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Messaggi del 22/01/2015

Il Dittamondo (5-12)

Post n°1107 pubblicato il 22 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XII

Posto ch’ebbe silenzio a le parole,
senza piú dir passeggiavam la via
sempre diritto onde si leva il sole. 

Sospeso andava, come uom che disia 
cosa fra sé e che non la dimanda 5 
per tema o reverenza che ’n lui sia, 
quando Solin mi disse: "Che fai? Manda 
la voglia, c’hai nel tuo cuor ristretta, 
su per l’organo suo, sí che si spanda". 
Come il buon servitor, che non aspetta 10 
piú d’una volta il dir del suo signore, 
ma quanto può per ubbidir s’affretta, 
cosí la brama, ch’io avea nel core, 
isparsi fuori e dissi: "O Solin mio, 
iscusi me reverenza e timore". 
Apresso questo, non ristetti ch’io 
mi volsi al frate e dissi: "De la legge 
di Macometto udir bramo e disio". 
Ed ello a me: "Molte cose si legge 
ne l’Alcorano disoneste a udire, 20 
de le quai vo’ ch’alcun capitol vegge. 
Comanda espresso qual non vuo’ obbedire 
a Macometto, o tributo non renda 
al Saracino, che debba morire. 
Concede a l’uom quante vuol moglie prenda 25 
e concubine, pur tener le possa: 
e qui con fra Dolcin par che s’intenda. 
E tanto fa la coscienza grossa, 
che i maschi usando Sodoma e Gomorra, 
vuol che senza peccato far si possa. 30 
Loda il battesmo e odi s’ello abborra: 
dice che, quando l’uom fa un peccato, 
ch’al fiume per lavarsi tosto corra. 
Può battezzare il padre, quando è nato, 
lo suo figliuol, non perché sia cristiano, 35 
ma perch’abbia piú vita e miglior fato. 
Lo digiun quasi per quel modo fano 
come il Giudeo, ché ’n fino a notte oscura 
senza bere o mangiar digiuni stano. 
Giunta la sera, cenan; non han cura 40 
s’è carne o pesce; usar puon di ciascuno, 
né pongon fren, per questo, a la lussura. 
De l’anno un mese intier fan tal digiuno, 
ne le meschite lor; senza lavarsi 
o impolverarsi, orar non de’ niuno. 45 
Come noi ci volgiamo, per segnarsi 
e per orare, in verso l’oriente, 
sí come per le chiese nostre parsi, 
ed il Giudeo adora in vèr ponente, 
la legge vuol del Saracino ancora 50 
che verso il mezzodí pongan la mente. 
E come la domenica s’onora 
per noi con celebrarla e farne festa, 
e ’l sabato il Giudeo, che non lavora, 
similemente la feria sesta 55 
ordinò Macometto riverire, 
come ne l’Alcoran si manifesta. 
Loda e afferma ancora, nel suo dire, 
che degna sia la circoncisione 
da dovere osservare e ciò seguire. 60 
Sacerdoti hanno, per li quai si spone 
l’Alcorano e odi cosa cruda 
ch’usan, se fanno predica o sermone: 
tengon, dicendo, in man la spada nuda: 
- La legge a morte o a tributo condanna65 
qual d’obbedir Macometto si escluda -. 
Dritta la pongon poi sopra una scranna, 
in atto come voglian minacciare 
ciascun che ’l parlar lor dispregia o danna. 
Dicon che disse, nel lor predicare, 70 
Macometto: - Quanto fia la vittoria 
de l’arme, in noi la legge de’ durare. 
E quanto durerá la nostra gloria 
nei beni temporal, tanto, per fermo, 
lucerá chiara la nostra memoria. 75 
Non son mandato al mondo col mio sermo 
a far miracol, ma venni in virtute 
de l’arme e queste usate a vostro schermo -. 
E cosí mostra ch’ogni sua salute 
ne l’arme fosse e nei ben temporali 80 
e che l’altre vertú li fosson mute. 
Ancora afferma lor, tra gli altri mali, 
che ’n paradiso son molti giardini 
pieni dei ben del mondo e spiritali, 
e che di latte, di mèle e di vini 85 
fiumi si truova e chiare fontanelle, 
fiori per tutto e canti dolci e fini, 
donne con ricche veste, accorte e belle, 
e giovinetti di gentili aspetti 
con vergognose e vezzose donzelle. 90 
E tutte queste cose a’ lor diletti 
dice che usar potranno cosí, come 
nel mondo fanno, e seran lor suggetti. 
Ancor nel libro suo, che Scala ha nome, 
dove l’ordine pon del mangiar loro, 95 
divisa e scrive qui ogni buon pome. 
Vasellamenti d’ariento e d’oro, 
dilicate vivande e dolci stima 
su per le mense, ove faran dimoro. 
De le vivande, dice che la prima 100 
iecur, fegato, è e pesce apresso, 
poi albebut, che d’ogni cibo è cima. 
Or puoi veder, se noti fra te stesso, 
che Macometto in ogni sua parola 
beatitudo pone che sia espresso 105
nel vizio di lussuria e de la gola".
 
 
 

Rime di Celio Magno (300-310)

Post n°1106 pubblicato il 22 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

300

Al clarissimo signor Andrea Gussoni [1]

Non t'ornò il crin de la sua nobil fronda
sì amico Apollo e diè sì dolce canto
perché, Andrea, tu men grato a favor tanto,
i suoi doni e 'l tuo onor scemi e nasconda.

Troppo rigida in te modestia abonda
di crudeltà vestendo incauta il manto,
mentre a' tuoi propri parti il sole e 'l vanto
neghi, lor chiusi in ria prigion profonda.

Grave a Natura, grave a Febo oltraggio,
ch'al mondo gli han, non a te sol produtti,
è che sì gran tesor giaccia sepolto.

Escan dunque a la luce; e tu più saggio
cogli de la tua gloria in vita i frutti:
che dopo morte il qui goderne è tolto.

301

[2]

Ben può tua musa oltr'ogni stil faconda
me trasformar col suo divino incanto
ma sé non già: ch'anzi or palesa quanto
sovrano lume il suo valor diffonda.

Tu, se modesto invan velo il circonda,
squarcialo, e splendi ai più famosi a canto;
ch'io, qual mi sia, preparo il legno intanto,
aura sperando al navigar seconda.

Favorir suol fortuna alto coraggio;
e s'al bel voto fian contrari i flutti,
vanto almen de l'ardire avrò raccolto.

Prendi omai, prendi il proprio a te viaggio;
conosci i don del cielo in te ridutti,
al dritto, al mondo, a la tua gloria volto.

302

[3]

Se in faccia ride il ciel vaga e gioconda
o mesto versa nubiloso pianto;
se 'l crin di neve o fior la terra ha spanto,
o di biade o di frutti appar feconda;

se 'l mar placido giace o i liti inonda;
se 'l sol vibra il suo raggio intiero o franto,
e la luna a pien s'apre o cela alquanto:
il tutto a commun pro mira e ridonda.

Porge in tributo al degno uman lignaggio
Natura alma e benigna i parti tutti,
né da sì giusto essempio alcun va sciolto.

E tu sol negherai dar dolce saggio
di quanto il tuo valor fiorisca e frutti,
il tuo ingegno a te solo arato e colto?

303

[4]

Così di grazia alcuna stilla infonda
benigno Febo a quel ch'io servo e canto,
come ai cigni ond'ha voce e Smirna e Manto
va par la musa tua purgata e monda.

E tal d'eternità radice fonda
che spesso morte il suo gran danno ha pianto
io presso a lei son quasi umile a canto
ch'altera quercia vince e soprabonda.

Ma se di fede alcun merto pur haggio,
cedi a' consigli miei dal vero instrutti,
che negletto da te se n' lagna or molto.

Faccian dal fosco al chiaro omai passaggio
tuoi parti fuor da giusta man condutti,
né stia più 'l sole infra le nubi involto.

304

[5]

Se te pregando invan con debil fionda
l'aria percuoto, e in steril suolo io pianto,
mentre rispondi almen parte ne schianto,
onde a quel che tu celi, altri profonda.

Tal a saper s'un campo il ciel feconda
poche spiche talor ne coglio e spianto;
e per te noto far basta ben tanto,
ch'è palma, se non prima almen seconda.

Del tuo merto divin fedel messaggio
fian questi a mio favor carmi construtti,
mio dolce inganno in pro d'ambo rivolto;

ch'essi con proprio tuo ricco vantaggio
fiorir faranno i miei sterili asciutti,
qual nobil germe inserto in ramo incolto.

305

[6]

Di novi lauri e fior vesta la sponda
il bel Cefiso; e febo e 'l coro santo,
già mesti al tuo tacer, lieti altrettanto
aprano al tuo cantar più dolce l'onda.

Pur frutto è ciò di mia lingua infeconda,
il cui diffetto con tal lode ammanto;
pur quinci appar, se quel ch'ammiro e vanto
sovra ogni altra credenza al ver risponda.

E s'or del tuo valore un picciol raggio
ai più chiari s'agguaglia in prova addutti,
ché non discopri a piena gloria il volto?

Repugna a nobil cor pensier selvaggio,
onde sian gli onor tuoi da te distrutti,
né 'l mio fedele, util consiglio accolto.

306

[A Orsatto Giustinian]

A le lagrime pie ch'io vo spargendo
con bassi carmi ad alta impresa accinto
ceda in prova d'amor Virgilio, vinto,
a cui per altro, umìl, la palma rendo.

Io l'aspra sorte tua mia propria intendo,
d'alta e verace doglia il petto cinto;
quei con bell'arte espresse un pianger finto,
del cesareo favor l'aura seguendo.

E quanto a smorta stella il sol prevale,
tanto il mio don del suo più nobil dico,
s'altrui d'onor via più che d'oro cale:

ch'oltra il tuo affetto, ond'io l'alma nutrico,
mi dai col tuo valor vita immortale
e trofeo del crudel tempo nemico.

307

[A Giovan Battista Sancio]

Proprio soverchio amor, ch'in noi rinforza
gli sproni del desio ch'al mal trasporta,
apre a stolta superbia ancor la porta
ch'ogni fior di virtù recide e scorza.

E qual senza nocchier che regga l'orza
nave a perir se n' va da Borea scorta,
tal privo di ragion morte riporta
chi dà le vele a questo vento in forza.

Io per rifugio espongo agli occhi miei
confitto in croce il re del cielo, e quali
fonti versar le mani e i santi piei;

e mentre a me poi dico: — Or tu che vali,
misero? Tu che polve ed ombra sei? —
Veggio il mostro fuggir, vinto e senz'ali.

308

Ad Ascanio Pignatello

Ben deggio Icaro dirmi, or che m'aggiunge
quell'ali Amor che le tue man formaro;
e perch'io m'erga ov'uom poggia di raro,
tolto a me stesso, a te mi ricongiunge.

Ma varia norma al mio volar s'ingiunge:
ch'io di gir teco al sol vicino imparo,
e de' tuoi pregi il fermo alto riparo
me d'ogni tema del cader disgiunge.

Che quanto esser pò in me d'oscuro e vile
tu 'l rischiari al tuo lume e 'l fai perfetto
portando il nome mio da Battro a Tile.

Or, qual altra è maggior gloria e diletto
ch'eterno andar col tuo sublime stile
e nido aver dentro al tuo nobil petto.

309

[A Bernardo Maschio. 1]

Qual pastor ch'al chiamar d'angelo eletto
a mirar nato il re del ciel se n' gio,
tal oggi a inchinar lui desto è 'l cor mio
dal suon che santo ardor vi trae del petto.

Veggio ch'in virginal ventre concetto,
vergin lasciollo ancor quando n'uscìo;
e che Dio, presa carne, a l'uom s'unio
per farlo d'ogni ben colmo e perfetto.

Quinci com'esser può che 'l ghiaccio duro
del mio voler non si dilegui e stempre
deposto il peso omai di tanti errori?

Dunque oggi ognun di noi del ciel sicuro
con sacrificio umil de' propri cori,
cantando in gloria sua la lira tempre.

310

[2]

Più tosto il fil del mio viver recida
pietosa Parca in questo essilio indegno,
ch'io dal mio caro e prezioso pegno
pur momento il pensier giamai divida.

Ché nobil rende ogni alma in cui s'annida
Amor, e l'ali sue presta a l'ingegno
e la face al valor, sì ch'oltra 'l segno
che da sé spera, al ciel gli è scorta e guida.

Ma s'io per la sua via piango e m'adiro,
dal ciel, non già da lui, la colpa nasce
che dal mio paradiso or mi disgiunge.

E benché tu per maggior pace il lasce,
sappi che quando me più 'l dolor punge,
vince mille tue gioie un mio sospiro.

 
 
 

Mariotto Davanzati 02

Post n°1105 pubblicato il 22 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

II

Canzon morale del detto Mariotto mandata a una sua amorosa per impetrar grazia da lei.

Non Sorga ed Acabernia e non Parnaso,
né le Muse contente a le dolci acque,
né Orfeo con sua dolce melodia
non Giove quando più Alcmena gli piacque,
né il sacro Apollo in sì piccïol vaso
per amor misse tanta monarchia.
Qual con più poesia
mai scrisse o scrive con più alto ingegno
non giugnerebbe al segno,
ch'a tua laude o bellezza immensa vale.
Deo vero immortale,
dunque mia fantasia in aiuto chiama
sol te, giusto signor, ch'altro non brama.
Il superfluo, importun e crudo Amore
e' miei longhi disiri e sospir troppi
son proprî citator delle mie frode,
e 'l duol, col qual plorando par ch'io scoppi,
volgon lo stil, lo 'ngegno a farti onore,
non s'accorgendo di mancar tue lode;
pur, dintorno alle parole,
toccando sol l'estreme particelle,
fior delle cose belle,
gentil, franco, cortese, umile e vago,
di cui vista m'apago,
scusa l'ignoto error che mi trasporta,
dentro al qual l'alma sanza te è morta.
Come piacque a colui che 'l mondo volve
e dà lume a' mortal di cerchio in cerchio
m'achiuse ove non val pregio né forza,
né puote riparar al suo superchio,
e' del peccato altrui me stesso asolve,
lasciando a me di me proprio la scorza,
né già mai ciurma a orza
di concordia poggiâr, com'io trascorso
con lui fu', dove un morso,
col qual mi ti donò, mi misse ai denti
e due spron sì pungenti
che 'n un punto mi movi, volvi e resti,
e sol col cenno convien ch'io m'apresti.
O miseri infelici e ciechi amanti,
come comporta il ciel tanta ingiustizia,
perché sì da l'amato vi trasforma?
Fra tante pene una sola letizia,
un breve riso fra cotanti pianti
m'insegna ' andar per traccia e trovar l'orma.
Se avien ch'i' vada o dorma,
t'ho dentro al cor d'un bel marmo intagliato,
cogitando in che lato
è il mio signor, e movo per cercarti,
né so s'i' vo' trovarti;
e temo e spero e bramo di star peggio,
ed ho me in odio e quanto sento o veggio.
Licito, onesto e giusto è sì il mio priego
che innanzi al tuo impetrato cor di smalto
dee pur grazia acquistar, se fede giova;
e ben che e' nol vincesse al primo assalto,
di questo picciol don non mi far niego,
se in te alcuna pietà, signor, si trova;
piacciati di far prova
di me coi tuoi più intimi conservi,
ed ai falsi protervi
non creder, pei qual io tanto mal sofero.
L'alma e 'l corpo ti profero,
ché un simil aver puoi, ma non migliore
servo, né con più fé, né con più amore.
O qual sì crudo mai sotto al battesmo
fu, che di sé pietà non lo strignesse
o qualche spezieltà d'un suo ben propio
ed ogni altro peccato si dimesse
che l'esser micidial di se medesmo?
Io, che tua cosa son, teco m'accopio.
Qual nimico etïopio
a l'incarcero suo negò vivande,
qual tu dono a me grande
nieghi, a te nulla, e ben ch'io nol merti.
Savi gentili e sperti
s'umilian sempre a far a' minor parte,
facendo delle lor parole carte.
Mille e mille fïate ho mossi i piedi
già per contarti il mio misero stato,
di speme, di disio e di duol carco;
né sì tosto a' miei occhi apalesato
fosti dinanzi, e forse che nol credi,
ché perde il colpo, le saette e l'arco,
né mai puote far varco
una intera parola fuor del petto,
del core e l'intelletto:
dinanzi a gli occhi tuoi s'asconde e fugge,
che l'han sì strutto e strugge
che per morte fuggir vuol lasciar vita,
se tua grata risposta non l'aita.
- A' piè del mio signor, canzon, n'andrai,
e digli ch'ei provò già tal discordia;
chiedi misericordia
e fara' ginocchion la tua proposta,
né da lui ti partir senza risposta.

 
 
 

L'aria

Post n°1104 pubblicato il 22 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

L'aria

Un goccio d'aria pura se pô ddì?
Forze va bbene drento le canzoni,
pe' suscità 'n' immaggine, emozzioni,
però 'sta frase nu' la so ccapì.

Puro si a llitri l'aria la misuri,
nun  pô bastatte 'n goccio solamente,
l'anima devi avé piena e la mente.
Solo si tu respiri, tu te curi

quer male che tte pija fôra e ddrento.
È 'n circolo vizzioso, dubbio 'n c'è,
da cui nun esco, ma pperò ce tento.

Eddaje eddaje, su cor naso tiro,
ma l'aria li pormoni nu' la tiè,
perché, senza de te, io nu' respiro.

Valerio Sampieri
22 gennaio 2015

 
 
 
 
 

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