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Messaggi del 24/01/2015

Rime di Celio Magno (331-346)

Post n°1120 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

331

[A Fabio Patrizi]

Di via più ricchi marmi adorna or sorge
la tomba mia da le tue dotte carte
e fabricar con via più nobil arte
per l'amiche tue man, Fabio, si scorge.

Onde d'ogni sua lode ella a te porge,
architetto gentil, la maggior parte;
che 'l dolce suon per cui le pietre sparte
s'uniro a fondar Tebe, in te risorge.

E 'l mio, col nome tuo sculto, di Lete
non varcherà giamai l'orrida sponda,
ma vital per me fia l'ora funesta.

Cortese amor, che, giunto ad alte mete
di chiaro ingegno, il crine altrui circonda
del proprio lauro, e 'l volo al tempo arresta.

332

[A Ercole Udine]

Amor, ch'un vetro agli occhi altrui prepone
del color tinto ond'è la mente impressa,
falsa ammira di fuor sembianza espressa
e per verace entro 'l pensier la pone.

Questo è de l'error tuo dolce cagione,
Ercole, per la lode a me concessa;
questo la cetra mia, roca e dimessa,
tra le pari a la tua, cieco, ripone.

Dunque a te grazie; a me più tosto segua
rossor che vanto: e 'l tuo, nol mio, valore,
magno e cortese oltr'ogni stil si nome.

Così mia forza egual fosse a l'onore:
ch' Ercole anch'io talor ti darei tregua
dal sostener le tue celesti some.

333

[A Lucrezia Marinella]

Qual ghirlanda giamai di più bei fiori
cinse per man di ninfa a Delia il corno,
che quella ond'al tuo canto il crin m'adorno,
angela scesa dai celesti cori?

Son di natura e d'arte alti tesori
quei ch'in te m'apre aventuroso giorno,
ma fan le lodi a te giusto ritorno,
ch'in me soverchie, in te sembran minori.

Non più fastosa sia, non più rammenti
sue donne a par di te l'antica istoria:
sorga il tuo sol, la lor luce tramonte.

E scriva Febo a le future genti
l'affetto del mio cor con la tua gloria,
ne' più bei lauri in sul castalio fonte.

334

[Ad Angelo Ingegneri. 1]

Già dubbio, ed or per voi certo, m'aveggio
di Pindo non errar dal camin vero,
ch'al testimon del vostro cor sincero
giunto a sì gran valor, pochi pareggio.

Ma non mi scorgo tal s'io mi riveggio
qual mi pingete; e tanto indarno spero
ben de l'alloro il natio bello intero
onde 'l crin s'orna Febo, in voi vagheggio.

Splende il Giustinian d'onor sì raro,
splende il Veniero; io l'orme lor pregiate
tento, ma girne assai lontan conosco.

Né deve a' raggi vostri esser discaro
ch'oscuro piè vi segua, alme ben nate,
ché 'l sol più luce a par d'un nuvol fosco.

335

[2]

Troppo a dietro restar me vinto io veggio,
e voi tant'oltre gir per bel sentiero:
ché di lodarmi a pien vano è 'l pensiero,
ingiuria il dirne poco, e 'l tacer peggio.

Né però 'l vanto mio ricusar deggio,
ch'onor d'ogni alma è dolce lusinghiero,
ed ha benigno il ciel merto leggiero
s'altri il ripon di basso in alto seggio.

Quinci oscuro per me nel vostro chiaro
lume io parrò: se non qual mi mostrate
non indegno cultor del lauro tosco.

E con favor sì prezioso e caro
sottratto a morte, a la futura etate
passerò noto anch'io per fama vosco.

336

[Ad Andrea Gussoni]

Chi me, d'ingegno umil, povera tomba
cantando illustra e d'arricchir procura?
Chi rende eterno quel che poco dura
e volge un muto sasso in chiara tromba?

Certo d'angelo voce or qui rimbomba,
ch'ov'io nulla sperai fama futura,
dal diluvio mortal mi fa secura,
sì come altr'arca già sacra colomba.

Dunque a me d'onor ceda ogni sepulcro,
che 'l feretro si cangia in lieta cuna
e nel mio cieco albergo il sol si scorge.

Rispondo: Amor cortese in stil sì pulcro,
con altri, in te sue proprie doti aduna:
ché dal suo fonte ogni miracol sorge.

337

[A Ginevra Maggi Abbiosa]

Pianta a cui neve d'aspro verno e duro
la chioma imbianchi e la virtù reprima,
sembra il mio ingegno; e quanti frutti io prima
ne colsi, nati a basso pregio furo.

Onde in alzando lor non ben figuro
se te più 'l canto o cortesia sublima:
ch'ambo egualmente van di gloria in cima
dando a mia tomba eterno onor futuro.

Quinci de le tue mani opra io divegno
e la mia nobil sete in te si sbrama
sì ch'a par del ginebro il lauro sdegno.

Così potess'io ordir la ricca trama
de le tue lodi, e gir del merto al segno:
ma il ciel tentar senz'ale invan si brama.

338

[A Marco Venier]

Frutto che da sé nacque aspro, immaturo,
con gusto infermo, amor soave stima,
mentre il tuo divin canto il mio sublima,
a cui le Muse ognor sì scarse furo.

Ben col tuo nome il mio giunto assicuro
di quell'onor ch'invan sperai da prima,
posto or da man benigna in tanta stima
e rinovato al bel viver futuro.

O mia rara ventura, o ricco pegno
d'alma cortese, ove ogni nobil brama
s'alza con l'opre a glorioso segno!

Ch'è la tua vita di virtute e fama
perpetuo fonte; onde, o d'invidia è pregno,
o senza cor chi non t'onora ed ama.

339

[A Cristoforo Ferrari]

Dunque a palustre e roco augel s'inchina
di Pindo il più gentil cigno canoro
qual tu, Ferrari? E 'l mio rozo lavoro
al favor del tuo canto il ciel destina?

Ben gir caro a sì degna e pellegrina
alma e di mie fatiche ampio ristoro:
ma dal bel di tue lodi alto tesoro
il mio basso valor troppo declina.

E del tuo dolce inganno è la radice
ch'io, per me nudo, a te splendo coperto
del mio compagno entro la luce altera.

Basti a me del cor d'ambo esser felice
e nell'amarvi anch'io, s'altro non merto,
d'ambo voi riportar palma primiera.

340

[A Orsatto Giustinian]

Se mirabil d'amor legge presume
ch'in noi regga duo corpi un spirto solo,
dovunque spieghi o l'un o l'altro il volo
il medesmo vigor desta le piume.

Ciò vien da te come da fonte fiume,
ch'io non basto a seguir per me lo stuolo
d'Apollo, ma tra quegli il vanto ho solo
ch'adoran d'amicizia il sacro nume.

Così tu, novo Orfeo, morto disarmi
per me cantando, e in me te stesso onori,
cieco a conoscer la tua forza e l'armi.

Ritratto è proprio tuo quel che colori;
e gloria mia ch'ove co' degni carmi
tu m'alzi, io col mio ardor t'arda e innamori.

341

Al signor Cristoforo Ferrari. Primo

Deh, perché avien che noi crudel consume
il tempo, s'è, qual noi, del ciel figliuolo?
Né spuntar possa umana forza o dolo
degli occulti suoi strali il duro acume?

Lasso, ho già sparso il crin di bianche brume
col dolce amico, e seco al fin me n' volo;
e 'l gioir nostro ognor si turba al duolo
che di smembrarsi l'un da l'altro assume.

Ma se certo è 'l morir, dee consolarmi
che i nomi giunti almen, com'ora i cori,
vivran nel canto onde a lui piacque ornarmi;

e ch'io pinto non men ne' tuoi colori
securo vo, di seco eterno starmi
a l'ombra ancor de' tuoi famosi allori.

342

Secondo

Chi di sacro Parnaso al bel cacume
odo e veggio cantando alzarsi a volo
ch'a prova il cigno vince e 'l rossignuolo
e qual canto ammirar più si costume?

Porgagli lauri il colle e palme Idume,
e l'or de le su' arene Ermo e Pattolo,
e mentr'io l'alma in ascoltar consolo,
per me Febo ne tessa ampio volume.

Tu Ferrari, tu sei: ch'or a bearmi
vieni con l'armonia dagli alti cori,
ed a' tue lodi ed al tu' amor degnarmi.

Io sì legato il cor da' tuoi favori,
se non basto a scolpirti in ricchi marmi,
sacro a te questi almen poveri fiori.

343

[A Offredo Offredi]

Col gran Bembo, di Febo amato figlio,
ripor me dal mio basso gli alti scanni,
di poveri cangiato in ricchi panni,
signor, è sol d'amore opra e consiglio.

Questo in mio troppo onor v'inganna il ciglio,
e mentre da fuggir del tempo i danni
sì cortese a me presta i propri vanni,
d'Icaro ogni timor pongo in essiglio;

che come al Tebro in questo salso stagno
date di Dio ministro alto splendore,
così le Muse in voi se stesse ornaro.

Quinci il crin v'ornerà col lauro a paro
l'ostro; e ben voi già sete in ogni core
Bembo non pur, ma Pietro, e sacro, e magno.

344

[Ad Aurelio Prandino]

Portar luce al sol osa
quel ch'io d'Ascanio canto,
e 'l cieco di me vanto
dal dolce fonte del tu' amor deriva.
Cantane tu, ch'al morto hai canto eguale,
giunte a le sue de la tua fama l'ale;
sol lode a me s'ascriva
di cor pien d'alta brama
che lui morto e te vivo onora ed ama.

345

[A Tiberio de' Conti]

Qual pianta steril suol, ch'inserto porte
fecondo germe e in lui si rinovelle;
o roza tela, a cui famoso Apelle
con dotta man ricco ornamento apporte;

tal per tue lodi al mio stil roco porte,
canoro ei sembra e si trasforma in elle;
e le due del mio cor dolci facelle
con maggior vampa in me sento risorte.

Ma s'elle ardean non meno i tuoi desiri,
o che bei frutti di felice ingegno
potea 'l mondo raccor fra tuoi sospiri.

Potessi or io l'onor, che da te vegno
a trar, dar frutto a que' duo vaghi giri:
poich'io ne son, fuor che per grazia, indegno.

346

[A Marino Garzoni]

Oh foss'io degno del tesoro in parte
ond'ora il nome mio s'ingemma e inostra
come del vostro cor, ch'indi si mostra,
Marin, mi glorio aver sì ricca parte.

Ma cieco affetto a me l'onor comparte
che troppo val con debil merto in giostra;
e mentre vien da lui mia lode mostra,
pinge incauto voi stesso a parte a parte.

Voi degli anni sul fior correte dietro
con piè franco a virtù per camin erto,
pien d'opre degne e d'umil cure scarco;

io su i vostri pietosi omeri carco
novo Anchise in amor, vo lieto e certo
di fuggir de l'oblio l'incendio tetro.

 
 
 

Il Dittamondo (5-15)

Post n°1119 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XV

Lo nono mese era giá de l’anno, 
allor che in Alessandria mi posai, 
debole e stanco per lo lungo affanno. 
Di molte lingue qui gente trovai, 
che fan mercatanzia co’ Saracini 5 
e propio cristian vi vidi assai. 
Questa cittá si è su le confini 
d’Africa e d’Asia e pare che dicerna 
Europa contro al mar che batte quini. 
Vidi la torre, dov’è una lanterna, 10 
di sopra il porto, la qual, col suo lume, 
li navicanti la notte governa. 
E qual vuol ire al Cairo su pel fiume, 
sette dí pena e quattro per terra: 
cosí quei che vi vanno han per costume. 15 
E se la gente, ch’è di lá, non erra, 
io vidi una cappella, onde il beato 
Marco a ingegno il Venezian disserra. 
Acqua dolce non hanno in alcun lato: 
tutte vi sono, come il mare, amare; 20 
dal Nilo l’hanno nel tempo ordinato. 
Grande è la terra e ricchissima pare, 
con casamenti di pietre e di marmi, 
alte le mura e forti da guardare. 
"Solin, diss’io, deh piacciati di farmi 25 
chiaro questa cittá chi puose prima, 
a ciò ch’ancor lo noti ne’ miei carmi". 
Ed el: "Quel greco, che si pone in cima 
de la rota del mondo e tiene un pome, 
la fonda e ferma: e ciò per certo stima. 30 
La veritá ti manifesta il nome. 
Non sol questa, ma dodici n’ospizia 
e fece fare: e odi il dove e ’l come. 
Dopo l’acquisto e ’l grande onor di Sizia, 
voglio che sappi, senza niun fallo, 35 
che una in quelle parti ne difizia. 
Ancor dove fu morto Bucifallo 
ne fece un’altra, per farne memoria, 
sí come in India la piú parte sallo. 
Similemente, dopo la vittoria 40 
ch’ebbe di Dario, come si ragiona, 
tra’ Persi dico un’altra ello ne storia. 
E presso ancora a la gran Babilona, 
dov’è Caldea, un’altra ne fece, 
poi che di tutto il regno s’incorona. 45 
E per l’usanza, ch’era in quella vece, 
d’acquistar fama e onorar sua patria, 
una ne fe’ ne le confine grece. 
Cosí di sopra al paese di Batria 
l’altra formò, per dare asempro e copia 50 
ch’a cercar d’ir piú lá è una smatria: 
Ercules, dico, in quella parte propia, 
per mostrar sua vittoria pose un segno 
e altri alcun che quel terren s’appropia. 
E perché vide il luogo ricco e degno 55 
di Margiana e Termedite, ancora 
una ne forma dentro dal suo regno. 
In Frigia, presso ove Troia dimora, 
fe’ l’altra e, se coi piedi di lá raspi, 
ben la potrai veder, ma poco è ora. 60 
Non lungi è l’altra a le porte de’ Caspi, 
dove addietro t’ho detto che di rado 
vi passa l’uom, che tristo non v’innaspi. 
Una ne forma con ricco contado 
tra’ Massageti, e l’altra presso a Poro, 65 
sopra un bel fiume, dove è porto e guado. 
Ma vienne e qui non facciam piú ristoro". 
E io: "Va pur, ché l’andar m’è diletto 
e fatica del cuor quando dimoro". 
Qui non fun piú parole né aspetto; 
prese la strada, sí come colui 
che sapea di lá ogni tragetto. 
E poi che ’n parte, che mi piacque, fui 
e vidi il tempo ch’era a ciò disposto, 
cosí parlando mi rivolsi a lui: 75 
"A ciò che ’l nostro andar sia di men costo, 
piacciati dirmi perché la cagione 
a questo regno Libia nome è posto". 
Ed ello a me: "Diverse opinione 
ne son; l’un dice che Libia è un vento 80 
africo qui, che tal nome li pone. 
L’altro si vuole, al quale io piú consento, 
ch’Epafo, che fu figliuolo di Giove, 
venne in Egitto con molto argomento. 
Menfione fé, prima che gisse altrove; 85 
una figlia ebbe, a la qual Libia disse, 
accorta molto e con bellezze nove. 
Apresso pare che di qua venisse 
e che, per suo valor, fosse signore 
di queste parti tanto quanto visse. 90 
Onde, per fare a la figliuola onore, 
Libia nominò il regno tutto. 
Or n’hai, com’io, il ver dentro dal core". 
E io, che penso pur di cavar frutto 
de le parole sue, sempre andando, 95 
li dissi: "Assai m’è chiaro il tuo costrutto; 
ma quanto posso ti prego e domando 
ch’ancor m’allumi se qui la vista erra 
o dritto scorge, da lungi mirando: 
perché a me par veder sopra la terra 100 
lo mar sí alto, che m’è maraviglia 
che non si spande e come in sé si serra". 
Ed ello a me: "Quel ch’è ’l ver, ti somiglia; 
ma la virtú di Dio, che ’l ciel corregge 
e che ogni alimento abbraccia e piglia, 105
termine ha posto a tutte cose e legge".
 
 
 

Della Casa 02: sonetti

Post n°1118 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

VI

Nel duro assalto, ove feroce e franco
guerrer, così com'io, perduto avrebbe,
a voi mi rendei vinto; e non m'increbbe
privo di libertà pur viver anco.

Or tal è nato giel sovra 'l mio fianco,
che men fredda di lui morte sarebbe
e men aspra; ch'un dì pace non ebbe
l'alma con esso, né riposo unquanco.

Ove il sonno talor tregua m'adduce
le notti, e pur a' suoi martir m'invola,
questi del petto lasso ultimo parte:

poi come in sul mattin l'alba riluce,
io non so con quai piume o di che parte,
ma sempre nel mio cor primo sen vola.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 6 (pag. 4)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 254



VII

Io mi vivea d'amara gioia e bene
dannoso assai, ma desiato e caro,
né sapea già che 'l mio signor avaro
a' buon seguaci suoi fede non tene.

Or l'angeliche note e le serene
luci, che col bel lume ardente e chiaro
lieto più ch'altri in festa mi menaro
sì lungo spazio, fra tormenti e pene;

e 'l dolce riso, ov'era il mio refugio
quando l'alma sentia più grave doglia,
repente ad altri Amor dona e dispensa,

lasso: e fuggir devria di questa spoglia
lo spirto oppresso da la pena intensa;
ma per maggior mio mal, procura indugio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 7 (pag. 4)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 255

Note:
Ricalca quello del Petrarca in vita di madonna Laura: Io mi vivea di mia sorte contento.
(Carrer, cit., pag. 301)



VIII

Cura, che di timor ti nutri e cresci,
e più temendo maggior forza acquisti,
e mentre con la fiamma il gielo mesci,
tutto 'l regno d'Amor turbi e contristi;

poi che 'n brev'ora entr'al mio dolce hai misti
tutti gli amari tuoi, del mio cor esci:
torna a Cocito, a i lagrimosi e tristi
campi d'inferno: ivi a te stessa incresci,

ivi senza riposo i giorni mena,
senza sonno le notti, ivi ti duoli
non men di dubbia che di certa pena.

Vattene: a che più fera che non suoli,
se 'l tuo venen m'è corso in ogni vena,
con nove larve a me ritorni e voli?

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 8 (pag. 5)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 256
Scelta di Sonetti con varie Critiche osservazioni, ed una dissertazione intorno al sonetto in generale, Teobaldo Ceva, in Venezia, Presso Domenico Occhi, 1737, pag. 90

Note:
Sonetto notissimo nelle scuole, lodato dal Tasso, e dal Pallavicino nel trattato dello stile e dal Varchi, e dal Muratori, e da tutti; ma a parer mio più ingegnoso che appassionato, se non forse nell'ultima terzina, ove l'interrogazione ristora della stanchezza cagionata dal visibile artifizio dei versi antecedenti. Ad altri potrà sembrar altro; né io intendo spacciar lezioni, ma pareri. Il Varchi leggeva il secondo verso così: E tosto fede a' tuoi sospetti acquisti. V'ha chi dice imitato da uno del Bembo: Speme che gli occhi nostri veli e fasci, ec. E non è il solo che il Casa scrivesse premendo i vestigj di quel poeta, sempre però in modo che l'imitazione sovrasta.
(Carrer, cit., pag. 301)


IX

Danno (né di tentarlo ho già baldanza)
fuggir mi fôra il vostro ardente raggio,
bench'io n'avampi, o donna; e non vantaggio,
sì cara e di tal pregio è mia speranza.

E se talor contra l'antica usanza
mi fermo, e seguir voi forza non aggio,
fo come chi posando in suo viaggio
vigor racquista, e 'n ritardar s'avanza:

per poter poi, quando sì rio tal volta
con tai due sproni il mio signor mi punge,
correr veloce, e con ben salda lena.

Quanto la vostra luce alma m'è tolta,
tanto 'l diletto mio m'è posto lunge:
perch'io precorro Amor, ch'a voi mi mena.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 9 (pag. 5)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 257



X

Dolci son le quadrella ond'Amor punge,
dolce braccio le aventa, e dolce e pieno
di piacer, di salute è 'l suo veneno,
e dolce il giogo ond'ei lega e congiunge.

Quant'io, donna, da lui vissi non lunge,
quanto portai suo dolce foco in seno,
tanto fu 'l viver mio lieto e sereno;
e fia, finché la vita al suo fin giunge.

Come doglia fin qui fu meco e pianto,
se non quando diletto Amor mi porse,
e sol fu dolce amando il viver mio,

così fia sempre: e loda aronne e vanto,
che scriverassi al mio sepolcro forse:
Questi servo d'Amor visse e morìo.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 10 (pag. 6)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 258

Note:
Il voto dell'epitaffio è fantasia tibulliana. Ma nel latino si trova espressa con più affetto, perché determina più minutamente le circostanze della morte. In generale è sonetto lodatissimo dal Tasso nel "Discorso del Poema eroico". Questo e il seguente si citano da Mario Colonna in un suo "Ragionamento", per dimostrare che il Casa, volendo, sapeva comporre dolcissimamente.
(Carrer, cit., pag. 302)

 
 
 

Mariotto Davanzati 04

Post n°1117 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

IV

Canzon morale del detto Mariotto per una donna della quale esso era innamorato.

Miracol nuovo, che la specie umana
inclita fai e molto più natura,
non dimostrato qui senza gran segno,
non passò sì le sue ninfe Diana
come il tuo vago aspetto copre e fura
ogni mortal bellezza ed ogni ingegno.
Com'io fui fatto di vederti degno,
conobbi Amor seder fra le tue ciglia,
e, come cacciator la cerva al varco
aspetta, aperse l'arco
e disse: «Non fuggir, ché quel ti piglia!»
Paura e maraviglia
mi stupîr sì ch'io caddi semivivo
e di libero arbitrio in tutto privo.
Se per cruda fortuna o per distino
i' fui condotto semplicetto e vago,
disciolto d'ogni laccio e di paura,
a veder, forse per arte mago,
di perle il volto e 'l capel d'oro fino
e l'angelica tua degna figura,
pietosa in vista, or terribile e dura,
non dovria ver me farsi, né t'è onore,
con tal malizia uccider uom sì parco;
né pur mi serri el varco
di libero tornar, ma con furore
di catene m'hai carco:
ond'io di libertà mi truovo gnudo
e d'un sì bel signor, e non men crudo.
Misero, che, all'entrar, i' fui sì pronto,
pien di dolci pensier soavi e puri
nel mio eterno e doglioso aberinto!
Or bramo morte, e con pensieri oscuri
ad uno ad uno i tristi giorni conto;
da sì spietata man sì opresso e vinto,
da ira, sdegno, doglia a una spinto,
trascorro dove fu la prima entrata,
per uscir fuor del fuoco ov'io sempre ardo;
ma, poi che intorno guardo
né veggio alcuna via alla tornata,
l'alma già disperata
a la seconda morte si conduce:
vostro è il peccato, ché ne siete duce.
Ma tu che vedi ancor lo strazio iniquo,
che del suo servo fa questa scherana,
senza temer di te, né di tuo strali,
e vedi com'è l'alma e 'l corpo obliquo,
per seguir questa nuova tramontana,
con martir stati mai maggior, né tali,
adopra, per dio, l'arco, adopra l'ali,
sì che la senta e pruovi quel che puoi
e sia punita del passato scherno!
Sia giusto el tuo governo,
sì che non si ribelli i servi tuoi;
infiamma i disir suoi
de la fiamma, che i miei son per te accesi,
e tanto più quanto men n'hai difesi!
- Canzon, vanne dinanzi al mio signore
e scuopri i tuoi martiri,
i qual, s'avien che miri,
di': «Qui mi manda il vostro servidore,
qual, di passar Istige è già costretto,
se pietà prima non vi scalda el petto».

 
 
 

Il Dittamondo (5-14)

Post n°1116 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XIV

Presso eravamo alla cittá di Tripoli, 
quando il frate mi disse: "In fin c’hai spazio, 
di’ se bisogna ch’io di piú ti stipoli". 
E io a lui: "Assai m’avete sazio 
del gran disio, onde assetava adesso, 5 
perch’io, quanto piú posso, vi ringrazio". 
Poi si volse a Solin, che gli era presso, 
dicendo: "De la vostra compagnia, 
se pro vi fosse, non sarei mai fesso. 
Ma, quando avvegna ch’util non vi sia, 10 
passare intendo il mar, dove ripara 
ne la bella cittá la gente mia". 
"Sempre la vostra compagnia ci è cara; 
ma non bisogna, rispuose Solino; 
e gran mercé de la profferta chiara". 15 
Così quel frate onesto e pellegrino, 
dicendo addio, a man sinistra prese, 
dritto al mare Adriano, il suo cammino. 
Solino ancor, da l’altra parte, intese 
a seguir la sua via e io apresso, 20 
lassando Zerbi a dietro e Capese. 
Dissemi, poi che nel cammin fu messo: 
"A Tripoli n’andremo e, se ti pare, 
quivi staremo e posaremo adesso". 
E io: "Tu sai la via, tu sai lo stare; 
fa’ che ti pare, ché l’uom poco lodo 
ch’a piú savio di sé legge vuol dare". 
Sí com’el disse, così tenne il modo; 
la cittá vidi tanto real, ch’io 
fra le piú degne de l’Africa lodo. 30 
Poi partiti di lá solo ello ed io, 
pur lungo il mare fu la nostra strada 
su vèr levante, dove avea il disio. 
Noi giungemmo, cercando la contrada, 
dove Solin mi disse: "Figliuol, mira 35 
quel mar, dove uom non sa dove si vada. 
Vedi le Sirti, che quando ci gira 
nave alcuna, trovar pare il demonio: 
sí tosto la volge e al fondo la tira. 
Di ciò fen prova Gabrio e Sempronio 40 
che, tornando con gran navilio a Roma, 
perdenno il piú, che parve loro un sonio. 
La cagione perché cosí si toma, 
si è che l’acqua in un luogo è profonda 
e, in altro, monti di rena non doma; 45 
onde il maroso, che quivi seconda, 
truova il gorgone e i monticei, ch’io dico, 
nei quai riflette e gira le sue onda. 
Per che, la nave giunta in questo oblico, 
lo volvo d’acqua e i gran venti la inghiotte, 50 
che par che sia, com’io dissi, il Nemico. 
Sappi che duran queste onde sí rotte 
dodici volte venti miglia e piú: 
pensa il dolore a chi ci vien di notte. 
Lo nome suo senza cagion non fu: 55 
ché sirte, in greco, tira, in latin, dice, 
ché ciò che truova tira al fondo giú. 
Queste son due e ciascuna infelice: 
ne la minore è l’isola Menede; 
Filen ne l’altra tien la sua radice. 60 
Ma passiamo oltre, ché ’l tempo ’l richiede 
e mille anni mi par vederti a Napoli, 
nel bel paese dove Italia siede". 
"Quanto piú tosto del cammin mi scapoli, 
dissi io a lui, e piú mi fai piacere". 65 
E cosí ci traemmo in vèr Pentapoli. 
Ricco è il paese e con molto podere 
e da cinque cittadi il nome sona: 
in contro a sé la Grecia può vedere. 
Noi fummo in Tolomea, che si ragiona 70 
ch’anticamente fu di queste cinque, 
e vidi Ceutria, ove non sta persona. 
Apollonia e Bernice son propinque; 
da due gran re Bernice e Tolomea 
preson la fama, ch’ora in lor relinque. 75 
Un popol grande confinar vedea 
con queste e con le Sirti, che son ditti 
Trogoditi, acerba gente e rea. 
Io vidi, ricercando per quei gitti, 
la cittá de’ Giudei e Cedra ancora, 80 
che piú dal mezzodí lí sono afflitti. 
Vidi il monte di Barchi, che dimora 
in contro a Bonandrea, dove posai 
con la mia guida come stanco, allora. 
In questo modo, in Libia mi trovai 85 
Cirenese, cosí giá nominata 
da Cirena, cittá famosa assai. 
Questa provincia è molto lunga e lata, 
in certe parti piena di gran selve 
e in altra ricca e bene abitata. 90 
Per li gran boschi stanno fiere belve; 
maraviglia è chi, per lo gran veleno, 
passa tra lor, se vivo se ne svelve. 
Noi fummo in Alessandria, ove vien meno 
da questa parte Libia, perché quivi 95 
lo Nil truovo che, come ho detto, è freno
de l’Africa, a levante, coi suoi rivi.
 
 
 

Rime di Celio Magno (321-330)

Post n°1115 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

321

Sopra il giardino da Ca' Diedo in Murano

Oh come gli occhi e 'l cor m'alletta e fura,
nobil giardino, il tuo ridente aspetto,
come tra lor nel tuo bel campo eletto
contendon de la palma arte e natura.

Né men deve in te dirsi alta ventura
servir signor di cortesia ricetto
che sol prezza il tesor del tuo diletto
quand'altri il gode, e in ciò tua gloria cura.

Ben dunque egli di te, di lui tu degno,
ciascun più per altrui che per sé nato,
doppio in terra del ciel gradito pegno:

tu di letizie, ei di virtute ornato.
E vince il merto d'ambo ogni alto segno,
o paradiso, o possessor beato!

322

Al clarissimo signor Almorò Nani, donandoli un gotto

Questo fral vetro, a te di saldo amore
ch'a nessun cede in testimonio offerto,
specchio esser può del camin proprio e certo
che l'uom guida a bel fin lungi d'errore.

Questo la sete estingue, e noi l'ardore
spegner debbiam d'ogni desir tropp'erto,
e qual egli traspar chiaro ed aperto,
tal senza macchia aver candido il core.

Il dolce nettar poich'in lui si prova
insegna a la virtù misto il diletto,
in cui congiunti il vero ben si trova.

Né però 'l mando in norma ad uom perfetto
ma sol perché qualor di ber ti giova
desti la mia memoria entro il tuo petto.

323

Proemio dei madrigali spirituali

Gli occhi, ma via più 'l core
leggendo affisa in queste sacre rime,
in cui di Dio s'esprime
quel ch'uomo oprò d'ogni uman uso fuore:
ineffabil bontade, immenso amore,
sommo saper sublime,
infinito poter di stupend'opre,
fuor d'ogni accento, lor spira e si scopre.
Stampale ancor tu poi
col divin sangue e chiodi acuti suoi
in mezzo l'alma: e 'l tuo divoto zelo
vittoria avrà nel mondo e palma in cielo.

324

Quel che splende in tre soli unico sole
dal ciel di gloria per sovran consiglio
d'infinita pietà rivolse il ciglio
ne l'uom, simile a lui, diletta prole.

Mentr'ei di gravi error sott'alta mole
giaceva oppresso in lagrimoso esiglio,
e' mandò per suo stampo il proprio figlio,
pegno promesso in sue sacre parole.

Quegli in terra discende e in uman velo
con sua vita a ben far gli porge essempio,
e con la morte sua da morte il guarda.

Or qual petto esser può sì duro ed empio,
scorto ver lui di Dio sì ardente zelo,
che d'amor, grato a tant'amor, non arda?

325

Al magnifico signor Girolamo Rannusio.

Poi ch'io fui del tuo germe al sacro fonte,
ove rinacque in Dio, padre secondo,
qual vecchio, esperto peregrin del mondo,
spargo tai voci, al suo ben calde e pronte.

Guidalo tu per mano a l'erto monte
de la virtute, e fa il salir giocondo;
nodrisci in lui d'onor seme fecondo,
che produca opre a te leggiadre e conte.

Ma pria che 'l mento infiori, il cor gli informa,
perch'in tenera età costume impresso
è di buon frutto o reo propria radice.

Quinci il vedrai stampar di gloria ogni orma
nel bel camin degli avi e di te stesso,
nobil sua scorta e genitor felice.

326

All'eccellentissimo signor Orazio Guarguante

Se da mortal periglio a vita scorto
spiro per te, novo Esculapio mio;
novo, e di grato cor medico anch'io
rimedio a te contra mestizia apporto.

Bevi a mensa con Febo in bel diporto
dentro il vaso ripien ch'ora t'invio,
del nettare di Bacco il dolce oblio
vital de l'egre menti ozio e conforto.

Così 'l ciel nel licor salute inspiri,
tal che raddoppi in te gli anni e la gioia,
e sembri un paradiso il tuo ristoro.

Pover è 'l don, ma s'a l'affetto miri
è ricco; e se con lui talor tua noia
fia spenta, potrà dirsi alto tesoro.

327

[A Lucio Scarano. 1]

Qual tromba de la tua più dolce ammira,
Lucio, il bell'Arno? E qual dal tempo rio
scampo di lei più fido aver poss'io
mentre in mio onor tua cortesia l'inspira?

Né sol Febo d'alloro il crin t'aggira
ma, pien d'alto saper, Natura e Dio
contempli, e de le lingue onde fiorio
Ilisso e Tebro il pregio in te si mira.

E benché m'ornin troppo i carmi tuoi,
grazia stimo però ch'amor t'inganni,
sì ch'or mia bassa cetra alto rimbomba;

ché con le lodi onde arricchir mi vuoi
ristorerò d'avara sorte i danni,
fatto aquila per te d'umil colomba.

328

[2]

Scarano, a te che tieni in man la chiave
ch'apre Elicona, ogni uom di lui seguace,
qual rio che porta al mar l'onda fugace,
tributo del suo ingegno a render have.

Quinci è 'l mio dono; e s'al tuo culto e grave
giudicio in parte almen risponde e piace,
o quanto oltra la speme acquisto face
e di timor d'oblio vien che si sgrave!

Ché quando altro d'onor premio non senta,
pago ei n'andrà de le tue lodi sole,
che pon celebre farlo in ogni parte;

tal povero nocchier, mentre paventa
tra dubie sirti, in porto arrivar suole,
e d'or carco e felice indi si parte.

329

[A Orazio del Toso. Primo]

Di tai pregi, e non d'altro, il crin m'adorno
sovra i duo cigni a cui prepor mi tenti:
ch'essi tra fere e boschi e roze genti
temprar la lira e indegno ebber soggiorno;

io con la mia far cerco al tempo scorno
in cittade real, tra nobil menti.
e se tu solo a mie lodi consenti,
più che 'l Trace e 'l Teban chiaro ne torno.

L'un fondò mura a stuol famoso in armi:
io tempio innalzo a spirti in toga, illustri
per opre ond'uomo un dio terren diventa;

l'altro Euridice perde: io se prestarmi
la cetra vuoi con che Parnaso illustri,
da Lete al ciel trarrò la mia fama spenta.

330

[Secondo]

Fuggendo de l'oblio l'ira e lo scorno,
spiegai timide vele a dubî venti;
or dal giudicio de le nobil menti
per te lieto e sicuro, Orazio, i' torno.

Tal senno, tal valor ha in te soggiorno,
ch'è certa norma altrui quel che tu senti;
benché troppo in mie lodi il fren rallenti,
che fan da me qual d'eco in te ritorno.

Tu col dolce cantar non pur disarmi
di lauro i duo, ma tutti i cigni illustri,
ch'agguagliar il tuo volo invan si tenta.

Ver me dunque a sua voglia il tempo s'armi:
che col tuo scudo onde m'affidi e illustri,
mia fama il suo furor nulla paventa.

 
 
 

'A tartaruga

Post n°1114 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

'A tartaruga

'Na tartaruga è 'scita de la tana
pe' vedé 'r monno e ppe' ssapé com'è.
Voleva fasse 'n viaggio a Santa Fé,
ma doppo 'mmese se fermò a Mmentana;

viaggianno a ttrenta metri a settimana,
tu lo capischi, ce lo sai date,
e quinni manco te dirò 'r perché,
l'avventura comprese ch'era vana.

Si troppo lungo è 'r passo, nun va bbene,
bbigna capì che l'omo è llimitato
e, si lo fa, ciavrà sortanto pene.

L'omo superbo môre disperato,
perché ha ccreato lui le sue catene.
Capì 'ndò pôi arivà tu è più sensato.

Valerio Sampieri
24 gennaio 2015

 
 
 

Della Casa 01: sonetti

Post n°1113 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Le Rime secondo la stampa del 1558

I

Poi ch'ogni esperta, ogni spedita mano,
qualunque mosse mai più pronto stile,
pigra in seguir voi fôra, alma gentile,
pregio del mondo e mio sommo e sovrano;

né poria lingua, od intelletto umano
formar sua loda a voi par, né simile,
troppo ampio spazio il mio dir tardo umile
dietro al vostro valor verrà lontano:

e più mi fôra onor volgerlo altrove;
se non che 'l desir mio tutto sfavilla,
angel novo del ciel qua giù mirando:

o se cura di voi, figlie di Giove,
pur suol destarmi al primo suon di squilla,
date al mio stil costei seguir volando.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 1 (pag. 1)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 249



II

Sì cocente penser nel cor mi siede,
o de' dolci miei falli amara pena,
ch'io temo non gli spirti in ogni vena
mi sugga, e la mia vita arda e deprede.

Come per dubbio calle uom move il piede
con falso duce, e quegli a morte il mena,
tal io l'ora ch'Amor libera e piena
sovra i miei spirti signoria vi diede,

il mio di voi penser fido e soave
sperando, cieco, ov'ei mi scorse andai:
or mi ritrovo da riposo lunge.

Ch'a me per voi disleal fatto e grave
l'anima traviata opprime e punge,
sì ch'io ne pèro, e no 'l sostengo omai.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 2 (pag. 2)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 250

Note:
Tal io, ec. Il senso e la costruzione di questo e de' versi seguenti fino a tutto il decimo, sono un poco intralciati. Costruisci: Nel tempo che Amore vi fece mia donna, andai cieco dietro la scorta del pensiero che mi parlava di voi, e ch'io credeva fido e soave.
(Carrer, cit., pag. 301)


III

Affligger chi per voi la vita piagne
che vien mancando e 'l fine ha da vicino,
è natural fierezza, o mio destino,
che sì da voi pietà parta e scompagne?

Certo, perch'io mi strugga, e di duol bagne
gli occhi dogliosi e 'l viso tristo e chino,
e quasi infermo e stanco peregrino
manchi per dura via d'aspre montagne,

nulla da voi fin qui mi vène aita;
né pur per entro il vostro acerbo orgoglio
men faticoso calle ha 'l penser mio.

Aspro costume in bella donna e rio
di sdegno armarsi, e romper l'altrui vita
a mezzo il corso, come duro scoglio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 3 (pag. 2)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 251


IV

Amor, per lo tuo calle a morte vassi,
e 'n breve tempo uccide il tuo tormento,
sì com'io provo; e non però consento,
né so per altra via mover i passi.

Anzi, perché 'l desio vole e trapassi
più veloce al suo mal che strale o vento,
spesso del suo tardar mi lagno e pento,
sospignendo pur oltre i pensier lassi:

tal che, s'i' non m'inganno, un picciol varco
è lunge il fin de la mia vita amara;
e nel tuo regno il piè posi pur dianzi.

Poco da viver più credo m'avanzi,
né di donarlo a te tutto son parco:
tal costume, signor, teco s'impara.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 4 (pag. 3)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 252



V

Gli occhi sereni e 'l dolce sguardo onesto,
ov'Amor le sue gioie inseme aduna,
ver' me conversi in vista amara e bruna,
fanno 'l mio stato tenebroso e mesto.

Ché qualor torno al mio conforto, e presto
son, lasso, di nutrir l'alma digiuna,
trovo chi mi contrasta, e 'l varco impruna
con troppo acerbe spine; ond'io m'arresto.

Così deluso il cor più volte, e punto
da l'aspro orgoglio, piagne: e già non have
schermo miglior che lacrime e sospiri.

Sostegno a la mia vita afflitta e grave,
scampo al mio duolo, e segno a i miei desiri,
chi t'ha sì tosto da mercé disgiunto?

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 5 (pag. 3)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 253

Note:
E' sonetto finito al sommo, e pieno d'ingenua soavità ed eleganza. Vivacissima l'interrogazione dell'ultimo ternario, dopo il riposato andamento del resto. L'Alfieri imitò questo artifizio in un sonetto al cavallo portatore della sua donna.
(Carrer, cit., pag. 301)

 
 
 

Mariotto Davanzati 03

Post n°1112 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

III

Canzon morale del detto Mariotto dove si duole della morte d'un poeta e narra le sue virtù.

Fra' miei tanti pensieri oscuri e torbi,
pur per ritrarre a piè di questi sterpi
e solver l'ale del tenace vischio,
come per tempo costuman le serpi,
essemplo aperto a noi veramente orbi,
lo scoglio lor lasciar fra cischio e cischio,
un più licito fischio
volse la fantasia atenta al vulgo.
Ahi lasso, ove risulgo,
ov'è la fama e 'l poetico ingegno?
Qual è stato ritegno
de la mia debil lingua, e qual antenna
ha sì tardato la debile penna?
Impetri tanto il mio ingegno di grazia
che le lagrime dure, al cor raccolte,
tacite si dimostri in questi versi.
Or hai tu, Morte impetüosa, sciolte
l'iracundie tue forze e fatta sazia
d'aver lasciati i pruni e i fior somersi?
Ahi, uomin perversi,
condoletevi, ingrati Fiorentini,
di perder tal vicini,
e tu, quartier de lo Spirito Santo,
che ti potei dar vanto
d'aver sì degna e glorïosa salma,
ben che degno non fussi di tal alma!
Licito fusse a me por giù l'incarco
di queste abandonate e fragil membra
per veder il tesoro e la mia speme,
ché ancor, lasso, ov'io guardo mi rimembra
tanto l'effige sua che l'alma al varco
trascorre spesso per trovarsi insieme!
Anzi, perché si teme
di perder questo poco che ci avanza,
perduta è la speranza,
consiglio, ingegno, appoggio ed intelletto.
Dunque perché sospetto
di por giù queste fronde sanza frutto,
poco lasciando, per posseder tutto?
Immaginar non posso come ponno
ferrar sì stretto gl'invisibil lacci
di quella glorïosa alma serena,
quali esser posson sì dubbiosi impacci:
ne l'andar, ne lo star, almen nel sonno
l'ombra non s'interponga a tanta pena.
Misero, qual catena
ritien lo spirto scosso dal bel velo?
Forse piacer del cielo,
del qual tu vedi aperto il puro core
e senti il mio dolore,
el qual dee conturbar la tua letizia,
se forza o fé ebbe nostra amicizia.
Pur se finir dovea Morte superba
l'estrenua e mirabile eccellenza
di quel che 'l mondo cieco anco richiama,
qual destin, qual fortuna o qual potenza
sì cruda fulminò la pianta acerba,
che gli serbava sì perpetua fama?
Ahi, Fortuna grama,
che in sì piccol ingegno hai messo pondo,
soverchio a tutto il mondo,
a spremer la virtù del seme e l'ovre,
che 'l dì venti d'ottovre,
Domini mille quatrocentrent'anni,
rapìa Giorgio di messer Giovanni!
Pianga l'abbandonata Poesia,
Arismetrica pianga e tu Gramatica,
e Retorica prenda vesta nera,
tu, ch'esser suol col vulgo sì salvatica,
pianger sempre ten dei, Filosofia,
d'aver perduta l'ultima tua spera,
ché, a mio giudizio, egli era
d'ogni celeste possa fido segno!
Mondo superbo e indegno,
quel che non conoscevi il cielo scelse;
in te tal pianta svelse,
che ti facea fiorir, ed or son secchi
i tuoi sì sparsi rami, e pien di stecchi.
O spiriti famosi, eccelsi e sacri,
o incomprensibil regno, o ben nate alme,
o sacrato mirabile e sì caro,
or v'allegrate, e con ulivi e palme
ricevete colui che me in sì acri
sospir lasciò, partendo, e 'n pianto amaro!
Quanto pulito e chiaro
più si dimostra il ciel ov'ei dimora
e 'l sol, che a ora a ora
oltre a l'usato corso ivi s'arresta!
Or che solenne festa
gli fan dintorno quell'anime sante,
ma più il Petrarca e 'l mio poeta Dante!
- Canzon, come da me ti partirai,
dritta a veder ten vai el bel tesoro,
el qual, sempre piangendo, in terra chiamo.
Quivi il vedrai con sì mirabil arte
ornato in mezzo del celeste coro;
e' vede or quanto i' l'ho amato ed amo;
priegal che per me impetri quel ch'io bramo:
di lasciar questo vulgo e questo errore
e girne a' piè del suo e mio Signore.

 
 
 

Rime di Celio Magno (311-320)

Post n°1111 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

311

[A Girolamo Dandolo]

Qual il sol se chiedesse ad altri il giorno,
e Febo il canto a me, che indarno il bramo,
o di lauro cercasse altronde un ramo
di mille lauri il bel Parnaso adorno,

tal voi, che 'l crin sì ricco avete intorno
di raggi e frondi, ond'io nudo mi chiamo,
il lume e 'l pregio ch'in voi scorgo ed amo
a me chiedete, al ver facendo scorno.

Ch'amor e cortesia spinse ad aitarmi
da l'empio Lete il vostro stil divino,
ond'io campar per me sperava indarno.

Ma, mentre ei tenta ov'io non giungo alzarmi,
alza voi stesso per sì bel camino,
che cede al cantar vostro il Mincio e l'Arno.

312

[A Strozzi Cicogna]

Nulla in te, Strozzi, ammiro,
se tra le due città scerner non puoi
qual più sue glorie ha sparte.
Che là 've il ciel comparte
merto infinito, il giudicar vien meno;
e riman vinta umana lingua ed arte.
Tal io non scorgo a pieno
volto a te di virtù specchio fra noi;
se più 'l tuo affetto, onde arricchir mi vuoi,
o la tua dolce musa
m'ha d'obligo e piacer l'alma confusa.

313

[A Ercole Udine]

Giovar altrui, sì come
bramo, al poter non lice;
e ha 'l mio nome in me steril radice.
Ma voi, spirto gentile,
me di picciolo e fral, col vostro stile,
magno e divin rendete,
facendomi sembrar quel che voi sete.

314

[Ad Antonio Beffa Negrini]

Di mia vita il sereno,
da ch'io nacqui, turbar contrarie stelle.
E s'io cantai talor, mie rime poi,
quasi figlie men belle,
rinchiusi; e negai lor l'aura celeste.
Né men, Beffa, per voi,
ch'in lodarle occhi ciechi amando avete,
uscir devran del chiostro;
poiché nel canto vostro
senza periglio e con sicura gloria
può serbarsi immortal la mia memoria.

315

[A Enea Baldeschi]

Or sì che udran gli Esperi, udran gli Eoi
dovunque di virtù grido risuona,
di me la fama: poiché 'l cielo intona
e divien chiara al mondo, Enea, per voi.

O magnanimo cor, ch'i propri suoi
pregi si spoglia e largo altrui gli dona;
di cortese valor doppia corona,
cui raro altra simil fiorio tra noi!

Così mi sia 'l favor del vostro nome
sostegno, ov'io per me, debile, inchino,
mentre d'onor con voi la strada prendo.

Ma poiché non arrivo a l'alte chiome
del vostro merto, il cor gli sacro e, chino,
per pegno almen d'eterne grazie il rendo.

316

[A Francesco Bembo]

Quel pregio che non pon mie roze carte
sperar da sé, tua man, Bembo, a lor porge
mentre il sol di virtù ch'in te si scorge
a le tenebre mie splendor comparte.

Così talor di bassa oscura parte
uom per fortuna ad alta gloria sorge;
e 'l tuo soverchio amor nulla s'accorge
che guida lungi al ver la penna e l'arte.

O per me dolce inganno, o vero nume
di cortesia che m'alza a tanto segno
e quel ch'è propio suo di me presume!

Io pur, qual parto del tuo chiaro ingegno,
teco eterno vivrò dentro al tuo lume,
stimando e marmi e bronzi onor men degno.

317

In morte del clarissimo signor Giorgio Gradenico

Fornito hai, Giorgio, il tuo bel corso, e 'l volo
da terra spieghi a degna palma in cielo:
ma gioia a te portò di morte il velo,
a noi, privi di te, lagrime e duolo.

Piange e Febo e 'l sacro Aonio stuolo,
piange orbata virtute in mesto volo;
tu di senno e valor, di santo zelo
specchio fosti nel mondo o raro o solo.

Nato a giovar vivesti, e del tuo lume
s'ornò la patria, e proprio ebbe in te vanto
ogni bell'opra, ogni real costume.

Ma perché del tuo ben lagnarsi tanto?
Versiam più tosto in te di lodi un fiume,
e asciughi la tua gloria il nostro pianto.

318

In morte dell'illustrissimo signor Ascanio Pignatello. Primo

Sparisti, Ascanio, ahi destin crudo e fero
ch'a noi ti tolse! e sparì teco insieme
d'Italia un chiaro lume, e in lei la speme
nata per te del suo splendor primiero.

Ch'in te, spirto gentil, degno d'impero,
fiorian di novo eroe doti supreme,
né di tua gloria fu men fertil seme
poggiar del bel Parnaso al giogo altero.

Piange or la tua natia, nobil sirena
piangon le Muse: e non versar mai tanto
per gli occhi umor da sì dogliosa vena.

Ché, come al valor tuo cede ogni vanto,
così del tuo partir l'amara pena
stimar fa scarso ogni più largo pianto.

319

Secondo

Mentre che 'l bel Sebeto a le sue sponde
risonar ode: — Il grande Ascanio è morto! —
con fronte mesta anch'ei, da l'acque sorto,
al publico dolor così risponde:

— Oh qual sol di virtute a noi s'asconde
a l'eterno oriente in ciel risorto!
Quanto l'occaso suo gran danno ha porto
de l'alto Ibero e d'Ippocrene a l'onde!

Sfrondi de' lauri suoi, sfrondi le cime
Febo, e de le sue palme il fero Marte:
cinti il crin di funesta, oscura benda.

Ed ai lor tronchi l'uno in alta parte
di lui la spada, e l'altro infra le prime
la nobil cetra lagrimoso appenda. —

320

Terzo

Sfoghi ciascun d'Ascanio al chiaro nome
sovra il sepolcro il primo acerbo lutto;
ma tosto poi, dai lumi il pianto asciutto,
sian da ragion le forze al senso dome.

Ch'a noi nol fura il ciel, ma il toglie come
tesor per sé, non già per noi, produtto;
e basta ben di sue degn'opre il frutto,
ch'insegnan d'alti fregi ornar le chiome.

Or la bell'alma in Dio beata gode
di vita a par di cui quest'altra è morte,
ch'ognor fortuna afflige e 'l tempo rode;

né vive sol ne la celeste corte,
ma la fama di lui, ch'intorno s'ode,
gli apre ancor qui d'eternità le porte.

 
 
 

Il Dittamondo (5-13)

Post n°1110 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XIII

Io ero ad ascoltare ancora attento,
quando mi puose mente per lo viso,
dove spesso s’aocchia un mal contento; 

poi disse: "Figliuol mio, se bene aviso, 
la sete tua non pare ancor rasciutta; 5 
però dimmi s’è il ver, com’io diviso". 
"In veritá, rispuosi, non ben tutta; 
ma presso sí, al modo di colui, 
che siede a mensa e dimanda le frutta. 
Assai, diss’io, udito ho per altrui 10 
parlar di Macometto; ma sí chiaro 
giá mai, come ora, certo non ne fui. 
E però dite, ché l’udir m’è caro, 
se v’è miracol ch’el facesse scorto 
al tempo, che nel mondo fe’ riparo". 15 
Ed ello a me: "Costui mai alcun morto 
non suscitò, né diede luce a cieco, 
né fece dritto andar zoppo né torto, 
né parlar muto; come ho detto teco, 
sempre in vertú, dicea, solo de l’armi 20 
venuto sono e qui la grazia è meco. 
Vero è che l’Alcoran conta in piú carmi 
rotta la luna e ch’esso la rintegra: 
ch’una sciocchezza, a ragionarlo, parmi; 
ancor, ch’essendo la notte ben negra, 25 
che Dio per lui Gabriel mandava: 
e di ciò il Saracino udir s’allegra. 
Sopra elborac, una bestia, montava 
veloce sí, che, in men d’una mezz’ora, 
lo spazio d’anni ventimila andava. 30 
Cosí in un batter d’occhio dice ancora 
che da Mech in Ierusalem andasse 
alla ca’ santa e lí non fe’ dimora; 
ma, giú smontato, Gabriello il trasse 
dinanzi a Dio, su, di cielo in cielo, 35 
e che con lui, palpandolo, parlasse. 
Quel che conta che disse non ti svelo 
né ch’el vide; poi l’angel fe� ritorno 
dove elborac legato era a lo stelo. 
Su vi montò e, pria che fosse il giorno, 40 
ne ’l portò a Mech; or qui lor dottor sono 
che chiose fan, qual dèi pensar, d’intorno. 
Ancor ne l’Alcoran, ch’io ti ragiono, 
truovo che disse che ’l sole e la luna 
eran pari di luce e d’ogni bono, 45 
e che non era distinzione alcuna 
intra ’l dí e la notte, tanto eguali 
sopra la terra risprendea ciascuna. 
Or pon che, discendendo quelle scali, 
Gabriello, quando a la luna giunse, 
che la percosse e la ferí con l’ali, 
e che in tal modo, in quel punto, la punse, 
che de la luce, ch’avea tanto viva, 
essa aombrata, come or par, la munse. 
Ancora al dí giudicio par che scriva 55 
che i dimoni d’inferno salveranno 
con quanti n’ha per l’aire e per le riva. 
Apresso pon che quelli che saranno 
beati, ne’ lor corpi ogni diletto, 
che usano ora, cosí allora avranno. 60 
Di questi due miracoli, che ho detto, 
piú ’l Saracin, che d’alcun altro, gode, 
se predicati sono in suo cospetto. 
Similemente allor che contar ode 
l’altre novelle, ch’io t’ho detto apresso, 65 
a Macometto rende grazie e lode. 
Or hai udito chiaramente, adesso, 
di quel che mi chiedesti alcuna parte, 
con quel che per piú bel tra loro è messo. 
Ma perché non rimagna ne le carte 70 
cosa, ch’io pensi che piacer ti debbia, 
voglio che noti ancor quest’altra parte. 
Dico che, poi che morte nel cuor trebbia 
di Macometto, il suocero Acalí 
il suo Califfo de la vita annebbia. 75 
Poi fece ch’el fu nel suo luogo lí; 
ma, quando morte ogni poder li vieta, 
nel Califfato succedeo Alí. 
Costui si volse far maggior profeta 
di Macometto e piú capitol mise 80 
ne la sua le’ e piú di fuor n’arrieta: 
per questo in due Califfi si divise 
lo Saracino: l’uno in oriente, 
dov’è Baldach, io voglio che l’avise; 
l’altro ha sua seggia e regna nel ponente, 85 
in una terra che Morocco è detta: 
Miramumelin lo noma la gente. 
E perché mal s’intende l’una setta 
con l’altra, al Cristianesmo molto giova, 
però che meno ad acquistar sospetta, 90
quando di lá dal mar pensa far prova".
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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