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Messaggi del 17/01/2015

Il Dittamondo (5-01)

Post n°1074 pubblicato il 17 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO I

La vela data al vento e volti a l’Africa, 
lassando de l’Europa ogni bel seno, 
passammo tra la gente acerba e africa. 
Era il tempo lucido e sereno, 
allegra l’aire e con soave vento, 5 
il mare quieto e di riposo pieno. 
Ed era il sol poco piú giú che ’l mento 
del Montone e la luna vedea 
sí viva, che ciò m’era un gran contento. 
E come gli occhi a la poppa volgea, 10 
vidi Plinio giacere sopra un letto, 
secondo che ’n Verona visto avea. 
Vèr lui mi trassi e tanto fu l’affetto, 
che l’abbracciai nel loco dove era; 
poi mi puosi a seder nel suo cospetto. 15 
E come il sol nascose la sua spera, 
cantaro i marinai Salve regina 
sí dolce, quanto in Siena mai la sera. 
Partita quella gente pellegrina, 
incominciai: "O caro padre mio, 20 
non perdiam tempo per questa marina. 
Tu sai il mio voler, tu sai il disio". 
Per che rispuose, levatosi in piei: 
"In un pensiero eravam tu ed io". 
Poi cominciò: "Lo zodiaco dèi 25 
in tutto imaginar dodici segni, 
de’ quali ora di sopra ne stan sei. 
Compresi son questi dodici regni 
da sette stelle donne e capitane 
de l’altre, perché han raggi assai piú degni. 30 
E l’una sopra l’altra in modo stane, 
che ciascuna ha sua spera, o vuoi dir cielo 
per lo qual sempre con ordine vane. 
L’ottavo sopra questi sette isvelo 
di stelle adorno assai lucide e fisse, 
e qui la tramontana aviva il gelo. 
Lo nono imaginar convien, mi disse, 
dove la gran vertú e la potenza 
di Dio piú viva vive e sempre visse. 
Or ciascun cielo ha la sua intelligenza, 40 
diversi moti e diversa natura 
e sopra noi, qua giú, nuova influenza. 
Ma qui fo punto; e tu, figliuol, pon cura 
vèr ponente con gli occhi de la fronte, 
e con quei de la mente il dir figura. 45 
Al fin del tuo mirare è l’orizzonte: 
Aries è lá, lo qual per Giove Ammone 
si crede, con le corna adorne e conte. 
Esiodus vuole che sia quel montone 
ch’a l’isola di Colcos puose Friso, 50 
del quale il vello ne portò Iansone. 
Cinque e dodici stelle ti diviso 
per lo suo corpo e, se le vuoi notare, 
dov’io mostro col dito volgi il viso. 
Di Marte il segno dèi imaginare 55 
che è diurno, mobil, masculino: 
quel significa che suo simil pare. 
Seguita il Toro: tien la testa e ’l crino 
rivolto a dietro e credesi quel bove, 
ch’uscia del Nil sacrato, e Serapino. 60 
Piace ad alcun che sia quello in cui Giove 
si trasformò, quando Europa tolse 
in Libia e per lo mar la trasse altrove. 
Similemente fu alcun, che volse 
che Io fosse, che Giuno trasforma 65 
in vacca, onde Argo la morte ne colse". 
Diciotto stelle per la sua gran forma 
mi divisò fra l’altre, e tutte belle; 
notturno, fisso, feminin si conforma. 
Poi disse: "Guarda ne la fronte quelle 70 
le quai da’ savi Pliade son dette 
e che i volgari chiaman Gallinelle. 
E da molti Subucole si mette, 
ch’allattâr Bacco; e Venus quivi regna 
e significa i tori e le lor sette. 75 
Lo Gemini apresso par che vegna, 
dove i due frati Castore e Polluce 
deificati ciascun si disegna. 
Dodici stelle ne’ membri lor luce; 
umano è il segno e gli uomini significa; 80 
comuno il truovi e Mercurio n’è duce. 
Ma vedi il Cancro, ch’ancor si glorifica 
ch’a Pallas diede ingegno e argomento, 
onde la sua tintura piú fortifica, 
e perché fece Ercules attento 85 
a farsi innanzi, quando l’idra vide 
uscir de l’acqua, onde prese spavento. 
Or questo segno il suo Fattor provide, 
sí come fece in tutte l’altre cose, 
che fosse de la luna e ch’ella il guide. 90 
Sei chiare stelle nel suo corpo pose; 
ogni animal che retrogrado vada, 
che viva in acqua, sotto lui dispose". 
Poi disse: "Un poco in vèr levante bada: 
lá è il Leone, ch’Ercules uccise 95 
in Nemea selva, e vien per la sua strada. 
Del sole è il segno; e qui vo’ che t’avise: 
cinque sono i pianeti che han due segni 
e tra la luna e ’l sol due ne divise. 
Tigri, leopardi e ancor altri degni 100 
e feroci animai di simil sorte 
di sotto a lui par che si disegni. 
Tredici grosse stelle li son porte. 
Ma guarda Virgo, ch’Erigon si crede 
che Icaro, il padre, trovò dopo morte. 
Di questa Virgo Esiodus fa fede 
che figlia fu di Giove e di Diana; 
ma in altro modo Aratus procede. 
Ogni vergine cosa, santa e sana, 
pura e netta, significa costei; 110 
in vista, mostra angelica e umana. 
Mercurio regge questo segno e lei". 
Apresso mi mostrò a parte a parte
e nominò sedici stelle e sei,
ch’avea per l’ali e per le membra sparte. 115

 
 
 

Rime di Celio Magno (174-187)

Post n°1073 pubblicato il 17 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

174

[A Virginia Salvi]

Donna, fonte di grazia e d'onestate;
pianta di frutti preziosi e cari;
madre di nova dea degna d'altari
e specchio eterno a la futura etate;

vostro, vostro è quel pregio onde m'alzate:
ch'ebb'io per me troppo i cieli avari.
onde, acciò che l'un sol l'altro rischiari,
l'alta vittoria voi cantando ornate.

Che lodar me sembra un vestir d'or fino
piombo che torna tosto in suo colore,
spogliando quel che giusta gloria attende;

sol basti a me che raro alto destino
grazia mi fa del vostro nobil core,
ch'amando solo altrui felice rende.

175

[A Beatrice Salvi. Primo]

Qual per dolce liquor che 'l gusto inganni
misto diletta un cibo amaro e vile;
o qual oscuro corpo appar simìle
a bel color ch'in vetro il guardo appanni;

tal, mentre vinti i Traci empi tiranni,
lieta e vaga materia oltr'ogni stile,
Beatrice, io canto: il mio sir aspro ed umìle
v'alletta e piace adorno in falsi panni.

E perché ancor via più s'asconda il vero,
l'ornate in rime voi sì dolci e care
ch'altro cibo, altro bel l'alma non vuole;

così acquistan dolcezza e lume intero
da gloria e cortesia che non ha pare,
del mio canto i concetti e le parole.

176

[Secondo]

O mia sorte beatrice, o cari inganni!
O nobil del mio pregio esca e focile!
Pur m'è dato per voi da Battro a Tile
volando gir con gloriosi vanni.

Chi spera in premio mai, benché s'affanni,
quel ch'a me giunge in don, ricco monile?
Qual ragion, che non sembri invidia ostile,
fia più che 'l mio dir basso incolpi e danni?

Dunque agli eroi che l'alte imprese fero
e di virtute al sol ch'in voi m'appare,
questo cor renda grazie eterne e sole;

e mentre ancor basciar presente spero
la bella man che sì mi volse ornare,
a star l'anima mia con voi se n' vole.

177

Sopra l'arte del predicare di fra Luca Baglione

Qual di steril terren translata pianta
in più feconda e fortunata parte
tutta ravviva e le sue braccia sparte
di nova e ricca pompa orna ed ammanta;

tal del ben dir per la tua destra santa
fuor del suo nido uman translata l'arte
nel divin campo de le sacre carte,
di più bei frutti e fior si gloria e vanta.

Cogliete i dolci pomi, anime ardenti,
di questa pianta, a Dio cara e gradita;
né l'essempio d'Adamo alcun spaventi:

ch'ove di quei gustando allor tradita
fu vostra pace, or fian questi possenti
darvi, colti da voi, perpetua vita.

178

[A Francesco Melchiori]

Fu 'l tuo dolor, qual cieca nebbia, spinto
da quel sol di virtù che t'orna tanto;
Che tu ben sai quant'uom vaneggia e quanto
perde nei lacci ognor del senso avinto.

E te mie rime già nel corso accinto
nulla spronar, bench'io me n' pregio e vanto;
ch'anch'io chiaro per ciò ti splendo a canto
de' tuoi raggi cortesi adorno e cinto.

Sol per te dunque oscura e transitoria
non fia mia Musa, e 'l gran Leon robusto
sol del mio pronto e buon voler si gloria;

né in ciò me pur, ma lodar fora ingiusto
Omero ancor: ché a sì degna memoria
ogni tromba, ogni lauro è premio angusto.

179

[In morte del signor Estor Martinengo]

Dunque sì tosto avara morte il ciglio,
Estor, t'ha chiuso? Onde in lugubre veste
piangon, quasi due madri orbate e meste,
Brescia e Vinezia un lor sì nobil figlio?

Dovea pur il valor, l'alto consiglio,
le voglie solo a vera gloria deste,
e quanto man ti diè larga celeste,
render pio di quell'empia il fero artiglio.

Ahi, ch'anzi te per ciò più presto giunse:
ch'uom che farsi immortal per fama soglia,
sempre d'ira e d'invidia il cor le punse;

e trionfando in te di nostra doglia,
dice or che de la tua mai non s'aggiunse
a' suoi trofei più gloriosa spoglia.

180

[A Orsatto Giustinian e Domenico Venier]

Dolce lite cortese; ove chi cede
vince, et ad ambo vien gloria e diletto;
ov'io da Febo in grazia arbitro eletto
dirò qual nel mio cor sentenza siede.

L'un quel c'ha certo in man fa dubbio e chiede,
e spron giunge a voler pronto e perfetto;
l'altro amando aver dee tema e sospetto
ch'andar possa virtù senza mercede.

Prega l'un dov'ha imperio; in vista agghiaccia
l'altro bench'arda, e i cor più freddi accende;
e 'l ver ciascun seguendo il falso abbraccia.

Ma tutto cortesia scusa e difende:
e 'l canto e 'l merto in voi che l'alme allaccia,
ambo d'ogn'alto onor degni vi rende.

181

A Orsatto Giustinian]

Spesso per te goder da me si parte
l'alma, ove al corpo or è 'l camin preciso;
e quando al mio sembiante il guardo hai fiso,
ivi si loca, e sua virtù comparte.

Quinci io non men nel dolce inganno ho parte
mentre me scorger vivo in lui t'è aviso;
e benché lungi, a te vicino assiso
pasco il digiuno, e 'l cor consolo in parte.

O forse anco da te l'error si crea:
perché 'l desio, ch'ognor di me ti strinse,
dipinto agli occhi tuoi m'avviva e bea.

Che spesso ancor a' miei sì propria finse
amor tua imago, ovunque io li volgea:
che lei per vera ad abbracciar mi spinse.

182

[A Domenico Venier]

Deh, s'allor che regnar Venere e Marte
a' voti altrui da strano amor conquiso
d'un corpo umano in duro avorio inciso
le membra fur di novo spirto sparte;

perché mia pinta effigie, onde appagarte
a pien non puoi mentr'è l'occhio deriso,
farsi viva non vedi? E d'improviso
formar parole, e di stupor colmarte?

Che, stando or qui lontan per sorte rea,
ivi al valor ch'a te quest'alma avinse
vicin servir potrei, qual già solea.

Ma se 'l merto di mille in te ristrinse,
mille ancor Celii il ciel formar dovea
per l'affetto agguagliar che 'l cor mi cinse.

183

[A Orsatto Giustinian]

Qual rara sorte o qual celeste mano,
dolce amico diletto, il laccio ordio
Ch'i nostri cor sì strettamente unio
che d'essempio simil si cerca invano?

Tu de l'anima mia desir sovrano,
porto a' tristi pensier del petto mio;
a te primiera e dolce cura anch'io,
anch'io tuo porto in questo flutto insano.

Felice nodo e degno sol che giunto
par d'amici sì raro, eterno tegna
o con noi manchi in un medesmo punto;

perché qualunque morte innanzi spegna,
l'un pensando da l'altro esser disgiunto,
mille morti a provar lasso non vegna.

184

[A Tommaso Stigliani]

Stigliani, ov'è Cartago? Ov'Ilio stesso,
nobil ricchezza dell'etate antica?
Tutt'edra vile e roza terra implica
perc'han del tempo al duro imperio cesso;

solo all'arte è d'Apolline permesso
fuggir per lunga età Lete nemica.
Non spregiar tuo tesor, ma t'affatica
con altri studi a non lasciarlo oppresso.

Tuo però primo culto il lauro sia,
ch'a lui nascesti. E s'util cerchi altronde,
ciò fia per solo reggerti in tal via.

Che quando di chi avvien ch'oggi circonde
porpora, ogni memoria estinta sia,
vivran tue carte a null'altre seconde.

185

[A Giovan Battista Marino. 1]

Soverchio è ch'Amor cerchi a sue facelle
altr'esca in cielo, ed al su' onor sostegno:
bastan qui gli occhi del mio nobil pegno
per eterne dei cor fiamme novelle.

E son le Muse a me scarse, non ch'elle
ergan mio canto di tue lodi al segno;
che se ritrar tanta beltà m'ingegno,
sembro di vano ardir guerriero imbelle.

Ben tu, cui s'apre la Castalia vena
non men ch'a Febo, hai forze eguali al pondo
da celebrar l'alma mia dea terrena.

Ma taci: ché 'l tuo dir dolce e facondo
può, lei furando, a me farsi mia pena,
e cangiar anco in foco il mar profondo.

186

[2]

Mentre, Marin, di gloria al sacro monte
con franco volo alto valor t'estolle,
qual Pegaso col piè toccando il colle
nascer fai de le Muse un novo fonte.

Questo fra l'acque più famose e conte
di dolcezza al mel d'Ibla il pregio tolle,
e 'l pensier d'agguagliarlo è non men folle
di quel per cui dal ciel cadde Fetonte.

Specchiansi lauri e palme in sue chiar'onde,
e di natura e d'arte ogni tesoro
col rio si versa a le beate sponde.

Te dunque il mondo ammiri; e col suo coro
Febo stesso ti canti, e scarsa fronde
al tuo merto divin stimi il suo alloro.

187

Saggia norma non è con voglie ardenti
l'ali sempre tener tropp'alto tese,
né, sol mirando a troppo basse imprese,
rader il suol con vanni pigri e lenti.

D'Icaro il folle ardir gli altri spaventi,
ché mentre ai rai del sol vicino ascese,
privo di penne in precipizio scese,
i suoi caldi desir fra l'onde spenti.

Così chi mai non erge ardito il volto
ove al poggio d'onor virtù l'invita,
giace, palustre augel, nel fango involto.

Dedalo infra gli estremi il mezzo addita:
per cui con volo a miglior fin rivolto,
fa sicuro camin l'umana vita.

 
 
 

I Trovatori (3)

Post n°1072 pubblicato il 17 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

XXXI. Qui è d' uopo osservare che i trovatori, e' menestrelli, e' giullari provenzali, erano, la più parte, persone vagabonde, che facevano della giulleria un mestiere, e trovando nei costumi del loro secolo ampia materia allo loro poesie amatorie licenziose, e nelle imprese cavalleresche, argomenti da adular i potenti, se n' andavano col liuto ad armacollo, per città e per castella, declamando versi, facendo ad un tempo da comici e da buffoni (in lor linguaggio, giullari), cercando collo strano vestire, e col pazzo operare, di attirarsi ad ogni modo l'attenzione della gente; a tutt' altro pensando, fuorché a darsi la briga dì attingore alle pure fonti dell' antichità, come fecero gl' ilaliani, i princìpi ragionati del vero gusto e della buona morale.

XXXII. Questo spregevole costume, checché ne dica il Galvani, non si trova mai presso i trovatori italiani e tutti, (come si può veder nella storia universale, e nelle loro biografie) tranne qualche rara eccezione, seppero rispettare e far rispettare il loro nobile carattere. D' altronde lo spirito della nazione italiana al sorgere di tante repubbliche, all' apertura di tanti parlamenti, si era a mano a mano elevato; e gli era d' uopo trovar ne' suoi bardi un sentimento conveniente al suo novo modo di vedere e di sentire. Non confondiamo i trovatori coi buffoni e co' saltimbanchi; perchè se in altre contrade, e segnatamente in Provenza e in Francia, si videro trovatori avvilirsi a tal segno, da mostrarsi oggetto di riso e di scherno al volgo ignorante; non si trova presso di noi, fuorché nei romanzi, alcun trovatore italiano di qualche nome, che andasse girando il mondo, col liuto ad armacollo, raccontando le sue vere o finte, strane e pazze avventure.

XXXIII. Or che si dovrà pensar dei giudizi dati dal Crescimbeni sui primi nostri trovatori, in qual conto dovrem noi tenere la sua strana opinione suU' origine della nostra volgar poesia? Come potò il Ginguené affermare, che sino al secolo XIII gl'italiani non ebbero lingua, e che fino al secolo XIV non ebbero una determinata favella? Come potò il Galvani asserire, che moltissimi italiani del dugento e del trecento abbandonarono la loro lingua per seguir la provenzale? E dove lascia la gloriosa schiera dei trovatori italiani del libro reale vaticano, contenente le rime di non meno di cento trovatori itahani, tutti anteriori a Dante Allighieri? E quali magnifiche poesie ! Nò può dirsi che tutte le rime dei trovatori italiani sian contenute in quel solo codice, benché quel codice solo contenga più poesia che non hanno tulli i trovatori provenzali riuniti. E forse che non troviamo noi la lingua e la poesia italiana già delerminata e colta e illustre nella prima meta del mille cento? E chi ha coltivata, chi ripolita, chi tanto aggentilita quella lingua italiana e del poema in nona rima, e della romanza del re di Gerusalemme, e del lamento dell' amante del crocialo di messer Rinaldo d' Aquino, se non i trovatori italiani anteriori ai provenzali?

XXXIV. Che la poesia ilaliana poi abbia avuto origine in Sicilia e non in Provenza, lo affermano Dante Allighieri, e il Petrarca. Dante, nel libro della volgar eloquenza, dopo aver ragionato dell' eccellenza del siciliano su tutti i volgari italiani, scrive : «Primieramente esaminiamo il volgar siciliano, perciò che pare che esso volgare abbia avuto fama sopra gli altri, conciossiachè tulli i poemi che fanno gì' italici si chiamano siciliani, e troviamo molti dottori di quel regno aver gravemente cantato.... Or questa fama della terra di Sicilia, se diriltamente guardiamo, appare solamente che per obbrobrio degl' italiani principi sia rimasa, i quali non più al modo degli croi, ma alla guisa della plebe, seguono la superbia. Ma Federigo Cesare, e il ben nato suo figliuolo Manfredi, illustri eroi, dimostrando la nobiltà e drittezza della sua forma, mentre che fu loro favorevole la fortuna, seguirono le cose umane e le bestiali sdegnarono. Il perché coloro che erano d' alto core e di grazie dolati, si sforzarono di aderirsi alla maestà di sì gran principi, talché, in quel tempo, tutto ciò che gli eccellenli ilaliani componevano, tutto primamente usciva alla corle di si alti monarchi. E perchè la loro sede era in Sicilia, accadde che tulio quello che i predecessori nostri composero, si chiama siciliano; il che ritcnemo ancor noi, ed i nostri l^osteii non lo potranno mutare». E il Pclrarca nel Trionfo d' Amore:

Ecco i due Guidi, che già furo in prezzo,
Onesto bolognese, e i siciliani
Che già fur primi.

Dove e' dice che i siciliani furono i primi trovatori in lingua volgare, e insegnatori agli altri italiani, dai quali poi furono superati, come dimostrano i fatti, i documenti, la storia e la ragione.

XXXV. Più chiaramente ancora si espresse nella dedicazione delle sue epistole famigliari a Socrate, ove disse di avere «scritto alcune cose intese a dilettare gli orecchi de' popoli, usando le leggi proprie de' volgari; il qual genere, come suona il grido, essendo ritornato in vita fra i siciliani, in breve di la si era sparso per Italia tutta, e ultimamente più lontano». «Determinando apertamente, prosegue il Castehetro, colle predette parole, che i provenzali, non solo non erano stati i primi trovatori della poesia, anzi l' avevano presa dagl' italiani, i quali l' avevano presa dai ciciliani».

XXXV. Quantunque si citino alcuni saggi di rime di un conte del Poetou, che fioriva nella prima meta del duodecimo secolo, i primi trovatori provenzali conosciuti in Italia furono:

Beltrame di Bornio, che fioriva nel 1178.
Piero di Vernigo, che fioriva nel 1178.
Elia di Bargiolo, che morì nel 1180.
Guglielmo da Agulto, che morì nel 1181.
Guglielmo da San Desiderio, che morì nel 1185.
Arnaldo Daniello, che morì nel 1189.
Guglielmo Ademaro, che morì nel 1190.
Contessa di Die, che morì nel 1195.
Ramondo Giordano, che morì nel 1206.
Folchetto di Marsiglia, che morì nel 1215
Guglielmo di Cabestano, che morì nel 1215.
Ramondo di JVliravalle, che morì nel 1218.
Anselmo Faidito, clie morì nel 1220.
Arnaldo Meraviglia, che morì nel 1220.
Ugo Brunetto, che morì nel 1223.
Bernardo di Ventadorno, che morì nel 1225.
Ugo di San Siro, che morì nel 1225.
I quali tutti fiorirono dal 1178 circa al 1200.

In quel torno di tempo l'Italia può vantare ben altri trovatori, che non ebbero i provenzali; quali furono messer Folco di Calabria, Ruggeri Pugliese, Iacopo d' Aquino, Ciullo d' Alcamo, Lucio Brusi da Pisa, il cavalier Folcacchiero de' Folcacchieri, messer Rinaldo d' Aquino, il re di Gerusalemme, e l'anonimo autore del poema in nona rima; i quali tutti fiorirono intorno al 1178.

XXXVII. Molti trovatori toscani e lombardi, marchigiani, romagnoli, pugliesi, e soprattutto siciliani, fiorirono ancora prima di questi e contemporanei a questi, i quali o giacciono ancor inediti ne' manoscritti delle librerie, o sono del tutto perduti. Il diligentissimo amatore delle buone lettere che fu Antonio Magliabechi, il quale tanti codici e di scienze e di storie e di poesie raccolse, pare che intendesse a far di questi trovatori italiani una raccolta compiuta, perchè in un suo quaderno, segnato n. 18, si legge :» Poeti dei quali si aspettano notizie»; e segue una nota di molti antichi trovatori italiani, che mi piace qui trascrivere in parte, perchè di alcuni non si è mai udito altro che il nome ne l' indici dell' Allacci, del Biscioni e del Crescimbeni, e di alcuni altri né si ha notizia, né mai si udì pure il nome. E si noti l' antichità di parecchi dì questi trovatori, che, o non hanno casato, si prenominano dalla loro citta nativa, come si usava nel mille cento, e prima.

XXXVIII. Nota degli antichi trovatori italiani registrati nel quaderno magliabechiano.
Marchionne, Biondello, Serpellone, Meneghello, Ugolino, Cionello, Girardello, Marfagnone, Trebaldino, Manfredino, Rinaldo da Montenero, Venanzio da Camerino, Simone da Fiorile, Pelizzaro da Bologna, Niccolò da Trevigi, Monaldo d' Aquino, Marino da Perugia, Lodovico da Marradi, Valpertino da Monfiorilo, Gherardo da Prato, Cola Valfreduccio, Luchino d' Arezzo, Gotto mantovano, rammentato da Dante, come autore di molte buone canzoni, nel libro della volgar eloquenza, Nino sanese, Bartolommeo da Santangelo, Lapo Lamberti, Sinibaldo Donati, Maso dalla Tosa, Cola d' iVlessandro, Contino Lanfredi da Lucca, Giovanni d'Americo, Granfiore de' Tolomei, Guerzo da Taranto, Matteo da San Miniato, Mino di Federigo, detto il Cava, Paolo Giantoschi, Paolo Lanfranchi da Pistoia, ed altri molti; di cui troppo lungo sarebbe voler tessere il catalogo.

XXXIX. Non vi è uomo di senno, che non conosca la grande importanza delle rime dei nostri primi trovatori, cioè di quelli che hanno adoperato ne' loro componimenti lo schietto linguaggio della natura, per conoscere le vere origini, e le proprietà della nostra lingua. Opera utilissima a tal fine sarebbe il riunire e pubblicare tutte le rime che si possono avere di questi antichissimi trovatori italiani, parte dei quali fiorirono certamente in tempi anteriori ai primi trovatori provenzali. Si vedrebbe allora che la poesia italiana niente deve alla provenzale, e quanto invece la poesia provenzale deve all' italiana. Allora si potrebbe decidere a chi dei toscani o dei siciliani si deve dare il primo vanto della poesia volgare.

XL. Il Salvini lasciò scritto dei trovatori provenzali, che «non ostante la difficoltà, e, in alcuni autori, l'impossibilità d' intendere le rime loro, sarebbe cosa utilissima per le origini e proprietà della nostra lingua dargli fuori tali quali egli sono, con farvi attorno quelle osservazioni che si potessero». Ora, se il Salvini facea sì gran conto delle meschine poesie de' provenzali, e facea voti perchè tutte, anche le meno intelligibili, e perfino le impossibili a intendere, si mandassero a luce, che dovrà dirsi dei nostri originali trovatori italiani?

XLI. L' oscurità che regna nelle origini della lingua e della poesia volgare (poiché i più antichi monumenti della lingua sono le poesie) ha dato luogo a molti gravi errori nella storia della nostra letteratura. «I menestrelli e i trovatori, dice il Gravina, vennero in Napoli e in Sicilia dopo la conquista di Carlo d' Angiò». E questo si trova assolutamente inesatto, perchè re Carlo d' Angiò venne in Napoli nel 1266; e molto avanti Carlo d' Angiò, cento anni prima, vi era nella corte di Guglielmo II re di Sicilia, che ascese al trono nel 1166, una schiera numerosa di trovatori italiani, ed in Toscana ed in Sicilia era sorta, cresciuta, e portata già a tal grado di perfezione, a cui non arrivarono mai i provenzali, una poesia tutta nova, tutta originale, tutta italiana.

XLII. Crescimbeni, Tiraboschi, Maffei, Gravina, Galvani e Ginguené pretendono che i provenzali fossero i primi trovatori che sullo stile degli arabi coltivarono la gaia scienza, e che gl' italiani appresero da loro le regole e le norme della poesia. L' abate Andres va più oltre, e dice che gl' italiani non solo, ma tutti gli altri popoli occidentali appresero dai provenzali le norme della poesia; e ne conchiude anch' egli, che la lingua e la letteratura italiana sono figlie della lingua e letteratura provenzale. Non trovo chi abbia degnamente contraddetto a opinioni così contrarie al vero, e così prive di fondamento. Che anzi è invalso il costume, da Crescimbeni in poi, di aifaticarsi a tutt' uomo per farci credere che noi dobbiamo tutto, lingua, poesia e letteratura, ai provenzali, i quali avrebbero assai che rìdere nel vedersi ora onorati come maestri di coloro ai quali furon discepoli.

XLIII. È a desiderare che qualche nobile ingegno sorga a rivendicare le glorie della nostra letteratura primitiva. Ampio ed ubertoso è il campo. Se il valente scrittore si atterra costantemente alla schietta esposizione dei fatti e alla rigorosa critica dei documenti, non può mancare a gloriosa meta, e farà opera di gran vantaggio agli studiosi, e di grande onore e gloria alla patria letteratura.

XLIV. Non è difficile il provar con molti e autentici documenti che gl' itahani, molto prima dei provenzali, ebbero frequenti relazioni con gli arabi e in Sicilia e in Levante, e nelle stesse citta marittime d' Italia; e che prima dei provenzali, imitando gli arabi, cominciarono a trovar versi, a ingentilire la lingua nativa, e crearsi una letteratura originale.

 
 
 

I Trovatori (2)

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

XVII. Ciullo d'Alcamo fiorì certamente a' tempi del Saladino, rammentato nella canzone:

Se tanto aver donassimi quant' ha lo Saladino,
E per aiunta quant' ha lo soldano,
Toccarème non potoria la mano.

Il Saladino divenne famoso soprattutto nel 1171, nel qual anno riuscì a sottoporre l' Egitto, e, colla morte del califfo Aded, s' impadronì dell' impero dei Fatimiti, e per far tacere le dicerie che correvano sulla morte del califfo, e acquistarsi la grazia dei sudditi, si mostrò oltremodo largo, liberale, generoso e magnifico verso i soldati e verso i popoli, col profondere a piene mani l' immenso tesoro da tanti anni ammassato dai califfi, onde la sua liberalità e magnificenza passò ben tosto in proverbio anche in occidente.

XVIII. Senza queste ragioni, la maniera e lo stile e la lingua di Ciullo son cosa affatto diversa dalla maniera dallo stile e dalla Hngua dei trovatori italiani che cominciarono a fiorire dopo la seconda meta del secolo duodecimo, e manifestamente apparisce essere più antico di quello che da molli si crede. Evidentemente Ciullo fioriva tra 'l 1172 e 'l 1178, vivente Saladino.

XIX. Questa canzone è scritta in basso dialetto siciliano, e l' autore di essa è giustamente perciò biasimato da Dante come plebeo nel suo libro della volgar eloquenza.

XX. La più antica poesia, finora conosciuta, scritta in lingua italiana, è una canzone di Folcacchiero de' Folcacchieri, cavaliere e trovatore senese. I compilatori della raccolta de' poeti del primo secolo lo pongono all'anno 1200, al solito, senza addur alcuna ragione, ma l'abate De Angelis di Siena ha dimostrato con autentici documenti, che questo trovatore nacque nel 1150, e che cantando i suoi versi di amore, si fece conoscer trovatore nel 1178. Per questo cavalier trovatore pareva per sempre acquistato ai toscani il pregio della maggior antichità, e dell' eccellenza della lingua e della poesia italiana.

XXI. Ma il ritrovamento della romanza del re di Gerusalemme, scritta in una lingua più bella, più colta e più gentile, la scoperta della canzone della partenza del Crociato di messer Rinaldo d' Aquino, e della canzone di messer Folco di Calabria; tutte scritte in quel medesimo tempo; senza far conto di Ciullo d' Alcamo. sono sufficienti a ricondurre indubitatamente il vantaggio dalla parte dei siciliani.

XXII. Si aggiunge ancora la scoperta del poema in nona rima, di anonimo siciliano, di cui si pubblica, per ora, un frammento; il quale è, senza alcuna contradizione, il più antico, il più ricco e il più prezioso monumento conosciuto della lingua e della poesia italiana del primo secolo. Il qual poema, come dal frammento che si pubblica per saggio si può scorgere, non è scritto in basso dialetto, come la canzone di Ciullo d'Alcamo, non con la ruggine delle canzoni di messer Folcacchieri, di messer Folco di Calabria, ma bensì è dettato in una lingua, tutto che antica, bella e maestosa; in quella lingua, meno alcune voci antichissime, che Dante AUighieri tanto cercava, e chiamava buona, cardinale, aulica, cortigiana, e illustre lingua italiana, composta e formata delle voci e dei modi più radicali di tutti i volgari e i dialetti italiani.

XXIII. Questo poema in nona rima, che non può essere stato dettato più tardi del 1150, e queste romanze e canzoni nuovamente scoperte, che risalgono certamente al 1178, produrranno un gran cangiamento nelle opinioni, comunemente più ricevute sulla prima origine della lingua e della poesia italiana, che si volevano da molti far derivare dai saggi poetici del povero e meschino dialetto provenzale.

XXIV. Crescimbeni è di avviso che gl' italiani non solo tolsero dai provenzali le forme poetiche, e le rime, ma ancora la lingua tutta, e i pensieri stessi. «Che i provenzali fiorissero innanzi i siciliani, e da loro i poeti siciliani, italiani che vogliam dirli, prendessero non solo r uso delle rime, ma la maggior parte delle forme de' loro componimenti, noi stimiamo essere evidentissima cosa».

XXV. Allevato fra le nenie accademiche, e le arcadiche pastorellerie del suo secolo, Crescimbeni conobbe e ammirò la vergine poesia dei trovatori provenzali; e se ne invaghì oltre misura. Tradusse in volgare le vite di quei trovatori scritte da Nostradama. La freschezza, la grazia il candore di questa nova e ingenua poesia, a fronte de' sonettini per monaca, o per una bella donna spiritata, de' secentisti, gli parvero cosa divina, e avea ragione. Se non che trascorse tant' oltre in questa pazza e frenetica adorazione dei trovatori provenzali, che per innalzar i pregi di quelli, e insieme dell' opera sua, egli biasima e vitupera indegnamente, e senza ragione, e senza intenderli, i migliori trovatori italiani, Guido dalle Colonne, Iacopo da Lentino, e Federigo II. «Le rime de' Siciliani, dic' egli, a noi pervenute, sono debolissime, e scipite, e infelici a segno, che non possono leggersi senza estrema noia e rincrescimento, ancor che siano dei più rinomati, cioè di Guido e Odo da le Colonne, di Iacopo da Lentino, dell' imperator Federigo II e d' altri lor pari; i quali, se si hanno a dir successori d' altri poeti siciliani, che molto tempo innanzi e prima che i provenzali fiorirono, più tosto che primi padri della poesia italiana, allora nascente, o poco dianzi nata; non solo perderanno ogni lode, ma dovranno riputarsi degni di riso e di scherno, come quei che vituperarono la nazional poesia coi lor miserabili componimenti».

XXVI. Ei si maraviglia altamente, che tutta la repubblica letteraria non convenga in questa sua pazza adorazione dei trovatori provenzali, e preso da un movimento di magnanimo sdegno, per la preminenza che il dottissimo e profondissimo Castelvetro, detto dal Gravina il Varrone della lingua italiana, sull' autorità del Petrarca, toglie ai suoi cari trovatori provenzali, e' grida a tutta voce: «Non dobbiamo attenerci al Castelvetro, che di suo capriccio caccia i provenzali la dove il Petrarca mai non si sognò di cacciarli, e ve li caccia con tal forza, che non solo li pone sotto i siciliani, ma anche sotto gT italiani», XXVII. E poi, mosso a compassione della fiacchezza dell' umano ingegno, in generale, e di quello del Castelvetro, in particolare, esclama, quel che con più ragione si può dir di lui stesso: «Oh quanto s'ingannano lomenti degli uomini, anche grandi, quando sono occupate da qualche passione!».
Così in tempi a noi più vicini il Cesarotti, scoperto e tradotto l' Ossian, per aver trovata una nova e originale, benché strana, poesia, si credette in buona fede averci regalato un tesoro inestimabile, e mette alcune volte il suo bardo celtico poco men che al di sopra del Tasso, del Petrarca, di Dante, di Virgilio, e di Omero; e osa istituir de' paragoni con que' sommi scrittori, nei passi più notevoli del suo nebuloso poeta, che si lasciò cader dalla penna: Cavalcanti le nubi ombre de' padri.

XXVII. Fra i più recenti, e i più autorevoli scrittori, Ginguené si lascia andar a dire, che fino al secolo XIV gl'italiani non ebbero lingua, e che fino al secolo XIV non ebbero determinata favella; e che «un gran numero d' italiani che avevano genio per la poesia, ma a cui mancava una favella», furon presi dalla vaghezza «di far versi provenzali, e di mettersi in ischiera co' trovatori»: e cita fra questi Giorgi da Venezia, Calvi, e Boria da Genova, e Sordello da Mantova.

XXIX. Vi furono, è vero, alcuni italiani che, o per trovarsi in Provenza, come Bonifacio Calvi, o per amicizia con quei trovatori, come la donzella di casa Cibo e Sordello da Mantova, o per amore a quelle gentili dame provenzali, come Folchetto e Boria, scrissero ancora dei versi provenzali; non già perché mancasse loro la nativa lingua, poiché la lingua italiana, antichissima di origine, era già formata e colta quando non esisteva ancora il provenzale. Si legge infatti che moltissimi dei primi trovatori provenzali inserirono nei loro discordi ( che era una specie di poesia che Dante direbbe illegittima, composta di tre, quattro o cinque lingue ) de' versi interi in lingua italiana, come in quel discordo di Rambaldo di Vacchiera, citato dal Crescimbeni, che comincia:

Io son quel ben che ben non ho.

E in un altro discordo dello stesso autore, per la disdetta della marchesa di Monferrato, si leggono ancora de' versi interi italiani, come quello dell' intercalare:

Se per la mia donna non l' ho.

Anche di Bonifacio Calvi si ha a stampa un discordo in tre lingue; provenzale, spagnola e italiana. Questi discordi ne dimostrano, che la lingua italiana era già colta e illustre, e perfettamente conosciuta ne' primi esordi della poesia provenzale. E quasi tutti quegl' italiani, citati dallo storico francese, che trovarono in provenzale, dettarono ancora versi nella propria lingua: onde apparisce chiaramente, che se «quegl' italiani conoscevano la lingua provenzale, non ignoravano l' italiana. Di messer Prinzivalle Doria si hanno due canzoni in lingua italiana nel libro reale, una già edita sotto nome di Semprebene da Bologna, e l' altra finora inedita, che si trova in questa raccolta. Di Sordello mantovano Dante Allighieri rammenta le poesie italiane nel libro della volgar eloquenza. Così Brunetto Latini, trovandosi in Francia, dettò in francese il suo Tesoro, ma non lasciò per questo di scriver tante belle opere nella sua lingua nativa.
E qui non vo' passar sotto silenzio che quella poesia di Federigo I imperatore, edita dal Crescimbeni, in lode di tutte le nazioni che l' avevano seguito nelle vittorie, non è altro che un vero discordo in lingua italiana e provenzale, onde l' autore di esso più tosto si deve scriver tra i trovatori italiani che tra i provenzali; per questa sola ragione, che quell' unica poesia che ci è di lui pervenuta, ponendo mente che risale al 1160, e forse anche prima, contiene più dell'italiano che del provenzale, come si può conoscere da chiunque sa leggere.

Plas mi cavalier frances
E la dama catalana
E r onrar del genoes
E la cour de castellana,
Lo cantar provenzales
E la danza trivisiana
E lo corps aragones
E la perla iuliana,
La mans e cera d' angles
E lo donzel de Touscana.

Questa poesia, quantunque semplice, e breve di soli dieci versi, è scritta con mente tranquilla e con riflessione, e non improvvisata, come ci dà a intendere il monaco dalla Costo d' Oro. Nè mi reca meraviglia il veder con quanto poco discernimento Nostradama e Crescimbeni han copiata, parola per parola, la novella che ci conta il monaco: ma bensì quanto facilmente Voltaire e Maffei e Corniani e Sismondi e Galvani e Ginguenè han creduto e copiato il monaco, Nostradama e Crescimbeni.

XXX. Il Galvani poi si dà la briga di scrivere in grosso volume per dimostrare, che tulle le forme poetiche, i metri, le rime, la lingua, e gli stessi concetti poetici degl'italiani, tutto è imitato, copiato, e rubato ai trovatori provenzali. «I nostri primi verseggiatori italiani», dic' egli, «andavano piede dopo piede seguendo i provenzali. E altrove». Gl' italiani moltissimi del dugento, e del trecento, scossi dal troppo grido che menavano i trovatori, abbandonarono la loro lingua, che non avevano cuore e senno da ripulire e aggentilire, per seguir quella accetta ogni dove: e come per la somiglianza trovavano breve la fatica dell' impararla, si univano alla folla dei giuocolari e poeti, che occupando i castelli de' nostri signori, accrescevano quella parità che non più, come dicemmo, dovea restar nel dire, ma sì nei pensieri, e nei metri, e nelle forme, prima trovate dai provenzali, perche incoraggiati o piaciuti.

 
 
 

I Trovatori (1)

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

I. Egli è destino dello spirito umano, dice un filosofo francese, che i versi, in tutti i tempi e presso tutti i popoli, sieno i primi parti dell' ingegno, e i primi esemplari dell' eloquenza. I più antichi scrittori, in tutte le lingue, presso tutte le nazioni, antiche e moderne, furono i poeti, i quali, arditamente partendosi dalle consuetudini del volgo, ridussero le umane favelle a ferma e ordinata ragione.
Questo volle significare Dante Allighieri nel libro della volgar eloquenza, la dove scrisse: «Ma perchè quelli che scrivono in prosa pigliano esso volgare illustre dai poeti, perciò quello ch' è in versi rimane fermo esempio alle prose». Non altrimenti avvenne dopo il decadimento della lingua latina, nel nostro volgar idioma.

II. L' amore fu quello che ispirò il primo canto ai trovatori. Volendo essi far conoscere il loro ingegno, e il loro affetto alle amate donne, le quali poco intendevano la lingua latina, cominciarono a trovar versi in lingua volgare. Ed il primo che cominciò a dire in lingua volgare, scrisse Dante nella Vita Nova, si mosse, perocché volle far intendere le sue parole ad una donna, alla quale era malagevole ad intendere versi latini».

III. All' amore si deve adunque il dirozzamento e la coltura delle lingue, il ritrovamento della musica e della poesia. Null' uomo non può ben cantare, senza amare, dice un trovator provenzale. E più nobilmente scrisse l' anonimo autor del poema in nona rima:
Che lo primo pensier che nel cor sona,
Non vi saria, se amor prima noi dona.

IV. I nostri primi trovatori infatti non sanno che cantare in semplice favella, come natura ispira, della maravigliosa bellezza dell' amata donna, dei gravi affanni per lei sofferti, e della ricca gioia, che per lei, da loro si spera. I poeti poi furon quelli, che colla potenza dell' arte, e col magistero dell' armonia, mostrando tutta la forza e tutta la dolcezza del dir comune, innalzarono questa lingua italiana a stato civile di nobiltà e di gentilezza.

V. Ma quando ebbe veramente principio la poesia volgare? a qual trovatore, fra gli italiani, si deve il pregio e la gloria della maggior antichità? Qual provincia d' Italia si può giustamente vantar del primato della lingua, e della poesia volgare?

VI. Il Quadrio afferma, che fin dalla metà del mille cento si cominciò a verseggiare in lingua volgare; e porta un esempio di un' iscrizione di quattro versi, posta nella tribuna della cattedrale di Ferrara, l'anno 1135.

Il mille cento trenpta cinque nato
Fo questo tempio, e a Zorsi dicato.
Fo Nicolao scolptore,
E Glielmo fo l' autore.

Il Borghini ci ha conservata un' iscrizione del 1184, incisa in una lapide, ch' era in casa degli Ubaldini, in Firenze, composta in versi volgari, mezzo latini e mezzo italiani. Citerò alcuni versi per saggio.

Cacciato da veltri
A furore per quindi eltri
Mugellani cespi un cervo
Per li corni olio fermato
Ubaldino genio anticato,
Allo sacro imperio servo.
U' co' piedi ad avacciarmi
E con le mani aggrapparmi
Alli corni suoi d' un tracto
Lo magno sir Fedrico,
Che scorgeo lo 'ntralcico,
Acorso, lo svenò di facto.

VII. La prima iscrizione è cosa si meschina, che non merita discussione. L' autenticità della seconda è messa in dubbio da molti scrittori, ed io la tengo apocrifa; non perchè scritta nel 1184 in lingua volgare, ma perchè in quel tempo, e precisamente nel 1184, ed anche molti anni prima, la lingua volgare era già meglio formata, e più corretta, e più colta, e più ricca, ed aveva una fisonomia più bella e più graziosa, e un suono più espressivo e più armonioso, che non si trova in questi barbari versi; ne' quali, ad ogni parola, ti par di scorgere lo sforzo impossente di un volgar ingegno per imitare, senza riuscirvi a mille miglia, lo stile dei primi trovatori italiani.

VIII. Alcuni danno il primo vanto della lingua e della poesia italiana a Lucio Drusi da Pisa, che fiorì, secondo essi, nel 1170, e fu il primo, che congiungendo le bellezze e le grazie dei volgari toscani colle bellezze e le grazie del colto linguaggio siciliano, innalzò colle sue poesie la gloria del volgare comune d' Italia all' altezza di lingua nazionale, secondo che canta Agatone de' Drusi, discendente di Lucio, nel seguente sonetto diretto a Cino da Pistoia.

IX. Si oppone da molti: se Lucio Drusi da Pisa si rese tanto benemerito dell' italiana poesia, com' è avvenuto che niuno, finora, ne abbia fatto menzione, di quelli che han date le debite lodi ai primi poeti? Ai quali io potrei rispondere, e dir loro: come va che nò i dotti cinquecentisti, nò alcuno dei moderni eruditi abbiano mai fatto menzione di quell' insigne poeta che fu Rustico di Filippo, le cui poesie per la prima volta vedon la luce in questa nostra raccolta? Come va che dopo tanti secoli diricerche, di studi, e di diffusione d' ogni maniera di cognizioni, è rimasto ancora inedito e sconosciuto il prezioso poema in nona rima de' tempi normanni, da noi scoperto?
Come va che cento autori di pregevolissime poesie inedito si trovano in questa raccolta, de' quali perfino il nome è rimasto finora sconosciuto alle genti?

X. Molte ragioni si adducono per metter in dubbio l' esistenza di questo antico poeta, e si contesta perfino l' autenticità del sonetto di Agatone de' Drusi, che è il fondamento principale della tradizione: e tali sostengono che questo sonetto non ha tutto il colore de' tempi di Cino, perchè vi si trova uno stile troppo franco, e troppo svelto, e troppo gentile, dicono essi, per un contemporaneo di Cino, e lo dicono opera di tempi più bassi, e in conseguenza contraffatto.

XI. E in questo s' ingannano a gran partito, perchè tale è per l' appunto lo stile di messer Agatone de' Drusi da Pisa; e a meglio persuaderli voglio qui trascrivere da un codice antico un bellissimo sonetto di questo messer Agatone, precisamente del medesimo stile, in risposta ad un sonetto direttogli dallo stesso messer Cino, che comincia: "Druso, se nel partir nostro in periglio", che si trova a fronte in quel codice, ch' è il 118 laurenziano palatino.

Se tra noi puote un naturai consiglio
Nelle dubbie speranze e negli affanni,
Vaglino i miei, che già molti e molti anni,
Saggiamo alla fortuna e 'l petto e 'l ciglio.

Ed alla fin costretto dall' artiglio
Di quella eh' ognor sembra il mondo inganni,
Lassai la patria, e gli onorati scanni,
E il sicuro cammin di virtù piglio.

Donna tranquillo tiemmi, e son contento
D' aver fuggito il sangue, il fuoco e l' armi,
Per cui la gloria muor de' toschi lidi.

Voi che aspettate? di morte il talento
So che averete, e già d' intender parmi
Novellaccia de' vostri ultimi stridi.

Un altro sonetto ancora dello stesso Agatone, sul medesimo stile, non so se stampato o inedito, si trova nel medesimo codice.
Afferma il Giambullari, nel suo Gello, che Lucio Drusi fu uomo faceto, e dotto, e scrisse in rima un libro delle Virtù, e un altro della Vita amorosa, i quali portando egli in Sicilia al re, per fortuna li perse in mare; di che dolendosi fuori di modo, poco dopo se ne morì».

XII. Però c' è tutta ragione di creder autentico il sonetto di Agatone, e vera la notizia delle poesie di Lucio Drusi. Quel verso Non Brunellesco o Dante sarian letti si deve intendere quando Dante non era conosciuto che come poeta lirico, e non avea ancor pubblicata la Divina Commedia.

XIII. Su questi dati noi possiamo francamente scriver il nome di Lucio Drusi tra i primi trovatori in lingua volgare; ma non c' è pervenuto di lui neppur un verso che si conosca. Il primo trovatore, di cui si conoscano le rime, è Ciullo d'Alcamo, castello arabo, poche miglia distante da Palermo. Nulla di lui sappiamo, se non che scrisse una canzone, che da molti è stimata la più antica composizione poetica in lingua volgare. Vi è chi la crede, come il Maffei, dettata nel 1195; e vi è chi la vuole, come il Valeriani, scritta nel 1197.

XIV. Questa data ancor vien contraddetta da molti, e si vorrebbe posteriore almeno di venticinque anni, cioè del 1222 circa, per la ragione che in quella canzone trovansi nominati li agostari.

Una difesa mettoci di dumilia agostari.

Gli agostari, dicono essi, furon fatti coniare da Federigo II imperatore. Nato nel 1197, non potè far coniare gli agostari prima del 1222.

XV. Se questa ragione valesse, gli agostari di Federigo II non furon fatti coniare, secondo Riccardo da s. Germano, che nel 1231, bisognerebbe in conseguenza trasferire la canzone di Ciullo d' Alcamo dopo il 1251.

XVI. Che Federigo II facesse coniare nel 1222 o nei 1251 i famosi agostari d' oro colla sua effigie, per correzione di disegno, in un tempo di universale rozzezza in fatto di belle arti, cotanto lodati dai numismatici, non si contraddice; ma prima di Federigo vi erano monete d' oro e d' argento dette agostari, ed erano le antiche monete augustales, le monete dei Cesari augusti, le monete imperiali. Il Cesari, nel suo Vocabolario della Crusca edito in Verona nel 1806, la voce agostaro diffinisce così: «Agostaro, nome di moneta d' oro antica, di valuta di un fiorino e un quarto d'oro; da una banda della quale era improntata, per esempio, la testa dell' imperator Federigo, e dall'altra un'aquila, al modo degli antichi Cesari augusti, dai quali ebbe tal nome». Agostaro in Sicilia, come suona la voce, era termine generico di qualunque moneta sull' antica impronta de' Cesari augusti, sia d' oro, sia d' argento; e Ciullo d' Alcamo dice che metteva duemila agostari d' argento per difendersi da qualunque ingiuria gli potesse venir intentata dal padre e dai parenti dell' amata. Duemila agostari d' oro era a quel tempo una gran somma; e bastava per dote e corredo di due principesse, non che di una cittadina.

 
 
 

Colonna Infame 07

Post n°1069 pubblicato il 17 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

VII

Tra i molti scrittori contemporanei all'avvenimento, scegliamo il solo che non sia oscuro, e che non n'abbia parlato a seconda affatto della credenza comune, Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato. E ci par che possa essere un esempio curioso della tirannia che un'opinion dominante esercita spesso sulla parola di quelli di cui non ha potuto assoggettar la mente. Non solo non nega espressamente la reità di quegl'infelici (né, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno scritto destinato al pubblico); ma pare più d'una volta che la voglia espressamente affermare; giacché, parlando del primo interrogatorio del Piazza, chiama «malizia» la sua, e «avvedutezza» quella de' giudici; dice che, «con le molte contradizioni, palesava il delitto nell'atto che voleva negarlo»; del Mora dice parimenti, che, «fin che poté reggere alla tortura, negava, al solito di tutti i rei, e che finalmente raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum fide». E nello stesso tempo, cerca di fare intendere il contrario, accennando, timidamente e di fuga, qualche dubbio sulle circostanze più importanti; dirigendo, con una parola, la riflession del lettore al punto giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più atte a dimostrar la sua innocenza, di quelle che aveva sapute trovar lui medesimo; mostrando finalmente quella compassione che non si prova se non per gl'innocenti. Parlando della caldaia trovata in casa del Mora, dice: «fece principalmente grand'impressione una cosa forse innocente e accidentale, del resto schifosa, e che poteva parer qualcosa di quello che si cercava». Parlando del primo confronto, dice che il Mora «invocava la giustizia di Dio contro una frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale si poteva far cadere qualunque innocente». Lo chiama «sventurato padre di famiglia, che, senza saperlo, portava su quell'infausto capo l'infamia e la rovina sua e de' suoi». Tutte le riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si posson fare, sulla contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la condanna degli altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: «gli untori furon puniti ciò non ostante: unctores puniti tamen». Quanto non dice quell'avverbio, o congiunzione che sia! E aggiunge: «la città sarebbe rimasta inorridita di quella mostruosità di supplizi, se tutto non fosse parso meno del delitto».

Ma il luogo dove fa intender più chiaramente il suo sentimento, è dove protesta di non volerlo dire. Dopo aver raccontato vari casi di persone cadute in sospetto d'untori, senza che ne seguissero processi, «mi trovo», dice, «a un passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre quelli così a torto presi per untori, io creda che ci siano stati untori davvero... Né la difficoltà nasce dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà di far quello che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri sentimenti. Ché se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a immaginar malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe subito che la storia è empia, che l'autore non rispetta un giudizio solenne. Tanto l'opinion contraria è radicata nelle menti, e la plebe credula al solito, e la nobiltà superba son pronti a difenderla, come quello che possano aver di più caro e di più sacro. Mettersi in guerra con tanti, sarebbe un'impresa dura e inutile; e per ciò, senza negare, né affermare, né pender più da una parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui.» (76) Chi domandasse se non sarebbe stata cosa più ragionevole, come più facile, il non parlarne affatto, sappia che il Ripamonti era istoriografo della città; cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può essere comandato e proibito di scriver la storia.

Un altro istoriografo, ma in un campo più vasto, Batista Nani, veneziano, che in questo caso non poteva esser condotto da nessun riguardo a dire il falso, fu condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un monumento. «Se ben veramente», dice, «l'immaginazione de' popoli, alterata dallo spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando ancora in Milano l'iscrizioni e le memorie degli edifici abbattuti, dove que' mostri si congregavano.» (77) Chi, non conoscendo altro di quello scrittore, prendesse questo ragionamento per misura del suo giudizio, s'ingannerebbe di molto. In varie ambascerie importanti, e in varie cariche domestiche, aveva avuto campo di conoscer gli uomini e le cose; e dà prova nella sua storia d'esserci non volgarmente riuscito. Ma i giudizi criminali, e la povera gente, quand'è poca, non si riguardano come materia propriamente della storia; sicché, non c'è da maravigliarsi che, occorrendo al Nani di parlare incidentemente di quel fatto, non ci guardasse tanto per la minuta. Se alcuno gli avesse citata un'altra colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova d'una sconfitta ricevuta da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di que' mostri), certo il Nani si sarebbe messo a ridere.

Fa più maraviglia e più dispiacere il trovar lo stesso argomento e gli stessi improperi, in uno scritto d'un uomo molto più celebre, e con gran ragione. Il Muratori, nel «Trattato del governo della peste», dopo avere accennato diverse storie di quel genere, «ma nessun caso», dice, «è più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese parecchie persone, che confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne esiste tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta ov'era la casa di quegli inumani carnefici. Il perché grande attenzion ci vuole affinché non si rinnovassero più simili esecrande scene.» E quello che, non toglie il dispiacere, ma lo muta, è il veder che la persuasione del Muratori non era così risoluta come queste sue parole. Ché, venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli preme davvero) de' mali orribili che posson nascere dal figurarsi e dal credere tali cose senza fondamento, dice: «si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli». Non par egli che voglia alludere ai nostri disgraziati? E quello che lo fa creder di più, è che attacca subito con quelle parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e che, per esser poche, trascriviam qui di nuovo: «Ho trovato gente savia in Milano, che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste del 1630.» (78) Non si può, dico, fare a meno di non sospettare che il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che chiama «esecrande scene», e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli che chiama «inumani carnefici». Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini tutt'altro che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la bugia, per poter poi insinuare la verità.

Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore più rinomato di lui come storico, e (ciò che in un fatto di questa sorte parrebbe dover rendere il suo giudizio più degno d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come dice di sé medesimo, «più giureconsulto che politico», (79) Pietro Giannone. Noi però non riferiremo questo giudizio, perché è troppo poco che l'abbiam riferito: è quello del Nani che il lettore ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per parola, citando questa volta il suo autore appiè di pagina. (80)

Dico: questa volta; perché il copiarlo che ha fatto senza citarlo, è cosa degna d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancora. (81) Il racconto, per esempio, della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del Portogallo, nel 1640 è, nella storia del Giannone, trascritto da quella del Nani, per più di sette pagine in 4°, con pochissime omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo che nello scritto originale andava tutto di seguito. (82) Ma chi mai s'immaginerebbe che l'avvocato napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre, per la singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far meglio, né da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta, dall'opera del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste: «Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con troppo sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e natural positura.» Eppure ognuno può vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole, il Giannone metta mano a quelle del Nani, (83) frammischiandoci ogni tanto, e specialmente sul principio, qualcheduna delle sue, facendo qua e là qualche cambiamento, alle volte per necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il segno dell'antico padrone, e ci mette il suo. Così, dove il veneziano dice: «in quel regno», il napoletano sostituisce: «in questo regno»; dove il contemporaneo dice che vi «restano le fazioni quasi che intiere», il postero, che vi «restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni». È vero che, oltre queste piccole aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani. Ma, cosa veramente da non credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di Domenico Parrino, (84) scrittore (alla rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se, in Italia e fuori, è letta quanto lodata la «Storia civile del regno di Napoli», che porta il nome di Pietro Giannone. Ché, senza allontanarci da que' due periodi di storia de' quali s'è fatto qui menzione, se, dopo le sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca di Medina vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera. Dal Parrino ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e dall'altro, a intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo che precedette le sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la fine di queste, sotto il governo di D. Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte. Poi dal Parrino solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la spedizione di quel vicerè contro Piombino e Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la peste del 1656. Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli. (85)

Voltaire, parlando, nel «Secolo di Luigi XIV», de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di Nimega, per decidere delle sue proprie pretensioni sopra territori di stati vicini, nomina, in una nota, il Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una critica. Ecco la traduzione di quella nota: «Giannone, così celebre per la sua utile storia di Napoli, dice che questi tribunali erano stabiliti a Tournay. Sbaglia frequentemente negli affari che non son del suo paese. Dice, per esempio, che, a Nimega, Luigi XIV fece la pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata.» (86) Ma, lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare. È vero che nel libro dell'uomo «così celebre», si leggono queste parole: «Seguì poscia la pace fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore» (nelle quali, del rimanente, non saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e quest'altre: «Aprirono poscia», i francesi, «due tribunali, l'uno in Tournay, e l'altro in Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi lor vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il paese che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini, ed esercitando tutti quegli atti di signoria che sono soliti i principi di praticare co' sudditi.» Ma son parole di quel povero ignorato Parrino, (87) e non già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma portate via insieme con esso: ché spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un frutto qua e uno là, leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino. Tutta, si può dire, la relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese de los Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino chiude la sua opera, e il Giannone il penultimo libro della sua. E probabilmente (stavo per dir di certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il periodo antecedente della dominazione spagnola in Napoli, con la quale comincia il lavoro del Parrino, troverebbe per tutto, quello che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno, senza veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore. (88) Così dal Sarpi, senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua digressione; come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona. E chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grand'uomo. E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia perdonare dal benigno lettore una digressione, (89) lunga, per dir la verità, in una parte accessoria d'un piccolo scritto.

Chi non conosce il frammento del Parini sulla colonna infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in questo luogo?

Ecco dunque i pochi versi di quel frammento ne' quali il celebre poeta fa pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione:

    Quando, tra vili case e in mezzo a poche
    Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi.
    Quivi romita una colonna sorge
    In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo,
    Ov'uom mai non penetra, però ch'indi
    Genio propizio all'insubre cittade
    Ognun rimove, alto gridando: lungi,
    O buoni cittadin, lungi, che il suolo
    Miserabile infame non v'infetti. (90)

Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione, o forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perché i poeti, nessun credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo.

Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che? le sue «Osservazioni», scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli «Scrittori classici italiani d'economia politica». E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle «Notizie» premesse all'opere suddette. «Si credette», dice, «che l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia.» Effetto comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti. Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel passato, giacché, in quasi tutto il continente d'Europa, i corpi son di data recente, meno pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato istituito dagli uomini, non può essere né abolito, né surrogato. Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e indebolito più che mai dallo spirito d'individualità: l'io si crede troppo ricco per accattar dal noi. E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto.

A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta.

Note

 
 
 

Il Dittamondo 5, Indice

Post n°1068 pubblicato il 17 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Indice de "Il Dittamondo" di Fazio degli Uberti.

Libro 5

Cap. 01   Cap. 02   Cap. 03   Cap. 04   Cap. 05   Cap. 06 
Cap. 07   Cap. 08   Cap. 09   Cap. 10   Cap. 11   Cap. 12 
Cap. 13   Cap. 14   Cap. 15   Cap. 16   Cap. 17   Cap. 18 
Cap. 19   Cap. 20   Cap. 21   Cap. 22   Cap. 23   Cap. 24 
Cap. 25   Cap. 26   Cap. 27   Cap. 28   Cap. 29   Cap. 30

 
 
 

Rime di Celio Magno (173)

Post n°1067 pubblicato il 17 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

173

Trionfo di Cristo per la vittoria contra Turchi rappresentato al serenissimo prencipe di Venezia il dì di San Stefano

David
— David son io, dal sommo re mandato
con altri ancor di sua celeste corte,
prencipe degno e tu nobil Senato,
per onorar vostra felice sorte;
ché poi che tanto suo favor v'ha dato
e tante grazie in sì brev'ore e corte,
vuol darvi ancor che i santi eletti suoi
vegnan dal cielo a conversar tra voi.
Oh come è 'l vostro essempio a quel conforme
ch'io di me diedi già vivendo in terra!
Ch'un nuovo empio Golia, mostro deforme,
ancor da voi, mercé di Dio, s'atterra.
E com'io del Signor seguendo l'orme
giungeva a lieto fin d'ogni mia guerra,
così voi d'ogni mal, ma più felici,
trovaste fin, di Dio servi ed amici.
Che se dianzi turbato il mar solcaste,
fu perché fosse poi più dolce il porto;
e ché ne l'ira del Signor provaste
che mortal uom di sé confida a torto,
ma che ne l'opre e voglie pure e caste
ha radice quel don che Dio v'ha porto.
Così con maggior frutto ognun or crede
che quanto ha qui di ben da lui procede.
Ma quante veggio ancor palme e trofei
apparecchiar di Dio cortese mano!
veggio il valor dei veri semidei
tutti i liti frenar de l'oceàno;
veggio Selim co' suoi seguaci rei
preda e trionfo del poter cristiano;
veggiolo a l'uom simil che d'alto sasso
spinto ruini in precipizio basso.
Benedetto sia dunque il pianto e 'l duolo
e di quest'alto imperio i corsi affanni,
se sì pietoso poi di Dio 'l figliuolo
cangiar doveva in tanto acquisto i danni:
che di questa dolcezza un giorno solo
l'amaro ristorar può di mill'anni.
Benedetto sia sempre il sangue e l'alme
che v'acquistar sì gloriose palme. —
Coro di angeli
— O di Dio gran bontade
o sopra ogni altra aventurosa etade
che sarà specchio ad ogni età futura!
Chi l'altezza misura
di grazia così immensa
ne l'infinito ed impossibil pensa. —
San Pietro
— Meraviglia non è che Dio di tante
grazie far voglia questo secol degno
se Pio Quinto, ma primo a l'opre sante,
vicario è qui del suo celeste regno;
di cui nessun mio successor si vante
dato aver di bontà più chiaro segno:
ch'in virtù di sua fé poriano i fonti
seccar lor vene e cangiar loco i monti. —
San Iacomo
— Non men l'Ispano re d'onor riluce
dov'ha suo protettor tempi ed altari:
ei col degno fratel frutti produce
sempre al gusto di Dio soavi e cari,
e l'un e l'altro aggiunge vita e luce
ai gesti del gran Padre eterni e chiari;
onde può farsi ognun per sua virtute
terreno sol di gloria e di salute. —
San Marco
— E tu, diletta mia vergine altera,
sotto prencipe tal beata a pieno,
tempio di carità, di fede vera,
d'ogni pregio e valor nido ripieno:
godi, ché quanto il tuo cor brama e spera
in mille doppi il ciel ti piove in seno,
e ché 'l tuo merto incontra 'l perfid'angue
si sigillò con glorioso sangue. —
Tutti tre
— Preghiam pur Dio che mai sua man non scioglia
quel che questi congiunge, amico laccio;
anzi la ferma loro ardente voglia
cangi negli altrui petti in foco il ghiaccio
deh, pronto ognuno in man la spada toglia!
Dove di Dio combatte il forte braccio,
chi fia ch'al suo chiamar il cor non pieghi
e che d'esser compagno a Cristo neghi?
O del popol suo fido indegno scorno,
lasciar il suo sepolcro in man de' cani,
e 'l loco dov'ei nacque e fe' soggiorno
patir che nido sia d'empi e profani!
Ma tosto, tosto apparirà quel giorno
che 'l vedrem ricovrar da le lor mani;
e Cristo a chi difeso avrà 'l suo nome
d'eterne stelle incoronar le chiome. —
Coro
— Com'or d'ogni uso fuori
nel verno il ghiaccio si converte in fiori,
così per queste sponde
si cangin l'alghe in rose, in or l'arene,
in dolci le sals'onde
e i muti pesci in cigni ed in sirene.
Ricca, lieta e festosa
s'avanzi in meglio ogni terrena cosa. —
Santa Iustina
— Nel giorno sacro a me tanta ventura
a voi non senza magisterio giunse:
ché i figli miei da l'antenoree mura,
a cui per guardia fida il ciel m'aggiunse,
di fondar qui Venezia ebber già cura
sì come alto voler di Dio gli punse;
onde, s'io già le fui madre e nutrice,
dovea 'l mio giorno ancor farla felice. —
Coro
— O santa alma Giustina,
nel cui bel dì giocondo
quasi rinacque il mondo!
O ministra cortese e pellegrina
de la bontà divina,
degna ch'in tutti i tempi
mille ti sian sacrati alatri e tempi! —
Gabriel
— A Dio lode, a Dio lode! A Cristo, a Cristo,
a lo Spirito Santo eterna gloria!
A lui s'ascriva il glorioso acquisto
di sì rara, felice, alta vittoria:
che simil don tra i suoi mai non fu visto
per quanto puote il mondo aver memoria,
d'allor in poi ch'a trar l'uom di periglio
Dio mandar volse il suo diletto figlio.
Questi fu 'l vincitor, questi conviene
com'or qui trionfar negli altrui cori;
e prigion fatti in gravi aspre catene,
far gir innanzi i ciechi umani errori;
dietro poi Fede, Caritate e Spene
guidin de le virtuti i santi cori:
ché così si trionfa in mortal velo
da chi vuol poi trionfo eterno in cielo.
Cantian, dunque, cantiam con mente pia
di Dio sì rara incomparabil grazia;
ne lingua d'uomo, o pensi o vada o stia,
sia di lodar l'alta bontà mai sazia:
benché quanto da ognun dir si potria,
rispetto al suo dever nulla ringrazia.
Rendiamo a te con vivo affetto interno
grazie e gloria mai sempre, o Padre eterno. —

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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