranno". Nel prato fummo, dove fior da fiore Proserpina scegliea, quando Pluto subitamente ne la trasse fore. E poi che ’l lago fu per noi veduto de’ cigni, ci traemmo a Siracusa per quel cammin che ci parea piú tuto. 30 Questa cittade per antico è usa d’essere prince e donna di ciascuna altra, che veggi in questa isola chiusa. Dedalo fabbro, dopo la fortuna acerba del figliuol, qui si governa 35 con altri Greci che seco rauna. Miracol pare a uom, che chiar dicerna, che qui udii che mai giorno non passa che ’l sol non apra chiara sua lucerna. Due monti vidi, de’ qua’ ciascun passa 40 gli altri d’altezza, Etna ed Erice; a Venus l’un, l’altro a Vulcan si lassa. E vidi ancor, cercando le pendice, Nebroden e Nettunio alti tanto, che due mar veggon, per quel che si dice. 45 Passato ca’ Passaro e volti al canto di Pachino, vedemmo andare a frotta tonni per mare, che parea un incanto. Passato Terranova e le sue grotta, e Gergenta, puosi a l’Africa cura, 50 che guarda in vèr Libeo e parne ghiotta. Dubbio non è che per la sepoltura di Sibilla, che fu sí chiara e vera, al castel di Libeo la fama dura. Ne l’isola dir posso che Cerera 55 sí per li cieli e sí per gli alimenti sí come donna, quanto altrove, impera. Uomini sottili ed intendenti v’ingenera natura e temperati con bei costumi e con buoni argomenti; 60 volti di donne chiari e dilicati, con gli occhi vaghi quanto a Venus piace, onesti e ladri in vista, se li guati. Poco par posto il reame a aver pace per le male confine e per la gente 65 aveniticcia, che dentro vi giace. Maraviglia mi parve, a poner mente, lo sale agrigentin fonder nel foco e in acqua convertir subitamente. E vidilo, ch’ancor non mi fu poco, 70 gittatolo ne l’acqua, con istrida scoppiarne fuori e non trovarvi loco. Cosí andando dietro a la mia guida, notava de le cose, ch’io vedea e ch’io udia da persona fida. 75 Io fui tra i monti, dove si dicea che Ciclopis venia alcuna volta a donneare e pregar Galatea. Apresso, noi venimmo a dar la volta dove trovata fu la comedia, 80 secondo che per molti lá s’ascolta. Diverse cose ragionare udia di natura di canne, tanto sono dolci a sonar ciascuna melodia. Non vo’ rimanga ascoso e senza sono 85 il campo agrigentin, ché, se non erra colui con cui dí e notte ragiono, quivi sempre esce terra de la terra. L’isola tutta, a chi gira il terreno, vede, per vero, che si chiude e serra 90 con tre milia stadi e non con meno. |
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