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Messaggi del 25/01/2015

Il Dittamondo (5-20)

Post n°1139 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XX

Quanto piú cerco e piú novitá trovo; 
e ’l veder tanto a l’animo diletta, 
che non mi grava l’affanno ch’io provo. 
"Qui non si vuole, andando, alcuna fretta, 
disse Solin, ma porsi mente ai piedi, 5 
ché questa gente è cruda e maledetta; 
poi il paese è maggior che non credi; 
non è cristiano né buon Saracino 
qualunque intorno abitare ci vedi. 
Garamanti son detti in lor latino, 
nominati cosí anticamente 
da Garama, figliuolo d’Apollino. 
La lussuria è comune a questa gente, 
sí come a l’Etiope, e cosí indoma 
e senza legge vive bestialmente. 15 
Colui che primo li castiga e doma 
Cornelio Balbo per certo fu quello 
e che n’ebbe trionfo giunto a Roma". 
Cosí parlando, trovammo un castello 
non lungi da la strada, sopra un monte: 20 
Debris si noma, molto ricco e bello. 
Qui mi trasse Solino a una fonte 
abondevole d’acqua e d’alte grotte, 
chiusa e serrata da le ripe conte. 
"Guarda, diss’ello, quest’acqua: la notte, 25 
Mungibel mostra o qual piú forte bolla; 
di dí, par ghiaccio sopra l’Alpi Cotte". 
E come d’un pensier l’altro rampolla, 
diss’io fra me: Di questa Ovidio dice 
la sua natura e come surge e polla. 30 
Apresso disse: "In su questa pendice 
sol per quel prego che già fece Ammone 
a Iupiter, che tanto fu felice, 
fece scolpire un ricco montone, 
sopra un petrone, con due corna d’oro, 35 
che giá fu molto caro a le persone. 
Ed era opinione di coloro 
che veri sogni sognava colui 
lo qual, dormendo, li facea dimoro". 
Cosí parlando e seguitando lui, 40 
aggiunse: "Non bisogna ch’io ti dica 
de le pecore lor, ché ’l sai d’altrui, 
come e perché, pascendo, vanno oblica". 
Indi arrivammo a una cittade 
nomata Garama, grande e antica. 45 
Pensa, lettore, che queste contrade 
dal nostro lato col Nilo confina; 
da l’altro par che l’Etiopo bade. 
Andavam da la parte u’ è Cercina 
in verso Gaulea, sempre spiando 50 
d’alcuna novitá lungi o vicina. 
Piú giorni giá eravamo iti, quando 
trovammo un altro popol, molto grande, 
del qual Solino dimandai, andando. 
Ed ello a me: "Questa gente si spande 55 
in fino a lo Esperido oceano 
per gran diserti e salvatiche lande. 
Una isola è in questo luogo strano, 
ch’è ditta Gauleon, onde Gaulei 
si noman quanti in questa parte stano. 60 
In essa alcun serpente, saper dèi, 
viver non può, e sia di qual vuol sorte, 
né li scorpioni, c’han toschi sí rei. 
E piú ancor: se di lá terra porte 
in altra parte, tanto è lor contrara, 65 
che a l’una sorte e a l’altra dá la morte". 
E poi che la mia vista fu ben chiara 
de l’esser loro, in vèr colui mi trassi 
che dentro al mio pensier col suo ripara. 
Io volea dire; ed el: "Tu vuoi ch’io lassi 70 
questa contrada e cerchi altro paese". 
"Vero è, diss’io, ché indarno omai qui stassi". 
Qui non fu piú, se non che la via prese 
pur a ponente, da la man sinestra, 
in verso il mar, come il cammin discese. 75 
Non mi parve che fosse piú silvestra 
la gente ch’i’ trovai nel mar di Sizia, 
che quella che qui vidi a la campestra. 
"O luce mia, se puoi, qui mi indizia 
chi son costoro, in queste parti strane, 80 
che fun creati in tanta tristizia: 
vedi c’han muso e labbra di cane; 
d’andar lor presso m’è una paura; 
per Dio!, fuggiamo in tutto le lor tane". 
Ed ello a me: "Figliuolo, or t’assicura 
e non temere che ti faccian male; 
vienmi pur dietro e quanto vuoi pon cura: 
questa gente ti dico ch’ella è tale 
e ne la vita lor tanto cattiva, 
che di far danno altrui poco lor cale". 90 
E io a lui: "A ciò ch’altrui lo scriva, 
dimmi il lor nome e con lievi prologhi 
passa pur oltre e quanto puoi li schiva". 
"Di qua, diss’el, si chiaman Cenomologhi".
 
 
 

Rime di Celio Magno (360)

Post n°1138 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

360

San Bernardo — Contadino.

Primo

Bernardo
O signor mio benigno,
o redentor di questa miser'alma,
accetta il buon volere
di me, tuo servo umìle.
E qualor questi sensi infermi e frali
traboccano al peccar, tu mi sostenta,
con la pietosa man de la tua grazia.
So molto ben che tutte
l'orazioni mie, tutti i digiuni
e quanto in gloria tua penso ed adopro,
è nulla, s'io riguardo a quel ch'io debbo.
Ma s'io mi volgo, come ognor m'inviti,
a l'infinita tua somma bontate,
spero de le mie colpe ancor perdono.
E che fatta per te d'indegna e brutta
quest'alma degna e bella,
quando a te piacerà trarla di questo
carcere a lei noioso,
fia chiamata nel cielo a goder teco
del gaudio e de' tesori
che doni a' servi tuoi più cari e fidi
in quella vera e sempiterna vita.
Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur.
Contadino
Ecco il padre Bernardo,
uom tra noi d'essemplare e santa vita,
e prior degno del suo monastero.
Buon giorno, padre.
Bernardo
Dio ti sa lui figlio.
Ove ne vai così per tempo?
Contadino
Io vado
per udir messa al monasterio vostro,
oggi ch'è festa; e parmi aver sentito
il terzo segno.
Bernardo
Come, 'l terzo? Ancora
non è sonato il primo.
Contadino
A me pareva
d'udirlo; ma per dirvi il ver, ier sera
feci vigilia, e non gustai boccone
benché n'avessi voglia; e questa notte
poco ho dormito: onde or fame rabbiosa
fa ch'io vaneggio ed erro.
Parendomi sentir campane e trombe,
credea spedirmi tosto e tornar tosto
a far collazione a casa mia
ed aspettar per gli altri e desinare.
Bisogna aver pazienzia.
Bernardo
Quanto più scuso in te dopo il digiuno
questo spion natural de la tua fame,
tanto più lodo il fren di riverenza
verso il tuo creator, che a' suoi commanda
che cibo a l'alma dian prima ch'al corpo.
Benedetto sia tu, figliuol mio caro!
Prega il Signor che così buona mente
per tua bontade in te conservi e cresca.
Almen fossi tu stato a la mia messa
da me detta oggi a lo spuntar de l'alba
per mia divozion, come far soglio:
perch'or mangiar potresti a tuo piacere.
Contadino
Volesse Dio che ciò saputo avessi,
che ci sarei volato
a mezza notte, ancor, non pur a l'alba!
Io paziente sosterrò la fame
finch'abbia udito messa; ma dapoi
non so come potrò soffrirla tanto
ch'arrivar possa a casa.
Fatemi, caro padre, un gran favore:
supplico e prego vostra rebelenzia.
Bernardo
Volentieri. Dimanda, purch'io possa.
Contadino
Datemi mezzo di quel vostro pane
ch'avete nel carnier, dove solete
portarne ognor, per darlo in elemosina
a qualche poverello; in ogni modo
in tale stato posso anch'io chiamarmi
poverello e mendico.
Riceverollo per l'amor di Dio.
Bernardo
Vo' compiacerti; purché mi prometti
di non toccarlo finché tu non abbi
udito messa prima,
e 'l tuo debito ufficio a Dio pagato:
che sarà solo un differir mezz'ora.
Contadino
Così prometto.
Bernardo
Eccoti mezzo il pane.
Contadino
Riponetel voi stesso in questa tasca
con le man vostre, ch'io non vo' toccarlo
finché non oda messa,
sì come io v'ho promesso e 'l dover porta.
Bernardo
Ciò segno è ancor di ben disposta mente.
Porgi la tasca qui: ma guarda bene
che tu m'attenda la parola data.
Sai ben che la promessa
al sacerdote fatta è fatta a Dio.
Contadino
Siatene certo pur. Mi raccommando
a vostra rebelenzia.
Bernardo
Va in buon'ora.
Quando si scorge in uom semplice ignaro
seme alcun di bontate,
con la dolcezza e col favor si deve
nodrirlo e cura averne;
acciò, quasi novella ed util pianta,
fermi più sua radice,
e più fiorito e più fecondo cresca.
Ma fornir voglio il mio camino e i prieghi
che costui m'interruppe; ancor che 'l tempo
speso con lui non fu senz'alcun frutto.

360

2

Contadino
Sì, si, aspetta, che vegno.
Non diran messa di quest'ora intiera.
Il frate ch'a da dirla
non è parato ancora; anzi passeggia
per sacristia col breviario in mano,
e forse va dicendo il matutino.
Che debbo fare? Da l'un canto mi spinge
lo stimol de la fame,
e da l'altro la fede al padre data.
S'io 'l mangio innanzi, peccherò di gola,
se indugio un'ora, io morirò di fame.
Non è meglio ch'io viva e poi mi penta,
che morir qui, né poter poi pentirmi?
Ho pur sentito a dire
che la necessitade non ha legge,
e che nostro Signor non vuol la morte
del peccator, ma ch'anzi viva affine
che possa convertirsi. Adunque onesta
scusa averò s'io mangio questo pane;
forza è mangiarlo.
Bernardo
A quel ch'io veggio, dei
aver udito messa; ch'altramente
creder non vo' che tanto error facessi.
Perché mutolo resti? E non rispondi?
E perché torni entro la tasca il pane?
Contadino
Io non l'ho udita ancora,
perch'ancor non s'è detta; e 'l sacerdote
par che nulla vi pensi, e ad altro attende.
Ond'io mi son partito
di chiesa a passeggiar per minor tedio
dell'aspettar la messa;
ma quando ora sarà, darò di volta.
Né questo pane ho tratto
fuor per mangiarlo; ma per darli solo,
così, un'occhiata, e per trattenimento
de la mia fame; come fa l'infermo
che toglie un pomo in man per goder solo
la vaghezza e l'odor, non per mangiarlo.
Bernardo
Se questa fu la causa, io me n'acqueto;
ma perché, figlio mio, non stesti in chiesa
più tosto a pregar Dio, che uscirne fuora
impaziente in aspettar la messa?
Contadino
Io voglio e debbo confessar il vero
a vostra rebelenzia.
Ho visto in chiesa in ginocchion divota
una giovane bella come un fiore,
che gli occhi mi rapì nel suo bel volto.
Io sentendo per lei foco in camino,
deliberai schivar quel gran periglio
d'innamorarmi; perc'ho già provato
quant'aspra sia la vita degli amanti,
e quanto offenda Dio.
Talché, per non turbar né me né lei,
son fuori uscito a trattenermi alquanto.
Bernardo
Benissimo facesti
ché maggior fallo assai sarebbe stato
macchiar la conscienza
di carnal brama e di lascivi sguardi,
che romper il digiuno innanzi messa.
Contadino
Anch'io giva pur or pensando meco
che, s'è concesso a chi digiuna, a sera,
di cibo un poco pria che vada in letto,
perch'avend'io ier sera digiunato
senza nulla gustar, peccarei s'ora
con questo poco pane,
col qual ier sera non avrei peccato,
consolassi la fame innanzi messa?
Bernardo
Non hai fornito ancora
l'obligo del digiun, se non hai prima
ascoltata la messa;
anzi, se mangi pria, non sol tu guasti
il merito di questa e di quell'opra,
poich'ambe ordini son di santa Chiesa,
ma senza scusa mortalmente pecchi.
Che 'l peccato del qual tra noi si parla
non consiste in aver ier sera preso
poco o nulla di cibo;
benché 'l vero digiuno, a Dio più grato,
sia l'astenersi in tutto
ne le vigilie sante
dal mangiar e dal bere;
ma questa colpa è per l'incontinenza
di non voler soffrir mezz'ora sola
a saziar il tuo ingordo appetito.
Contadino
Questa mezz'ora a me parrà mill'anni.
Bernardo
Più lunghe a te parran le pene eterne
se per seguir la gola or nulla curi
l'onor devuto ai dì sacri e solenni,
anteponendo il pane
terreno e frale al pan celeste eterno
del sacrificio, in cui presente è Cristo,
che col suo sangue ti campò da morte.
Non colui che principia un'opra buona,
ma chi stabil continua insino al fine
grazia e mercede acquista.
Contadino
La vostra rebelenzia il vero dice,
io lo conosco; tuttavia mi pare
che tra voi sacerdoti e noi mondani
vi sia gran differenza: perché voi
per lungo tempo assuefatti foste
a patir fame e sete;
e noi viviam con via maggior licenza.
Voi sul digiunar sempre,
e noi sul mangiar sempre;
voi spesso pane ed acqua,
noi pane senza vin gustiam di raro;
e quanto a me non mai.
Ché senza non si puote
viver; e s'altri può, non già poss'io.
Bernardo
Per questa tua buona ragione a punto
fia maggiore il tuo merto appresso Dio
soffrendo ancora un poco,
finch'abbi udito messa.
Deh non fraudar te stesso
del frutto del ben far tanto vicino.
Contadino
Farò quel che consiglia
la vostra rebelenzia.
Bernardo
Ma sarà meglio ch'a me 'l pan tu lasci,
per schivar il periglio
de la tentazion che può venirti.
Contadino
No, no, padre; lassate pur ch'io 'l porti:
che di novo lo prometto
a vostra rebelenzia
che non lo toccherò prima ch'io m'abbia
udito messa, come debbo. Or vado.
Bernardo
Io son contento. Va. Dio t'accompagni.
Ave Maria, gratia plena...

 
 
 

I Trovatori (9)

Post n°1137 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847, pag. LXII-LVIII

CXXVII. Le prime raccolte di rime antiche che vennero a luce colle stampe sono quella di Venezia 1518, e quella di Firenze 1527, coi tipi dei Giunti. Quest' ultima fu condotta con gran discernimento, per cura principalmente di quegli egregi giovani Bardo Segni e Cosimo Rucellai, a cui dobbiamo la famosa edizione venzettina del Decamerone. Se non che, tratti in errore da alcuni codici scorretti e infedeli, quei giovani editori, più di una volta le poesie di un autore attribuirono ad un altro, e lasciaron correre non pochi errori.

CXXVIII. Vennero dipoi il Corbinelli, l' Allacci e 'l Crescimbeni, e non fecero che seguire gli errori corsi nell' edizione giuntina, coll' aggiunta dei propri. Il Valeriani, compilatore della raccolta fiorentina del 1816 degli scrittori del primo secolo, e l' editore della raccolta palermitana di rime antiche toscane del 1818, marchese Villarosa, senza darsi la briga di ricercare nei codici antichi l' autenticità delle poesie di ciascun autore, si contentarono di ristampare in un sol corpo le rime pubblicate dal Giunti, dall' Allacci, dal Corbinelli, e dal Crescimbeni, correggendone il testo coll' aiuto del codice di Pier del Nero, che era copia dell' antico codice Martelli, annotato dal Biscioni, e da Anton Maria Salvini, spaventati, e a gran ragione, dall' estrema difficoltà di un' impresa, che per la discordanza dei codici, per le diverse opinioni dei dotti, e per le dure fatiche richiedeva, non poteva che riuscir ardua, lunga, ferace di brighe e ingloriosa.

CXXIX. Nondimeno, avendo io su questi codici fatti alcuni studi speciali, mi credo far cosa grata ai cultori delle buone lettere italiane col cercare di portar qualche poco di lume e di ordine in mezzo a tanta oscurità e confusione, coll' aiuto dei migliori testi, e principalmente de' due codici del Redi, e del codice vaticano dei trovatori italiani.

CXXX. Fra i codici più stimati di rime antiche italiane citeremo il libro reale, sul quale studiava il Bembo, il codice aragonese, il codice di Pier del Nero, copia dell'antico codice Martelli, e il codice del Redi. Il codice del Redi, cotanto famoso, e cotanto citato da tutti gli scrittori, non si sa dove si trovi, e si crede generalmente perduto. Veramente, invece di uno, il Redi possedeva due insigni codici di rime antiche, uno in quarto e l' altro in foglio; e se non ho veduti i codici originali, ho potuto consultare una copia fedelissima dell' uno e dell' altro dei codici del Redi, fatta eseguire parola a parola dal chiarissimo canonico Biscioni.

CXXXI. Il codice di Pier del Nero, che è copia fedele dell' antico codice Martelli, esiste nella Riccardiana, e fornì molte poesie inedite, e molte buone varianti ai compilatori della raccolta dei poeti del primo secolo, che noi chiameremo fiorentina.

CXXXII. Il codice aragonese non si sa precisamente dove esista, ma io credo che sia quel codice di rime antiche, che Lorenzo il Magnifico e il Poliziano raccolsero in un bel volume, diligentemente scritto e miniato, per farne un dono a don Federigo d' Aragona che fu poi re di Napoli, accompagnandolo con quella giudiziosa lettera che tutti conoscono.

CXXXIII. Il qual codice, dopo aver corse diverse fortune, passò nella biblioteca imperiale di Vienna, e in ultimo fu dall'imperatore mandato in dono al regnante Granduca di Toscana, quando S. A. I. e R. intendeva a quella splendida edizione delle Opere di Lorenzo il Magnifico, che vide la luce in Firenze in 4 volumi in foglio massimo.

CXXXIV. Il codice aragonese si trova sovente citato dal Bembo, nelle note al codice 4640 vaticano, che non è altro che una copia del libro reale. Così al numero 104 si legge «Guido Guinizelli da Bologna»:

Madonna, il fino amore che vi porto.

E poi in margine, di mano del Bembo, vi è segnato «Libro di Ragon..» -, e al numero 105, del medesimo Guido:

Donna,
l' amor mi sforza.

E in margine, della stessa mano, «in libro di rag.»: e così in altri luoghi.

CXXXV. Ma è ormai tempo di parlare del libro reale. L' esistenza di questo codice mi era nota, e da gran tempo l' andava cercando. In un piccolo codicetto bislungo di studi letterari di un dotto cinquecentista mi ricordava di aver letto il primo verso di una tenzone che comincia:

Lo core innamorato

sotto nome di «Mazzeo di Ricco da Messina e la moglie», con queste parole: «Come sta al numero LXXIX del libro reale».

CXXXVI. Ora, nel corso de' miei studi nella biblioteca vaticana, domandai un codice di rime antiche per fare certi riscontri. Quegli che andò a prenderlo, sbagliò il numero, e invece mi portò un trattato politico di Senofonte. Allora mi alzai, e andai con lui alla scanzia a prenderlo da me stesso. Aperto l' armadio indicato, vedendo tanti codici e tanti numeri, non pensai più al numero che avea domandato, ma tratto da un movimento irresistibile di curiosità, presi in mano un bellissimo codice segnato 5793, e l' aprii a caso, e lessi: «Mazzeo di Ricco da Messina e la moglie». - Lo core innamorato. - È questo ? mi domandò colui. È questo sì, risposi io: il libro reale.
Pensai tra me: ed infatti era ben quello.

CXXXVII. In quel giorno, e per più di un mese, per buone e oneste ragioni, non mi fu permesso aver quel codice; ma in quel tempo mi venne a mano il codice 4640 vaticano, raccolta di rime antiche, già appartenuto al Bembo. Al numero 56, 58, 40, 42, 159, 151, 159, 160, 176, 578, e altrove, si legge scritto in margine «In libro reale», «In lo reale», «Libr. real.», «Quest'è in libro reale».

CXXXVIII. Quando finalmente mi fu permesso consultare il codice 5795, andai tosto a riscontrare i suddetti numeri, e trovai che avevano tutti i medesimi autori, e le medesime poesie del codice 4640, dal principio sino al fine; ed acquistai la piena convinzione, che il codice 4640 era una copia esatta del libro reale, fatta eseguire probabilmente dal Bembo, e dal medesimo riscontrata, e qua e là ricorretta, e fattovi qualche noterella; e che il codice 5793 vaticano non è altro che il tanto desiderato e ricercato libro reale.

CXXXIX. Il codice 5795 vaticano, ch'io chiamerò d'or innanzi, il Codice vaticano dei Trovatori Italiani, è senza contradizione la più antica, la più ricca, la più preziosa, la più corretta, e la più autentica raccolta delle rime dei primi trovatori della nostra volgar poesia. Il codice è in pergamena, in foglio, benissimo conservato, di un carattere minuto e sottile, ma uniforme dal principio al fine, tutto andante alla prosaica, senza divisione di stanze, di versi, e, alcune volte, neppur di parole, e senza punteggiatura, al solito dei dugentisti, di sorte alcuna. Non vi è data precisa del tempo in cui fu scritto; ma per molte ragioni si può francamente affermare che fu scritto tra il 1265 e il 1275, e contiene le poesie di non meno di cento trovatori italiani, tutti anteriori a Lapo Gianni, a Cino, a Guido e a Dante Allighieri; di modo che si può dire, che contiene quasi tutte le rime dei più illustri e dei più chiari trovatori italiani.

CXL. Perché sia chiamato libro reale non saprei.
Forse perchè in origine apparteneva a qualche re; o perchè contiene delle poesie di quattro re; o sì veramente fu libro reale chiamato per la sua bellezza, e il gran numero e il pregio delle rime che contiene; onde si può francamente dire che questo è il più bello e il più prezioso codice di antiche rime italiane, che si conosca.

CXLI. Da questo codice abbiam tratto il fiore delle rime dei trovatori dugentisti, come si vedrà nel corso di questo volume. E non solo è da tenersi in grandissimo pregio per le poesie che ha fornito alla nostra raccolta, ma eziandio per molte altre che vi sono ancor inedite, (le quali è da desiderare che un giorno sieno tutte stampate per l' intero in un sol corpo); e di più, perchè si possono con questo codice correggere le stampate e confermare e autenticare colla sua grande autorità ai loro veri autori le poesie già edite, o restituire a ciascuno autore le opere sue, attribuite ad altri nelle raccolte giuntina, corbinelliana, allacciana, fiorentina e palermitana.

GXLII. Delle poesie del libro reale, che fan parte di questa raccolta, non occorre qui far parole, poiché saranno in breve nel dominio della critica, e sarà in facoltà di ciascuno di vedere esaminare e giudicare da se, e secondo il suo modo di pensare.

CXLIII. Delle poesie che rimangono ancor inedite, citerò un sonetto, rammentato e lodato da Dante nel libro della volgar eloquenza, in dialetto fermano, in biasimo dei tre dialetti anconitano, marchigiano, spoletano; che comincia:

Una fermana scopai da casciuoli.

Due altre canzoni di messer Rinaldo d' Aquino, e fra queste una citata con lode da Dante nel medesimo libro, che si credeva perduta, la quale comincia:

Per fino amore vo si lietamente.

Diverse altre canzoni d' Iacopo Mostacci, di Ruggieri Pugliese, di Neri Visdomini, di Compagnetto da Prato, di messer Tiberto Galiziani da Pisa, di Chiaro Davanzati, di Monte, di Lapuccio Belfradelli, di Baldo da Passignano; e sonetti in gran numero di molti altri autori; che è cosa incredibile a pensare i tesori, se non di classica poesia, di bella, pura e virginal lingua italiana primitiva che contiene quel codice. E son certo, che se si mettessero a stampa tutte le poesie edite e inedite di quel solo codice, otto volumi in ottavo, sesto de' classici, cioè 200 fogli di stampa, ossia 6400 pagine, non le potrebbero tutte contenere.

CXLIV. Dissi che colla scorta e colla grande autorità del libro reale, si potrebbe portar un poco di ordine e di chiarezza nella distribuzione delle rime antiche, che abbiamo a stampa, nelle raccolte de' Giunti, del Corbinelli, dell' Allacci, del Valeriani, e del Villarosa, e restituire ai loro veri autori quelle rime che per errore o per negligenza di amanuensi o di editori sono state attribuite ad altri.
La qual cosa, benché sia per se stessa molto dilicata, e molto difficile impresa, nondimeno, colla guida dei migliori testi a penna, del codice del Redi, e l' autorità del libro reale, il più antico e il più compiuto di tutti i codici conosciuti, non voglio per viltà di animo rimanermi, nella speranza che questa ardua e dura fatica mia debba riuscir di qualche giovamento ai cultori delle buone lettere italiane.

 
 
 

Indice Poetesse italiane

Post n°1136 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Tullia d'Aragona (di Tullia d'Aragona)

Rime di Veronica Franco (di Veronica Franco)

Sonetti e canzoni di Isabella di Morra (di Isabella di Morra)

Sonetti di Angiola Cimina (di Angiola Cimina)
.

 
 
 

Rime di Celio Magno (355-359)

Post n°1135 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

355

Nel vestir d'una monaca

Dietro la voce tua benigna e pia
ch'a te, padre del ciel, sempre ne chiama,
piena di puro ardor prendo la via,
fuggendo quel che 'l mondo apprezza ed ama;
che chi fuor che te solo altro desia
giunge a misero fin d'ogni sua brama,
e, lunge dal camin vero superno,
cade qual cieco in precipizio eterno.
Pompa, ricchezze, onor, gioia mortale,
visco son che 'l nemico a l'alma tende,
in cui, s'ella mal cauta intrica l'ale,
o riman preda, o tardi al ciel le stende:
ove a gioia provar vera immortale
con braccia aperte il suo fattor l'attende.
voi dunque spregio, ancor che belle in vista:
ben per chi v'odia, e mal per chi v'acquista.
Giusto è ch'omai d'umile abito e schietto
mi vesta fuor, sì come dentro io sono.
tu, che sei degna guida al gregge eletto,
alma discesa dal celeste trono,
di questa spoglia omai m'adorna il petto
come di caro e prezioso dono;
e mirando a mia fede ardente e vera,
fammi compagna a la tua santa schiera.
Croce, ove 'l mio Signor morte sì indegna
patì per darmi incontra morte aita,
siami tu fida e gloriosa insegna
a seguir lui, ch'al regno suo m'invita;
croce, che di sperar mi rendi degna
dopo mille perdoni eterna vita,
qual sì crudo è qua giù, se ben ti guardo,
che di zelo e pietate in Dio non arda?
Io non basto, Giesù, pur col pensiero
ringraziarti del don ch'oggi mi fai;
anzi, dapoi che farlo indarno spero,
di novo don nova dimanda avrai,
poiché caro hai non men ch'un cor sincero
sempre a te chieda, e non si sazi mai:
giungi dunque a la fede in me constanza,
sì che s'adempia al fin la mia speranza.
O dolce madre mia, come potresti
sentir frutto maggior del viver mio
che inirando ch'a me grazia si presti
divota ancella di sacrarmi a Dio?
Rendimi a lui, poiché da lui m'avesti,
e benedisci me nel mio desio
che pur tua figlia, o fortunato acquisto,
sposa non d'uom mortal, ma fia di Cristo.
E voi che sete al mio gioir presenti,
mentr'io me n' vado al mio celeste sposo,
rimanetevi in pace, amiche genti,
se può 'l mondo apportar pace o riposo.
E se vergine è qui, cui s'appresenti
con santa invidia il mio stato gioioso,
prenda meco la croce, e meco insieme
s'erga ver Cristo a più beata speme.

356

[Nel vestir d'una monaca]

[ ] et inclina aurem tuam
[ ]vit Rex speciem tuam.

356b

Risposta

Odo la voce tua benigna e pia
con l'orecchie, Signor, ma più col core.
E bench'in me bellezza altra non sia,
bella mi rende il tuo infinito amore;
e 'l mio non men, che te cole e desia
con profonda umiltà di puro ardore.
Eccomi dunque tua divota ancella
fatta sol da tua grazia e degna e bella.

356c

Veni, sponsa Christi: accipe coronam quam
tibi Dominum praeparavit in aeternum.

356c

Risposta

O grazia, o don ch'ogni pensiero eccede!
Esser sposa di Cristo, esser unita
a lui per carità, speranza e fede,
e spirar col suo spirto in questa vita!
O d'onor senza pari alta mercede,
sacra corona a lui tanto gradita!
Ma n'ebbe egli d'acute, orride spine
perché a me tu sì vaga ornassi il crine!

356d

Nel ricever la corona

Siami ognor questa fral corona in terra
stimolo ad acquistar l'eterna in cielo;
resti il mostro infernale in ogni guerra
vinto dal mio constante, ardente zelo.
Ami e curi sol Dio mentre si serra
l'alma in questo mortal corporeo velo:
ch'egli è 'l mio creatore, a lui son nata,
e viva e morta in lui sarò beata.

356e

Alla Croce

Croce, ove il re del ciel morte sì indegna
patì per darmi incontra morte aita,
tu sei mia fida e gloriosa insegna
a seguir lui, ch'al regno suo m'invita.
Tu specchio sei ch'a sofferir m'insegna
gli affanni e 'l mal di questa fragil vita:
lieta io t'accoglio, o prezioso legno,
vero di mia salute amato pegno.

356f

[Dispregio] del mondo

Pompa, ricchezza, onor, diletto umano
visco son, che Satan per l'alme tende:
ove chi l'ale intrica, o cade in mano
del reo nemico o tarde al ciel le stende.
Che giova un ben mondan, s'estinto e vano
fortuna o morte in sì poch'ore il rende?
Onde al dritto io me n' vo dal camin torto,
da guerra in pace, e da tempesta in porto.

356g

All'abito monacale

In questa umile spoglia al mio gran sposo
più bella e cara andrò ch'in gemme ed oro,
col corpo a lui sacrato agli altri ascoso
tra questo virginal felice coro;
qui fra sante fatiche avrò riposo
e in lieta povertade alto tesoro.
Così conceda a noi dopo 'l fin nostro
l'adorarlo vicin nel sommo chiostro.

357

Se per me nato al mondo il Signor mio
sprezzò gli agi e le pompe e i van desiri,
ben deggio, serva sua, sprezzarli anch'io.
E se per me di morte infra i martiri
il sangue sparse, è ben ragion ch'almeno,
viva, io sparga per lui pianti e sospiri.
Dunque deposto ogni pensier terreno
tutta mi dono a lui con puro core,
certa ch'aprendo di sua grazia il seno
m'accoglia al fin tra l'alme sante in cielo.

358

A Gesù, tuo figliuol, mio redentore,
o reina del ciel consacro e dono
quest'alma, questo corpo e questo core.
E se sua sposa e serva indegna io sono,
ei con sua grazia adempie il mio diffetto,
mentre il mondo per lui, lieta abbandono.
Tu presso lui del mio divoto affetto
i prieghi e l'opre, o pia Vergine, aita,
acciò poi teco, al suo divin conspetto,
possa goder di vera eterna vita.

359

Dietro la scorta tua fidata e pia,
dolce mio redentor, dolce mio sposo,
indegna ancella tua, prendo la via.
E lascio il mondo iniquo insidioso
perch'in te solo e nel tuo amor risiede
ogni bene, ogni gaudio, ogni riposo.
Ond'io per acquistar tanta mercede
a questo giglio assomigliando il core
verde speranza avrò, candida fede
e carità di prezioso odore.

 
 
 

Della Casa, indice

Post n°1134 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Le Rime di Giovanni della Casa, meglio noto come l'autore del Galateo, sono state da me elaborate, servendomi dei seguenti testi, reperibili su google libri e su archive.org:

1) Le Rime di Giovanni della Casa, secondo la stampa del 1558
2) Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, co' tipi di Luigi Plet, 1836
3) Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, di Francesco Christiani, 1555
4) Ariosto, Castiglione, Fracastoro, Sannazzaro, Casa, Canzonieri del secolo XVI, in Parnaso Italiano (a cura di Andrea Rubbi), Volume 26, 1787
5) Poemetti del Secolo XV. XVI, in Parnaso Italiano (a cura di Andrea Rubbi), Volume 10, 1784 (non ancora inserito)
6) Poesie Italiane inedite di Dugento Autori dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 3, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847
7) Scelta di Sonetti con varie Critiche osservazioni, ed una dissertazione intorno al sonetto in generale, Teobaldo Ceva, in Venezia, Presso Domenico Occhi, 1737

Note biografiche (Carrer) pag. 299 (316 del pdf)
Note biografiche (Rubbi, 1785) pag. 318 (334 del pdf)
Annotazioni (Carrer) pag. 301 (318 del pdf)

INDICE

Sonetti 1-5
Sonetti 6-10
Sonetti 11-15
Sonetti 16-20
Sonetti 21-25
Sonetti 26-30
Rime 31-35
Sonetti 36-40
Rime 41-45
Rime 46-50
Sonetti 51-55
Sonetti 56-60
Sonetti 61-64
Sonetti 65-70
Rime 71-75
Sonetti 76-79
Aggiunta 1
Aggiunta 2
Aggiunta 3

Rime in onore del Casa
Indice dei capoversi delle rime del 1558

 
 
 

Mariotto Davanzati, indice

Post n°1133 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Mariotto Davanzati

Sono scarse le notizie su questo poeta del XV Secolo. La voce della treccani è redatta discretamente bene e, perciò, ad essa rinvio.

Canzone 1
Canzone 2
Canzone 3
Canzone 4
Canzoni 5-6
Sonetti 7-8
Capitoli 9
Sonetti 10-15
Sonetti 16-20
Sonetti 21-25
Sonetti 26-30
Sonetti 31-35
Rime 36-41.

 
 
 

I Trovatori, indice

Post n°1132 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

"I trovatori" è tratto dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847). La prefazione occupa un centinaio di pagine del primo dei quattro volumi dell'opera. In quasi 300 paragarafi, Trucchi fornisce idee alquanto personali circa l'origine della lingua italiana, fortemente influenzate da esplosivi sentimenti patriottici, pienamente comprensibili, vista l'epoca in cui l'opera è stata scritta. Non escludo, in futuro, di riportare l'intera opera.

I-XVI
XVII-XXX
XXXI-XLIV
XLV-LXVI
LXVII-LXXXVI
LXXXVII-CXI
CIII-CXII
CXIII-CXXVI
CXXVII-CXLIV
CXLV-CLXVIII
CLXIX-CLXXXVI
CLXXXVII-
.

 
 
 

Rime di Celio Magno (353-354)

Post n°1131 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

353

A che dolervi e lagrimar cotanto,
donna, e dagli occhi miei col vostro duolo
trar così largo ed angoscioso pianto?
L'aura che move un sospir vostro solo
tal fiamma di pietate al cor m'accende
ch'io per bocca n'esalo un largo stuolo;
or qual pena m'apporta e qual mi rende
lo strido udir che di lamenti cinto
a far pietose ancor le stelle ascende?
Io 'l provo allor ch'entro 'l mio petto, vinto
dal gravoso martir, lo spirto manca
a poco a poco, e in tutto sembra estinto.
E quante volte in me pur si rinfranca,
tante a vagar se n' torna in riva a Lete,
spinto dal duol ch'in voi giamai non stanca;
così mentre mal cauta altrui piangete
per soverchia pietà d'una sol morte,
con mille morti me, lasso, ancidete.
Non è 'l vostro destin malvagio e forte
sì ch'in tutto per voi debbiano aprirsi
per mai non riserrarle al duol le porte;
quante più care al ciel di voi sentirsi
ch'in largo fondo di miseria poste
più sventurate assai di voi pon dirsi.
Ma benché prima al duol maligno esposte
provasser dura insopportabil guerra,
al fin da sé scacciaro il crudel oste;
che quando questi in petto uman si serra,
quasi in già vinta e mal difesa rocca,
tutto dentro perturba, arde ed atterra.
Quinci fiamme e lamenti escon per bocca,
quinci a gran copia il vital nostro umore,
per gli occhi lagrimosi in sen trabocca;
e lo spirto del petto uscendo fuore,
poich'invan chiede a la ragion soccorso,
va peregrino in periglioso errore.
Quinci al fin de' miei giorni anch'io trascorso
tosto sarò, se più fedel consiglio
al vostro flebil rio non frena il corso;
né mi duol perch'io chiuda in morte il ciglio
se non che mentre a ciò per voi son scorto,
e voi meco correte egual periglio.
Lasso ch'è troppo in voi pallido e smorto
quel vago viso, e da soavi lumi
tenuto in bando amor troppo a gran torto;
onde al cangiar dei lor dolci costumi
anch'ei si lagna, e dice: — A che piangendo
te senza frutto e me, cruda, consumi?
Deh non squarciar il crin, di cui sol tendo
mie reti, e non turbar la vaga fronte
onde pena agli amanti e premio rendo;
pon freno al mesto e lagrimoso fronte,
e 'n te tornando a vendicar ti desta
del nemico dolor l'ingiurie e l'onte.
Che da sé pur troppa veloce è questa
vita mortal senza che sproni aggiunga
e l'affretti al suo fin cura molesta.
Dunque pietate omai, donna, ti punga,
del regno mio che sol per te si prezza
ed a' begli occhi tuoi mi ricongiunga. —
Così cerca levar tanta tristezza
quel pietoso fanciul del vostro petto,
perché s'empia di gioia e di dolcezza.
Or da qual vano ed ostinato affetto
nemico al vostro ben vi fie contesa
ragion, sì che non abbia in voi ricetto?
Come quella potrà chiamarsi offesa
che da legami e da prigione amara
ne la primiera libertà v'ha resa?
O bella libertà soave e cara,
quanto è tuo pregio, e quant'uom più ti stima
s'a sferza pria di servitù t'impara?
Tu spregi ogni alta ed elevata cima
onde chi più per ritrovarti poggia
tra le pompe e gli onor, più falso stima.
Teco festa, letizia e canto alloggia
e sol ch'in tua balia te stessa miri
offender non ti può vento né pioggia.
Né la tua fronte ogni pensier ritiri:
in te 'l vero non teme oltraggio e scorno,
né di tuo stato mai col ciel t'adiri.
Ben anzi amaro ed infelice giorno,
donna, fu quel che primo al collo indegno
tal giogo marital vi pose intorno;
da indi in qua vi diede il ciel mai segno
di pace? O 'l ciglio mai lieto v'aperse
che dentro non serbasse occulto sdegno?
Quanto di gioia e di piacer v'offerse
fu sempre annunzio di futuro oltraggio,
perch'in pianto e dolor tosto il converse.
Chiudea, scorso per mar lungo viaggio,
al fin in porto le già stanche vele
il vostro sposo, a navigar mal saggio;
e da la moglie sua troppo fedele
in sen raccolto, o lui beato, udia
del suo lungo tardar dolci querele.
E 'nsieme il proprio suo volto sentia
bagnar del pianto che per gaudio interno
fuor de' begli occhi di sua donna uscia.
Ma che? Forse il piacer durava eterno?
O quale al coniugal letto conviensi
per la legge adempir del re superno?
A pena avean gli occhi bramosi e 'ntensi
il guardo fermo entro l'amato volto
gustando il ben di ch'eran tutti accensi,
ch'ei sotto 'l verno a vostre braccia tolto
e nel letto voi sola abbandonando,
se n' gia col crudo legno altrove volto.
E per un dì ch'in braccio a voi tornando
prendea riposo in peregrini lidi,
ne spendea mille a voi lontano stando.
Quante volte timor di venti infidi
e giusto duol del suo ritorno lento
v'asperse i due d'amor leggiadri nidi;
benché né minacciar d'averso vento
né fremer di spumosa alta procella
né 'l ciel mirar a sua ruina intento
il tenean lunge a la sua fida e bella
moglie, come rendea per tutto chiaro,
e a voi forse ancor, certa novella.
Ma preso a' laccio più gradito e caro
di nova donna e 'n sue delizie immerso,
gli sembrava il partir duro ed amaro.
Quest'era il cielo aver mai sempre averso
quinci tenta tra scogli e l'onde irate
col legno rimaner vinto e disperso;
ahi de' consorti rei perfide ingrate
menti, u' son l'impromesse? U' è la fede,
il ciel, le stelle in testimon chiamate?
Barbara donna e vil, già fatta erede
de' vostri amori, a sé coglieva il frutto
de la dovuta a voi larga mercede.
Ed ei continuo in grembo a lei ridutto
il paradiso suo lieto godea,
voi qui lasciando sconsolata in lutto.
E mentre il vostro cor per lui spargea
pietosi voti, ei ne l'amate braccia
stando, il vostro aspettar forse ridea.
Deh perch'avien che 'l fin tanto vi spiaccia
d'un sì perverso ed infedel marito?
E perché non piuttosto il duol vi scaccia?
Se 'l corso innanzi al suo fosse finito
di vostra vita, e in un quant'è di vago
e di dolce qua giù con voi rapito,
che gran querele? E che profondo lago
sparso di pianto? E quanti lustri avrebbe
serbata dentro al cor la vostra imago?
Ben aperto è 'l veder quanto sarebbe
stato il suo duol, che pria ch'a morte giunto
fosse, mostrò quanto di voi gli increbbe.
Ma se per nome sol v'era congiunto,
che più v'importa, o più s'accresce al danno
perch'in tal modo or sia da voi disgiunto?
Strane genti oltra 'l mar più nol vedranno
da voi sempre lontan; né fia possente
servando a voi amor ordirvi inganno.
Benché quando il doler l'alme già spente
rendesse in luce, e mio consiglio fora
mostrarvi a lui di ciò larga e clemente;
ma invan si chiama, e più non torna fuora
spirto che giunto sia di là dal fiume
di Lete, ove 'l nochier sordo dimora.
Più dunque il rio dolor non vi consume,
ma desto da più saggia accorta voglia
l'intelletto riprenda il proprio lume.
Né men vi deve a ciò piegar la doglia
che tal m'afflige al suon de' vostri lai,
ch'a trarmen spesso la man propria invoglia.
Lasso, dal dì ch'in voi quest'occhi alzai
pur di lagrime sempre umidi e pregni
ed io ricetto d'infiniti guai.
Né per pietà giamai de' strazi indegni
ch'io sostenni d'amor, placati scorsi
o lenti in parte i vostri eterni sdegni.
E benché in voi seguendo al fin m'accorsi
ch'a la morte correa sempre vicino,
il piè dal vostro amor giamai non torsi.
Or che pur terminar l'aspro camino
al fin sperava, in novo mar di pianto
per voi mi spinge il mio fero destino.
Dove smarrito il dolce lume e santo
de le mie stelle, e di governo casso,
anch'io me n' vo, sol con la morte a canto.
E la mia stanca nave in preda lasso
a vento eterno di sospir dolenti,
che fuor manda il mio cor misero e lasso.
Tal che se non scoprite i raggi ardenti
rasserenando il ciel turbato e scuro
della fronte e degli occhi almi e lucenti,
avrò naufragio e fin più strano e duro
che l'ingrato per cui lagrime tante
spargete, e sparte, mentre visse, furo.
E seguendo consiglio empio ed errante
vedrete, lassa, voi medesma priva
tosto e di sposo e di verace amante.
Or poiché da voi sol pende e deriva
questa mia vita, ed al soccorso è loco,
oprate sì ch'io giunga salvo a riva.
Ch'omai da varcar più m'avanza poco
e s'indugiate al fin verrà che sorda
prenderà morte il pentir vostro in gioco.
Ma non basta scacciar la pena ingorda
che 'l verde e 'l bel di vostre membra pasce
se di mie pene ancor non vi ricorda.
Perché 'l mio mal da cagion doppia nasce,
mortal ciascuna; onde tor via che vale
quella, quando quest'altra in piè si lasce?
Resterà la ferita aspra e mortale
che già m'impresse al cor dagli occhi vostri
il crudo arcier c'ha la faretra e l'ale.
Ond'io son detto essempio a' giorni nostri
d'unico strazio, e voi fera simìle
a qual sete maggior di sangue mostri.
Ahi ch'orgoglio non regna in cor gentile,
né creder vo' ch'istinto proprio in voi
nutrisse mai pensier sì [lasso] e vile.
La colpa n'abbia il servar fede a lui
che sposo v'era, ancor ch'ei poco casto
fesse de l'amor suo parte ad altrui.
Questo certo a' miei prieghi alto contrasto
fe' sempre, e voi tenendo in pensier vano
ha quasi il fior di vostr'etate guasto.
Or che preda è rimaso al flutto insano
chi sol vi fea crudel, chiede il mio merto
ch'a me vostra pietà larghi la mano.
E 'l ciel per me n'ha mostro indizio aperto,
poiché viver un buon seme e radice
del commun nostro mal non ha sofferto.
Deh, per mercé, se bramar tanto lice
a fido amante, il mio giusto disio
fate d'un vostro sol guardo felice.
Deponete il rigor selvaggio e rio
ch'a la vostra beltà gran pregio toglie,
e gradite la fede e 'l servir mio!
E poich'in voi tanto di ben s'accoglie,
non lasciate ch'inculto e steril passi
e che 'l tempo sol n'abbia ingorde spoglie.
Pur troppo involta in pensier vani e cassi
quasi stolta Penelope viveste,
dal più saggio camin torcendo i passi.
Or che vi s'apre al fin grazia celeste,
non la sdegnate, e 'n voi ragion prevaglia:
sì che, spento il dolor, le cure meste,
d'amor, di me, di voi, donna, vi caglia.

354

Sopra la fortezza cristiana

Mentre Lorenzo in su l'orribil grata
del sacro corpo il foco avido pasce,
né però l'alma, di virtute armata,
vien che da l'aspro duol vincer si lasce,
anzi, in mezzo l'ardor fatta beata,
qual fenice dal rogo, in Dio rinasce;
stan dal cielo a mirar gli angioli intenti,
la sua gloria cantando in tali accenti:
— O martirio felice, o intrepid'alma,
ad essaltar sua fé da Cristo eletta!
Ecco qui gloriosa eterna palma,
ch'ornar tue mani e se medesma aspetta;
cedan pur quanti mai noiosa salma
stimar la vita, e lei tronca e negletta
per terrene cagion nei corsi tempi
dier di costante cor celebri essempi.
Costume anzi inumano e stolto errore
di fortezza oscurò la luce pura
in quei che, per fuggir tema o dolore
o produr del suo nome ombra futura,
del proprio occaso accelerando l'ore,
rupper di Dio le leggi e di natura.
Forte non è colui ch'ai sensi cede,
ma sol chi pugna, e trionfante riede.
Parte è ben giunta a voi, ciechi mortali,
ma non propria di voi la frale scorza;
vostra è l'anima sol, ch'ai beni e mali,
col suo proprio voler, dà spirto e forza.
Ella spezza a fortuna i duri strali
ed al suo imperio ad obedir la sforza;
e quanto al fondo più si calca e immerge,
tanto più franca al ciel ritorna e s'erge.
Questa di sofferenza alta virtute
l'altre tutte nodrisce e in vita serba;
ch'ov'ella col vigor suo non le aiute,
sterili fansi o restan secche in erba.
Ma quando il re del ciel per la salute
de l'uom, s'offerse a dura morte acerba,
dal legno, ove il divin sangue si sparse,
di stella, ch'era prima, un sole apparse.
Rinacque ella in quel tronco onde nascesti
vero germe ancor tu, spirito eletto,
sì pronto ora al martir che dubbio desti
se l'incendio t'è pena o pur diletto.
E par che 'l foco anch'ei stupido resti
mentre lo sprezzi in sì giocondo aspetto;
ma che? La fede a la natura è sopra,
e di chi tutto pò la grazia adopra. —
ciò detto spiegan l'ali e fuor del cielo
Escono ad incontrar l'alma gradita,
che dal combusto suo corporeo velo
già propinqua a le stelle era salita.
L'accoglion lieti e con benigno zelo
la scorgon dove, al suo Fattore unita
e in Lui sbramate al fin sue sante voglie,
per breve strazio eterno premio coglie.
Ceneri sacre, in cui sfavilla ancora
esca d'amor ch'i freddi petti accende,
siatemi specchio a sofferir, qualora
colpo d'averso caso il cor m'offende;
ed a membrar ch'anch'io son polve, e l'ora
del mio cader da stame fragil pende.
Tal che i miei gravi error ne vadan tutti
di penitenzia al foco arsi e distrutti.

 
 
 

Il Dittamondo (5-19)

Post n°1130 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XIX

Per quel cammin silvestro se ne gia
Solino ragionando, perché meno
grave mi fosse la solinga via. 

E qual fu mai, che potesse a pieno 
trattar le novitá, le quai mi disse 5 
e ch’io trovai cercando per quel seno? 
Non credo appena Origenes, che visse 
al tempo d’Alessandro imperadore, 
che sei mila volumi e piú iscrisse. 
Ma poi, che fummo del gran bosco fore, 10 
arrivammo ove i Psilli anticamente 
vissono senza legge e senza amore. 
Incredibile a dir fie questa gente: 
prova facean de le moglie co’ figli; 
sicur vivean da ogni serpente. 15 
Cosí andati noi non molti migli, 
trovammo dove stanno i Nasamone 
presso ai Filen, come l’occhio co’ cigli. 
Un fiume v’è, che si noma Tritone; 
una fontana molto santa e sagra 20 
si trova ancora per quella regione. 
Tant’era quella strada acerba ed agra, 
ch’io dicea fra me: Questa sarebbe 
da chi è grasso e volontier dimagra. 
E poi che la mia guida tratto m’ebbe 25 
fuor di questa contrada piú avanti 
e che s’accorse che ’l cammin m’increbbe, 
m’incominciò a dire: "Fra gli Amanti 
venuti siam, che fan case di sale 
e c’hanno assai carbonchi e diamanti". 30 
E io a lui: "Il sai poco qui vale, 
per quel ch’io veggia, e par sí nova cosa, 
ch’a dirlo altrui si crederebbe male. 
Ma dimmi, e ’l mio disio qui poni in posa, 
la natura del diamante in prima; 
apresso, del carbonchio ancor mi chiosa". 
E quello a me: "Di Saturno si stima 
il diamante e sua natura addita 
sí dur, che ferro o foco non ne lima. 
Contro a ogni forza di martel s’aita; 40 
ma chi nel sangue l’aviluppa e caccia, 
sí come vetro in polvere si trita. 
Sicur fa l’uomo e li spiriti scaccia; 
li suoi canton, la punta e la grossezza, 
lo color cristallin, la chiara faccia 45 
mostrano quanto è caro per bellezza: 
innanzi a ogni pietra questa è posta; 
magico incantamento alcun non prezza". 
Cosí rispuose a la prima proposta. 
E seguí poi; "Sopra quante ne sono, 50 
lo nobile carbonchio a l’uom piú costa. 
Di molte specie trovar se ne pono; 
ma quei che son di maggior valimento 
intender dèi che nel mio dir ragiono. 
Nel fuoco muor, che par carbone spento; 55 
ma poi ne l’acqua torna in suo costume 
e a l’uom porge vertú e ardimento. 
Quel, ch’io ti dico, di notte fa lume; 
dilegua la tempesta per natura; 
dai frutti sperge gli uccelli e consume. 60 
Se al sol lo tien, viene in tanta calura: 
fuor gitta il fuoco e tanto a l’occhio piace, 
quanto alcun’altra, a cui si ponga cura". 
Qui tacque; e io a lui: "Tanto mi face 
contento il tuo bel dir, ch’io penso ognora 65 
trovar cagion di non lasciarti in pace. 
E però dimmi, e non t’incresca, ancora 
di queste pietre, che sí care poni, 
se intorno a questi alcun’altra s’onora". 
"Trogoditi, rispuose, e Nasamoni, 70 
ch’abbiam passati, ne han come costoro: 
e cosí il conta, se mai ne ragioni. 
Qui non bisogna, omai, piú far dimoro; 
ma guarda di che fanno i tetti e nota 
sí come vivon ne la vita loro". 75 
Poi, cosí detto, per quella via vôta 
si mosse e io apresso e, ne la fine, 
gente trovammo in parte assai remota. 
Ecco Getulia, c’ha le sue confine; 
seguita poi coi Garamanti, in parte, 80 
e con il lago, ancor, de le saline. 
E sí come tu leggi in molte carte, 
dai Geti greci, che di qua passaro, 
presono il nome, com’hai in altra parte". 
E io a lui: "Assai questo, m’è chiaro 85 
e, poi che novitá da dir non veggio, 
s’altro paese cerchi, a me fie caro". 
Ed ello a me: "A ciò penso e proveggio". 
Ma piú non disse e prese la strada 
sotto un gran monte, di scheggio in ischeggio; 90
indi arrivammo in un’altra contrada.
 
 
 

I Trovatori (8)

Post n°1129 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847, pag. LVI-LXII

CXIII. «La lingua provenzale, scrive il Bembo fin dal secolo decimosesto, è ita mancando, e perdendo di secolo in secolo, intanto che ora, non che poeti si trovino che scrivano provenzalmente, ma la lingua medesima è poco meno che sparita e dileguatasi dalla contrada ».
Generalmente si crede che la lingua provenzale sia spenta. Certo l' antichissimo volgare detto romano, qual era nel novecento, quale l'hanno scritto i provenzali, cominciò sotto i re francesi della casa di Ugo Capoto a cedere il terreno alla lingua francese, e ritirarsi di qua dalla Garonna; poi vinto su quella riviera, passò di qua del Rodano; e finalmente, quando la Provenza, perduta la sua indipendenza, divenne provincia del regno, si ritirò di qua del Varo, ond' era partito e abbandonò quasi affatto quella contrada.

CXIV. Ma il vero si è, che quella lingua di Folchetto, di Rambaldo, di Beltrame, di Goffredo, di Ventadorno, di Arnaldo, di Trucco, di Allamanonc e di San Desiderio non è affatto perduta, ma vive tuttavia sulla destra sponda del Varo, cioè nelle alpi marittime, e cozzie, men pura nelle città poste a mare, e nei grossi villaggi mercantili, imbrattata di francesismi, ma pura e schietta nelle piccole borgate e nelle valli più remote e più lontane dal mare.

CXV. Osserva benissimo l' esimio Cesare Balbo, che il Piemonte si trova a' dì nostri, in certo modo, nelle condizioni morali in cui era la Toscana a' tempi di Dante Allighieri.
Ma nelle alpi cozzie e marittime sonvi certi villaggi, che trovansi a' dì nostri nelle medesime condizioni in cui era la Toscana e l'Italia dugento anni prima di Dante, coll' antica semplicità, co' patriarcali costumi, e colla lingua italiana qual' era nel novecento, che è la schietta lingua degli antichi trovatori provenzali; con questa sola e piccola, ma importantissima, differenza, che la lingua degli abitanti delle alpi marittime e cozzie non ammette le voci che i provenzali di loro capriccio derivarono dall' arabo, dal francese e dallo spagnolo. Colà si ode ancora al dì d' oggi quel modo che da alcuni si cita come caratteristico del dir provenzale: 'Na Rosa, 'Na Teresa, 'Na Maria, per Donna Rosa, Donna Teresa, Donna Maria.

CXVI. Colà non si usa, anche al dì d' oggi, altra desinenza nelle prime persone dei futuri de' verbi attivi tranne quella in ai: ieu prenderai, ieu salverai; io prenderò, io salverò; il prenderaio e il salveraio della lingua talica di mille anni fa, che si trovano entrambi nel sopra citato giuramento tra i due re della stirpe carlovingia, che ebbe luogo a Strasburgo nell' 842 -, il prenderaio e salveraio del dialetto napoletano antico; il prenderaggio e salveraggio dei siciliani, e di tutti i trovatori italiani del cento e del dugento; modo vivente ancora a' dì nostri in quei dialetti italiani che han subito meno alterazione, cioè il napoletano, il siciliano e il corso. Onde si può francamente concludere, che le desinenze dei futuri in ai, delle alpi marittime e cozzie, non è modo derivato dal provenzale, né dal francese prenderai-je, sauverai-je, come da molti si crede, ma è tutto proprio dell' antica lingua italiana, come osserva giudiziosamente, benché in astratto e in termini più ristretti, l' esimio Perticari nella dotta illustrazione al citato giuramento; «che questo prenderai (del giuramento) è la radice del prenderaggio de' siculi e de' toscani antichi».

CXVII. Osserverò, passando, che i provenzali non hanno mai avuto alcuna, benché minima, influenza politica morale in quelle parti; e che quando i conti di Provenza, nel secolo duodecimo, erano signori di Nizza, le città e i villaggi mediterranei del contado, si conservarono sempre indipendenti, cordialmente avversi in ogni tempo alla signoria de' provenzali, o de' francesi, come contano le storie, e le tradizioni.

CXVIII. In prova della identità del vivente dialetto delle alpi cozzie e marittime col provenzale antico, mi basterà avvertire che i più rustici abitanti di quella contrada, senza aver mai aperta grammatica, né visto dizionario provenzale, intendono facilmente la lingua degli antichi trovatori provenzali al pari di tali che forse l' avranno studiata molti anni.

CXIX. Avvi in Italia una scuola numerosa di letterati, ostinatamente nemici della verità, e dell' onore nazionale, i quali non solo vanno insegnando che la lingua e la poesia italiana primitiva son derivate dalla lingua e dalla poesia provenzale; ma spingono la irriverenza loro lant' oltre, che ardiscono asserire, che Cino, Guido, Dante e Petrarca, e tutti i nostri classici antichi hanno imitato copiato, rubato, senza coscienza, senza decoro, e senza fede, i trovatori provenzali, ne' metri, ne' concetti e nei sentimenti; e citano dei passi di questo e di quel trovatore provenzale, e fanno dei confronti coi classici nostri: indi ne concludono allegramente, che noi dobbiamo ai provenzali tutto, lingua, poesia e letteratura, e poco meno che non aggiungono ancora tutta la filosofìa sperimentale, e il Principe di Niccolò Macchiavelli.

CXX. Nell' animo e nel core di tutti gli uomini, che hanno ricevuto da Dio la sacra fiamma della poesia, vi sono dei concetti e de' sentimenti, i quali, dati i medesimi ordini, i medesimi stati e le medesime condizioni civili, si devono manifestare, a un bel dipresso, nello stesso modo. Così i nostri primi trovatori italiani, per lo spazio di cent' anni, senza che uno abbia imitato l'altro, ci ridicono tutti, a un bel circa, le stesse cose, finché cangiati con una battaglia gli ordini politici dei tempi, anch' essi in un istante cangiarono stile.

CXXI. Le forme poetiche, i concetti e i sentimenti, espressi da Cino, Guido, Dante e Petrarca, erano da gran tempo nella mente e nel core della nazione italiana. Ascoltarono essi e intesero la voce del popolo, e senza darsi pensiero se altri, o prima o nel medesimo tempo, italiani stranieri, avessero tocche le corde di quell' arpa, sentirono que' concetti, immaginaronli nel loro alto intelletto, e li vestirono di quella ricca e splendida armonia, la qual per correr di anni e di secoli non verrà mai meno.

CXXII. Che se mai Cino, Guido, Dante e Petrarca avessero voluto imitare alcuno, avrebbero imitati i migliori trovatori italiani che prima di loro fiorirono, ne' quali si hanno, le tante volte replicati, prima dei provenzali, e ben più nobilmente, più leggiadramente e più delicatamente espressi, que' modi, quei concetti, e quei sentimenti medesimi che si citano come imitati dai provenzali.
Grandissimi vantaggi possono certamente ritrarre gl' italiani dallo studio della lingua provenzale, come ha dimostrato l' egregio Nannucci, per conoscere le prime origini della propria favella; non perchè la lingua italiana derivi dalla provenzale, ma perchè il dialetto provenzale non è altro che la lingua italiana qual' era, a un bel circa, nell' ottocento e nel novecento.

CXXIII. E là dove il Galvani scrive, che i siciliani e gli antichi lirici toscani poco si scostarono dai provenzali; e dove dice che Brunetto Latini, nel Tesoretto, e Messer Francesco da Barberino ne' Documenti di amore, e ne Reggimenti delle donne, furono provenzali, si dovrà d' or innanzi intendere, che messer Francesco da Barberino, i siciliani e gli antichi rimatori toscani, la più parte senz' aver mai udito un verso provenzale, presero a tradurre in iscritto senza alterazione e senza artifizio, senza manierismo, senza ammodernamento, e più strettamente e più fedelmente che si poteva l'antichissima lingua italiana parlata, qual' era nella bocca e nel core del popolo; lingua allora nova, schietta, vergine e pura, e tutta ingenua, si come quella che insino allora si era modestamente vissuta, e non era mai stata, per lo innanzi, nelle nobili scritture adoperata.

CXXIV. La qual lingua, semplice e timidetta, e direi così, ritrosa al canto e alla poesia, era squisitamente acconcia a esprimere quei sentimenti vaghi, indistinti, e indefiniti, ma dilicati e gentili, dei primi trovatori. Ma per uno strano e inconcepibile rivolgimento d' idee, vengono tacciati di aver imitati i provenzali quelli scrittori, che più religiosamente, e più amorosamente ricercarono, e scrissero senz' alcun artifizio, quella intima lingua italiana del buon popolo antico, e che più scrupolosamente si attennero a queill' aurea semplicità primitiva, a quella virginal purità di forme, di concetti e di sentimenti, tipo di suprema bellezza, che doveva necessariamente trovarsi ne' concetti, ne' sentimenti, e nella lingua degli scrittori popolari, poich' era allora negli animi e ne' costumi della nazione italiana, quando lavata in un mare di lagrime e di sangue dalle romane sozzure, si vide rigenerata e ritemprala col ferro e col fuoco de' barbari a nova vita civile.

CXXV. Questa è la vera origine della lingua italiana, non già figlia, come da molti si crede, della latina o della provenzale, ma bensì continuazione non interrotta dell' antichissima lingua italica della nazione osca, la quale ebbe in sé tanta possanza e tanta energia, che produsse in antico l' arcana lingua de' sacerdoti etruschi e la lingua imperiale del popolo re; entrò, come afferma il Giambullari, nella maggior parte delle lingue antiche di occidente e di oriente; e, in tempi a noi più vicini, entrò in gran parte nella francese e nella spagnola, e nelle altre lingue romanze, creò il provenzale, e un infinità di bellissimi e ricchissimi dialetti; e finalmente, dopo un fermento di forse duemila anni, Tantae molis erat romanam condere gentem! apparve al mondo in tutta la sua grandezza e la sua magnificenza, e partorì il poema sacro, a cui avean posto mano e cielo e terra, la Divina Commedia di Dante Allighieri.

CXXVI. Ma l' ultima prova della forza e della possanza della bella, ricca, energica e melodiosa lingua italiana non si vide ancora. Non parlo dei tesori di lingua, in ogni scienza, inesplorati, di cui potrei qui citare qualche cento di volumi, che aspettando l'ora della distruzione si giacciono sconosciuti nell'oblio, ma sì bene degli elementi fondamentali di più grandi e di maggiori cose che in se stessa racchiude la nostra lingua, i quali elementi, per potersi sviluppare e fiorire, richieggono condizioni politiche e civili che mai ebbero luogo presso i nostri maggiori, e che noi né i nostri nipoti non potremo vedere. Ma quando per noi volgeranno migliori destini, e quando sarà seguito e compiuto il risorgimento politico della nazione e il rinnovamento della letteratura nazionale, allora solamente la lingua italiana riceverà l' ultima sua perfezione. Allora sì che il nostro si potrà dire a buon dritto il più nobile, il più espressivo, il più melodioso, il più compiuto, il più perfetto degli umani linguaggi. Il quale non essendo, a dir vero, che il fiore delle voci e de' modi di tutte le antiche favelle, ed avendo tante strette affinità con le viventi lingue di tutti i popoli europei, per cui tanto facilmente si presta a tutti gli intendimenti, forse un giorno avverrà, che mediante le influenze delle arti, delle lettere e della religione, la bellissima nostra favella diventerà la lingua universale di tutti i popoli, e per la terza volta si udranno tutti i mortali parlar italianamente.

 
 
 

Della Casa 03: sonetti

Post n°1128 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

XI

Sagge, soavi, angeliche parole;
dolce rigor, cortese orgoglio e pio;
chiara fronte e begli occhi ardenti, ond'io
ne le tenebre mie specchio ebbi e sole;

e tu, crespo oro fin, là dove sòle
spesso al laccio cader còlto il cor mio;
e voi, candide man, che 'l colpo rio
mi deste, cui sanar l'alma non vòle;

voi d'Amor gloria sète unica, e 'nseme
cibo e sostegno mio, col qual ho corso
securo assai tutta l'età più fresca.

Né fia giamai, quando 'l cor lasso freme
nel suo digiun, ch'i' mi procuri altr'esca,
né stanco altro che voi cerchi soccorso.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 11 (pag. 6)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 259

Note:
Sembra scritto a riscontro di quello del Bembo, Crin d'oro-crespo e d'ambra tersa e pura; e l'avanza. Come poi se ne cavi materia a sessanta lunghe facciate di chiosa può impararsi dal Severino, aggiunto per lo più al Quattromani. Che quando Platone consigliava l'ostracismo de' poeti intendesse parlare de4i loro commentatori?
(Carrer, cit., pag. 302)



XII

Il tuo candido fil tosto le amare
per me, Soranzo mio, Parche troncaro,
e troncandolo, in lutto mi lassaro,
che noia quant'io miro e duol m'appare.

Ben sai ch'al viver mio, cui brevi e rare
prescrisse ore serene il ciel avaro,
non ebbi altro che te lume o riparo:
or non è chi 'l sostenga, o chi 'l rischiare.

Bella fera e gentil mi punse il seno,
e poi fuggìo da me ratta lontano,
vago lassando il cor del suo veneno;

e mentre ella per me s'attende invano,
lasso, ti parti tu, non ancor pieno
i primi spazî pur del corso umano.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 12 (pag. 7)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 260

Note:
Piangeva tuttavia la mortedi Claudia Orsina, e ne portava il corruccio, quando gli morì l'amico M. Antonio Soranzo, gentiluomo veneziano de' più ragguardevoli per gentilezza d'animo e coltura d'ingegno. Ad esso aveva il Casa diretto il "Forno", inciampo, secondo alcuni, al cardinalato. Affettuoso ricordo di due sventure avvenutegli a fargli solitaria e sconsolata vita. "Bella fera e gentil", vuolsi allusione al nome del casato di madonna Claudia; ma "fere" si chiamavano da' poeti cinquecenteschi le loro belle, anche non nate di casa Orsina.
(Carrer, cit., pag. 302)



XIII

Fuor di man di Tiranno a giusto regno,
Soranzo mio, fuggito, in pace or sei:
deh come volentier teco verrei
fuggendo anch'io signor crudele e 'ndegno!

Duro mi fia, fin qui col tuo sostegno
usato di portar gli affanni miei,
or viver orbo i gravi giorni e rei,
ché sol m'avanza omai pianto e disdegno.

Tolsemi antico bene invidia nova:
e s'io ne piansi e morte ebbi da presso
tu 'l sai, cui lo mio cor chiuso non fue;

e or m'hai tu di doppio affanno oppresso
partendo, che l'un duol l'altro rinova;
né basto i' solo a soffrirli ambidue.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 13 (pag. 7)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 261

Note:
Ritocca la mesta corda del precedente. Nella prima terzina ritorna coll'animo afflitto a madonna Claudia.
(Carrer, cit., pag. 303)



XIV

Cangiai con gran mio duol contrada e parte,
com'egro suol, che 'n sua magion non sana:
ma già perch'io mi parta, erma e lontana
riva cercando, Amor da me non parte.

Ma come sia del mio corpo ombra o parte,
da me né mica un varco s'allontana;
né perch'io fugga e mi dilunghi, è sana
la doglia mia, né pur men grave in parte.

Signor fuggito più turbato aggiunge:
e chi dal giogo suo servo securo
prima partìo, di ferro ebbe 'l cor cinto

veracemente; e quegli anco fu duro
che visse un dì da la sua donna lunge,
e di sì grave duol non cadde vinto.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 14 (pag. 8)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 262

Note:
L'uso del sanare intransitivo ricorda il petrarchesco: Piaga per allentar d'arco non sana. A malattie disperate sogliono i medici consigliare il mutar aria; e quando si manda il malato fuori di casa significa che lo si accomiata pel cimitero, da cui solo la mano di Dio può camparlo. Lo scherzo della parola parte, ripetuta quattro volte con vario significato, ha modelli ed imitatori ( colla stessa parola parte vedi Petrarca p. I, s. 74 e s. 167 con la parola "sole"); ma è deplorabile in sonetto tanto nobile e passionato. Peggio assai il Tasso in un sonetto in morte del duca Alessandro Farnese, che incomincia, Dopo una lunga e sanguinosa guerra; nel quale pace e guerra sono rime costanti a tutti i quattordici versi. Si potrebbe parodiare con: Ser Cecco non può star senza la corte. Tornando al sonetto del Casa, si noti l'entrare della prima terzina nella seconda, ciò che il poeta usò molte volte, e a me basterà di notare una volta per sempre. Conferisce decoro e rapidità alla poesia; e può anche aggiugnere espressione all'affetto, come, tra'moderni, in un eccellente sonetto d'Ippolito Pindemonte:
Nè per seguirla altro mi resta, o mia
Fida sorella, che una vecchia spoglia
Deporre, ec.
Tibullo anche qui era nell'animo del Poeta, e gli prestava opportune frasi ed immagini per le terzine.
(Carrer, cit., pag. 303)



XV

Quella, che del mio mal cura non prende,
come colpa non sia de' suoi begli occhi
quant'io languisco, o come altronde scocchi
l'acuto stral che la mia vita offende,

non gradisce 'l mio cor, e no 'l mi rende,
perch'ei sempre di lacrime trabocchi;
né vòl ch'i' pèra, e perché già mi tocchi
Morte col braccio, ancor non mi difende.

E io son preso, ed è 'l carcer aperto;
e giungo a mia salute, e fuggo indietro;
e gioia 'n forse bramo, e duol ho certo.

Da spada di diamante un fragil vetro
schermo mi face: e di mio stato incerto
né morte Amor da te, né vita impetro.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 15 (pag. 8)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 263

 
 
 

Mariotto Davanzati 05-06

Post n°1127 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

V

Canzon morale del detto Mariotto dove pone che una fanciulla avea scherniti molti amanti, poi s'innamora d'un giovinetto e duolsi degli scherni c'ha fatti.

Gentil donne e leggiadre, o pulcellette,
correte, anzi volate a veder quello,
qual più non fu né fia, ch'esser non puote,
ascoltate el mio pianto, perch'è in ello
Vener, Cupido e l'orate saette.
Faròvi e loro ingegni certi e note,
e voi, alme divote,
che tenete il cor fisso al sommo Giove,
certo in me più ch'altrove
prender potrete con dottrina essempro.
Ahi lasso, i' mi distempro
pensando a quel che ne convien trattare,
né so chi si terrà di lagrimare!
Io venni al mondo in patria alta e serena,
qual voi sapete, di buon sangue e degno,
con abundanti ben de la fortuna;
e tal natura in me d'amor fé segno
che mi produsse di beltà sì piena
che 'n fra tutte le belle i' fui detta una.
Né tornò poi la luna
cornuta cencinquanta volte e tonda,
ben che duol ne seconda,
che mille cor di me fuôr presi ed arsi;
e sì stupenda apparsi
ch'al ciel alzar fe' molte anime pigre:
per[[ò]] converso arei con gli occhi un tigre.
e temo che ambe l'Orse
non sien del ciel pel mio bel signor prive,
o infra correnti rive
qual Narcisso di se stesso innamori
e si converta in fiori,
o che cambio non sia di Ganimede;
così il pruovi com'io chi non lo crede.
- Ove alme gentil truovi, o canzonetta,
conta il mio stato e fa' che l'amunisca
d'esser benigne inver d'amor e grate,
sì che, come me, fa' lor non punisca,
per essemplo dal ciel data soletta,
perché troppo fidâmi in mia beltate;
più m'affligge pietate,
per tema che la pena del mio errore
del suo ver me non senta il mio signore.


VI

Canzon morale del detto Mariotto a detestazione e biasimo d'Amore.

Le città magne floride e civili,
e cultivati tempî sacri e degni
e le severità de' gran patrizi,
le famose republiche e' gran regni,
e glorïosi ingegni alti e sottili,
e bellicosi e nobili esercizi,
e suppremi edefizi,
le mirabili vaghe e ricche feste
e le splendide veste,
le quali i' cerca', già con gran diletto,
or fuggo e ho in dispetto,
merzé del folle amor, falso e protervo,
che m'ha converso d'Atteonne in cervo.
Però che, 'n cangio d'este umane voglie,
l'antiche selve e le deserte piagge,
l'oscure tombe e' monti alti e alpestri,
le ripe innerme e le fiere selvagge,
paure, storsïon, lamenti e doglie,
casi repenti, rigidi e sinestri
con rustici silvestri
conculcati oratori e derelitti,
tigri superbi e 'nvitti,
crudi tiranni e popol sanza legge,
aspra ed inniqua gregge
disio e cerco, come piace a Amore,
d'ogni esterminio uman padre e 'nventore.
L'ore tranquille e la serena vita
e 'l bel gioir del nostro uman contento
nella fugace e vana gioventute,
le delizie e riposo e nudrimento
de' dilicati cibi, che ci invita
naturalmente, e la degna virtute,
la divina salute,
la qual si de' cercar con ogni effetto,
el supremo intelletto,
gli stati e gran tesori e sanitate,
la santa libertate
rinunzio e spregio per la greve salma
d'amor, che 'l corpo usurpa e danna l'alma.
Così, a ciascheduno uman deforme,
accidioso ozio, morte, crudo pianto,
l'ultimo punto alfin dell'universo,
le miserie, gli affanni e 'l triste canto,
aspre vivande innusitate e 'nnorme,
lo stile usato abbattuto e sommerso,
lo spirto frale e perso
etternalmente senza redemire,
temerario fremire,
infimo loco, innopia, il corpo infetto,
servitù con dispetto
frequente cheggio come Amor m'insegna,
sotto 'l qual mai non si fé cosa degna.
Volgete gli occhi alle passate cose
e le presenti, o miseri mortali,
ch'a gli alti ingegni le future insegna:
vedrete a piè del gelso e doppi mali,
vedrete le camicie sanguinose
d'Isifile e di Dido, d'onor degna,
Filis vedrete pregna
col laccio in collo, e vedrete Medea,
fratrecida aspra e rea,
dar per cibo a Gianson e propri figli,
greci e troian perigli,
qual non si vide mai doglia sì cruda;
tutt'opere d'Amor, padre di Giuda!
Ma, o giusto rettor del cielo etterno,
che per noi redemir morir volesti,
se tal suplicazion lecita parti,
raguarda i modi inniqui e disonesti
d'esto crudo tiranno, el suo governo
e' vizi che pel mondo ha sempre sparti;
vedi suo 'ngegni e arti
d'omicidi, adulteri e tradimenti,
incendi e rubamenti,
fornicatore, strupo e sacrilegio,
sepolcro d'ogni egregio;
non lasciar più impunito tanto errore,
e spegni a Pluto tal benefattore!
E tu, vera fenice al mondo sola,
che, per far fede qui del ben celeste,
senza essemplo formotti el sommo Giove,
non per sommerger le cose terreste,
ma per drizzarle alla superna scola,
s'altro accidente le volgessi altrove,
dunque, raguarda dove
per te condotto è 'l tuo sì fedel servo;
mira lo strazio acervo,
dov'Amor l'alma e 'l corpo insieme ancide,
e Dio da te divide
se non t'ammendi e se' suo esecutore,
qual de' Giudei Pilato al Redentore.
- Canzon, chi ti dimanda ove nascesti
puo' dir: «Ne' folti boschi sovra un sasso,
laddove a mezzo luglio el sol si brama,
fra lauri e mirti; e non ho fatto passo
sanza Aganippe». E gentili e modesti
spirti vicita, priega, onora e chiama;
poi, sconsolata e grama,
racconta el viver mio quant'è mendico:
colpa d'Amor, d'ogni vertù nimico.

 
 
 

Rime di Celio Magno (351-352)

Post n°1126 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

351

Già fu che, stolto, io non credea possente
volto di bel fanciullo ardermi il core,
mentre amor feminil chiusa la mente,
da pria mi tenne in troppo cieco errore;
or che, mercé del ciel, l'anima sente
le forze al fin di sì soave ardore,
l'altro dispregia, e stupor anzi prende
come per donne Amor suo foco accende.
Tal chi prima gustò, di Bacco amico,
spremendo l'uve il nettar dolce e grato,
de l'acqua diventò schivo e nemico
ch'era a mensa bramar pur dianzi usato;
così trovando in cavo tronco antico
famelic'orso il mel non più gustato,
le ghiande lascia e 'n tutto a sdegno l'have,
accorto fatto del licor soave.
Donna, voi, ch'io già tenni angel celeste
sceso a farmi qua giù beato a pieno,
cedete il vanto pur ch'allor n'aveste
al volto del mio Tirsi almo e sereno;
perché quanto or di ben dar mi potreste
lo stimerei d'un sol suo guardo meno:
e nel suo amor più tosto aver tormento
che nel vostro, torrei, viver contento.
Quanto m'è dolce più che 'l cor mi leghi
a la sua chioma inanellata e bionda;
e che sue forze in me tutte dispieghi
da quella fronte Amor chiara e gioconda;
e ch'indi spesso i miei cocenti prieghi
cortese ascolti, e lor grato risponda.
Quanto m'è più soave, in lui da presso
mirando, tutto in lui perder me stesso.
Vince il mio Tirsi al bel purpureo viso,
agli occhi vaghi ed al gentil sembiante,
Ales, Adon, Giacinto, Ila e Narciso
con qualunque altro di beltà si vante.
ancor direi che Giove in paradiso
di men degno fanciul si gode amante:
ma temo a lui non scenda in novo augello
per farne sé più lieto e 'l ciel più bello.
Dolce mio caro aventuroso foco,
luce degli occhi miei sola e gradita,
che 'l mio cor sollevando in nobil loco
mi rinovasti a più felice vita,
e in cambio d'un piacer fallace e poco,
gioia mi fai provar vera infinita:
scorgi tu dentro in me quel ch'or desio
dirti, e spiegar non puote il canto mio.

352

N.
Perché 'l don già concesso or mi ritogli,
Amor? E 'l cangi in duolo?
A.
Perché 'l diletto solo
non ti dia morte, e del tuo ben ti spogli.
N.
Qualche conforto almen, se vuoi ch'io viva,
tempri il mio amaro lutto.
A.
Non è misto il mio frutto,
ma sol d'aspro o di dolce al colmo arriva.
N.
Come dunque vivrò, se già 'l tormento
dal cor l'alma divide?
A.
Il dolor non ancide,
ma ben per allegrezza altri fu spento.
N.
Ahi, ch'anzi torna, più che morte amara,
ogni tua breve noia.
A.
Ogni mia leve gioia
ancor via più che vita è dolce e cara.
N.
Troppo è mia fé di tanto strazio indegna.
A.
Soffrir tacendo dèi,
se fedel servo sei;
basti che quinci a te salute vegna.
N.
Pietosa crudeltà, pietà crudele:
voler, perch'io non mora,
che provi morte ognora,
e che del mio morir non mi querele.

 
 
 

Il Dittamondo (5-18)

Post n°1125 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XVIII

O tu che leggi, imagina ch’io sono,
tra quel di Libia e l’Etiopo, giunto
nel mezzo, per la via ch’altrove pono. 

Io ho rivolto i piedi e ’l volto appunto 
in vèr ponente, per voler cercare 5 
Getulia e Garama di punto in punto; 
poi penso dar la volta e ritornare, 
per l’Etiopia, a levante, in Egitto: 
ché meglio non ci veggio a ben cercare. 
Questo cammin non segue tutto dritto 10 
e poi è disviato a loco a loco 
sí per lo sole e i gran boschi ch’io ho ditto. 
Qui mi disse Solin: "Sí come il foco 
vuol temprato colui che fa l’archimia, 
convien l’andare temperar piú e poco". 15 
"Io veggio bene come ’l ciel biastimia 
questa contrada; ma tanti animali 
diversi in forma, e c’han volti di scimia, 
dimmi chi son, diss’io, ché ci ha di tali 
che a riguardare pare una paura; 20 
poi tempra i passi e piú e meno iguali". 
Ed ello a me: "Imagina e pon cura 
che di specie di scimie son per certo 
quanti ne vedi di simil figura. 
E poi che mi dimandi essere esperto 25 
di lor condizioni e sí de’ nomi, 
io tel dirò com’ io lo scrivo aperto. 
Quelle che vedi andar su per le somi 
per Grecia, per Italia e per la Spagna, 
e che sanno ballare e fare i tomi, 30 
sono con piú piacere e men magagna; 
e maggior copia di queste si trova. 
L’odore ha tal, come ’l tatto la ragna; 
rallegra sé quando la luna è nova, 
e ’n altro tempo cambia la sua faccia; 35 
ciò che far vede, contraffar le giova. 
E quando avièn che ’l cacciator la caccia, 
il figliuol ch’ama piú a sé ammicca 
e con quel fugge dentro a le sue braccia. 
L’altro di sotto il corpo le si ficca; 40 
con man, co’ piedi e con tutta sua possa 
di sopra da le reni a lei s’appicca. 
E se avièn che la madre piú non possa, 
vuoi lasciar quel ch’a la schiena si tene; 
ma niente le val, per dar la scossa; 45 
onde abbandona quello a cui vuol bene. 
O miser ricco avaro, se ben miri, 
cosí a te, a la morte, addivene. 
Altre ci son, che si noman satiri, 
inquiete e rubeste ne’ lor moti: 50 
grata han la faccia e con folli disiri. 
Ancor voglio che ne l’animo noti 
i circopetrici e questi hanno coda 
e stanno in minor boschi e men rimoti. 
La lor natura in questo modo annoda: 55 
che per discrezione e per ingegni 
sono di maggior fama e di piú loda. 
Cinocefali piacemi che segni 
nel numer de le scimie: e, senza forsi, 
piú son crudeli fra tutte e men degni. 60 
Questi con piedi, con mani e con morsi, 
con violenti assalti offender sanno 
piú fieramente che se fosson orsi. 
Per le gran selve etiopiche stanno; 
a chi li prende non li val lusinghe, 65 
ché quei che fan lor meglio, peggio n’hanno. 
Similemente voglio che dipinghe 
che un’altra schiatta v’ha, di minor forma, 
le quai di qua son nominate spinghe. 
La lor natura divisa e conforma 70 
abile e dolce e, per quel che si dice, 
chi gli ammaestra bene, stanno in norma. 
Per le foreste, fuor d’ogni pendice, 
si truova ancora, c’hanno coda e barbi, 
un’altra specie, detta calitrice. 75 
Udito or hai le novitá di Garbi, 
che ci son d’animai di questa sorte, 
la lor natura e quai truovi piú arbi". 
E io a lui: "Le tue parole accorte 
l’animo mio han fatto tanto chiaro, 80 
che rimaso ne son contento forte. 
Ma qui ti prego ancor, lume mio caro, 
ch’alcuna cosa dietro a te non lassi, 
che sia da dire per questo riparo". 
Ed ello a me: "Non voglio che si passi 85 
trattar del latte sirpico, com’esso 
d’odorate radici al tempo fassi". 
Per ordine mi divisò apresso 
a quel ch’è buono e sí come si face, 
secondo che nel libro suo l’ha messo. 90 
"E però che per molti non si tace 
l’álbor melopo, che di qua si vede, 
di fartene memoria ancor mi piace. 
Un omor lento di questo procede, 
lo qual si noma armoniaco fra noi: 95 
credo che sai a che s’aopra e chiede":
così mi disse e tacquesi da poi.
 
 
 

Rime di Celio Magno (347-350)

Post n°1124 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

347

    [A Tommaso Stigliani]

Ben rinova, Stigliani, essempio espresso
fortuna in te de la sua legge antica:
ch'ognor virtute in dura guerra implica
perché le sia da lei l'imperio cesso.
Ma qual di palma suol ramo depresso,
tu in te risorgi, e speme al cor nodrica;
resisti al flutto averso e t'affatica
prender il porto al tuo valor promesso.
Tua però prima cura il lauro sia,
che a lui nascesti; e s'util cerchi altronde,
segui di gloria ancor la propria via.
Non sempre irato il mar fiere le sponde,
né sempre in terra il ciel grandine invia,
e 'l sol dopo la notte i rai diffonde.
348
Poich'empia morte ha quel valor distrutto
che d'opre ornava il mondo illustri e conte,
me stesso a consolar forze ho mal pronte,
non che spender le possa a commun frutto.
Anzi dal pianto altrui più al pianto indutto
vien che, qual rio per pioggia, il duol sormonte;
che raro il sol vedrà, nasca o tramonte,
altro a gloria maggior spirto produtto.
E se per dar conforto al cor dolente
suoi pregi a celebrar cantando io torno,
dai pregi stessi il duol crescer si sente.
Tu, novo Orfeo, l'amaro in ch'io soggiorno
sei con tua cetra a raddolcir possente,
e far, dando a lui vita, a morte scorno.
349

    Dialogo in musica [Per il clarissimo signor Marcantonio Michiel]

A.
Goda tra canto e festa
Vinezia, e lieta accoglia al suo ritorno
l'amato figlio e d'ogni pregio adorno.
B.
Pianga altrettanto mesta
Chioggia per lui, poich'a la sua partita
parve partir da lei la propria vita.
A.
Non nacque in questo nido
spirto dal cielo a più bell'opre eletto
dentro a più franco e generoso petto.
B.
Non resse altri in quel lido
più giusto fren con più senno e valore,
a l'alta patria sua crescendo onore.
A.
Quella nel cor divoto
serberà eterna del Michiel memoria,
con ardente desio d'ogni sua gloria.
B.
Questa adempirà 'l voto con larghi premi; ond'altri essempio toglia
ed ella, a commun pro, frutto ne coglia.
A.
O prezioso frutto,
di nobil vita in verde età maturo,
del favor c'ha dal ciel pegno sicuro!
B.
O degno stuol ridutto
ad onorarlo: quanto ei da te prende
splendor e gaudio; e quanto a te ne rende!
A.
Così dal vostro vanto
derivi tal dolcezza a' nostri accenti
che ne gioisca il cielo, il mare e i venti.
B.
Così col nostro canto
si rinovino a voi dai cieli amici
mille di questo a par giorni felici.
350
Tu pur nel tuo pensier vano e crudele
oltre ancor passi ed ostinata duri,
empia mia donna, e l'aspre mie querele,
il lungo affanno, il lagrimar non curi.
né ti ravede, ohimè, ch'al tuo fedele
per sì ingiusto rigor morte procuri:
morte, ch'esser non puote a venir tarda,
se tua dolce pietate in me non guarda.
Ahi, che se nel tuo cor regnasse Amore
come nel volto e ne' begli occhi regna,
vinto sì non l'avria stolto timore,
né macchiata tua fé di nota indegna.
E stimeresti troppo grave errore
che quel crudel, che torti a me s'ingegna
con sua vane minacce e finto grido,
t'allontanasse dal tuo amante fido.
Non mi fer già sperar frutto sì duro
dell'amor tuo quelle lusinghe finte,
quelle impromesse, che da te mi furo
sotto falso color sì ben dipinte.
Vivi, dicei, de la mia fé sicuro,
diletto amante: ch'in ciel prima estinte
le stelle, e senza luce il sol vedrai,
ch'in alcun tempo i' t'abbandoni mai.
E pur ne portan le parole i venti,
perfida; pur oblii la tua pietade,
ch'al primo crollo che fortuna tenti,
svelta fuor del tuo petto in terra cade.
Costume è ciò de le più basse menti,
dopo mercede armarsi a crudeltade,
e consentir ch'in noi voglie e desiri
fortuna a suo piacer travolva e giri.
Mentre il ciel ride, e dolci aure seconde
spiran d'intorno a queste piagge amene,
benché non mova a pena arbor le fronde
con poca lode in piè ferma si tiene.
Ma se, turbato, il ciel la faccia asconde,
e Borea, irato, a contrastarla viene,
ben s'a l'impeto allor vinta non cede,
eterno vanto aver suo merto chiede.
Benché qual duro caso orrendo e strano,
qual forza, qual furor da me ti parte?
Un breve sogno, un fumo, un debil vano
altrui sospetto, e forse finto ad arte.
Ahi quanto speri, aspra mia morte, invano
ne la gloria di quelle aver mai parte,
ch'ogni strazio e martir tolsero innanti
che venir meno a lor fedeli amante.
Dieci volte ha già 'l sol fatto ritorno
col novo di fuor de l'albergo usato,
che tu, negando a me più chiaro giorno,
nel tuo stai chiuso, o mio bel sole amato;
né mi degni scoprir del volto adorno
gli ardenti raggi e 'l vano crine aurato.
Ed io pur vivo ancor? Ne 'l duol mi fura
a notte, ohimè, così penosa e dura?
Ma poco andrà, se i tuoi be' raggi a darmi
dolce soccorso fian più lenti e scarsi:
che di sonno mortal vedrai velarmi
gli occhi, e la notte mia perpetua farsi.
Già quel cor, ch'è pur tuo, dentro gelarmi
sento, e l'alma, per girne a volo, alzarsi;
già non usato orror mi cinge e preme,
e già sento il sospir de l'ore estreme.
Tal già da la sua diva, il cui bel volto
non men che 'l nome in te si mira espresso,
fu, per creder di lei, fallace e stolto,
l'infelice Orione a morte oppresso.

 
 
 

Il Dittamondo (5-17)

Post n°1123 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XVII

Non lassò per l’andar, che non seguisse
la guida mia pur dietro a la sua tema
e, in questo modo ragionando, disse: 

"Figliuolo, in questa parte oscura e strema 
aspidi sono d’una e d’altra spezia, 5 
dispari in opra e di ciascun si gema. 
La dipsa è un che fra gli altri si prezia, 
che, cui morde, con la sete uccide: 
gran senno fa chi fugge le sue screzia. 
L’inale è l’altro: col sonno divide 10 
l’alma dal cuor succiando e Cleopatra 
testimone di questo giá si vide. 
Non senza morte colui ancora latra 
cui il cencro giunge o mordono i chersidri, 
ma sí come uomo arrabbiato si squatra. 
Ancora vo’ che per certo considri 
che l’elefanzio e l’ammodite quanti 
ne giungon, tanti convien che n’assidri. 
Camedragonti, di questi son tanti 
quante bisce in Maremma; e cui el punge, 20 
una mezz’ora nol tene in bistanti. 
E vo’ che sappi che colui che giunge 
l’emorrois di subito si langue: 
tosto la vena li disecca e munge. 
Lo prestero, e questo si è un angue 25 
che, per natura, uccide l’uom gonfiando, 
pur che l’assanni il morso in fine al sangue. 
Lucan, d’alcun di questi poetando, 
conta sí come Sabello e Nasidio 
fun punti e trasformati, indi passando. 30 
Ma sopra quanti ne noma il Numidio 
o l’Etiopio, è reo il badalischio 
e che fa peggio al mondo e piú micidio. 
Sufola, andando, con orribil fischio 
per che gli altri animai, che ’l temon forte 35 
istupon sí, che caggion nel suo rischio. 
Non pur de l’uomo e de le fere è morte, 
ma quella terra diradica e snerba, 
ne la quale usa per sua mala sorte. 
Gli alberi secca e consumavi l’erba; 40 
l’aire corrompe sí, che qual vi passa 
pruova, ne l’alitare, quanto è acerba. 
E a ciò che morto col suo morso lassa 
(pensa se ’l tosco è crudo e temperato) 
niuna bestia la testa v’abbassa. 45 
Bianco è del corpo, alquanto lineato; 
la sua lunghezza è poco piú d’un piede, 
le gambe grosse, crestuto e alato. 
Quando si move, sempre andar si vede 
la parte innanzi ardita, fiera e dritta; 50 
quella di dietro qual serpe procede. 
De gli occhi accesi fuori un velen gitta, 
che l’uom che ’l mira perde e cade in terra: 
cosí l’alma nel cuor è tosto afflitta. 
Sopra quanti animai, che a lui fan guerra, 55 
è la mustela che l’uccide e vince, 
portata con la ruta ove s’inserra. 
D’ogni serpente questo è re e prince; 
dove n’ha piú è dietro a l’Etiopia, 
per quelle selve disviate e schince". 60 
Cosí andando, ancor mi fece copia 
d’alcuna pietra, che di lá si trova, 
e cominciommi a dir de l’elitropia: 
"Questa, nel mondo, è molto cara e nova, 
di color verde, salvo che un poco 65 
è piú oscura che ’l verde non prova, 
gottata di sanguigno a loco a loco, 
e, se si pone in acqua u’ sol non traggia, 
par ch’essa bolla come fosse al foco. 
E chi la mette lá, dove il sol raggia 70 
in chiara fonte, l’aire intorno oscura 
e ’n sanguigno color par che ritraggia. 
Util si crede a colui che fura; 
similemente voglio che tu sappia 
che ’l sangue stringe a l’uom per sua natura. 75 
Ancor mi piace che nel cuor ti cappia 
ch’al nostro viso, fuggendo, si vela 
chi con l’erba sua sora l’accalappia. 
Cosí tra questa gente non si cela 
la pietra corno Ammon, la qual risprende 80 
in color d’oro, senza alcuna tela. 
Sí come ha ’l nome, la forma s’intende; 
qual, dormendo, la tien sotto la fronte, 
veraci sogni si dice che rende". 
Pur seguitando le parole conte, 
"Un’altra ci è, mi disse, e ’l nome piglia 
dal suo paese, detta nasamonte. 
E questa quasi di color somiglia, 
con certe vene di nero aombrata, 
qual vivo sangue, tanto par vermiglia; 90
cara e bella par molto a chi la guata".
 
 
 

I Trovatori (7)

Post n°1122 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847, pag. LI-LVI

CIII. La sconfitta ch' ebbe il nostro volgare dal barbaro francese, anzi che a maggior o minor coltura, si deve in tutto attribuire a influenze diverse, e a mutate ragioni politiche; perchè, a dir il vero, i due volgari erano rozzi e incolti del pari. Quando però dalle semplici cose domestiche e mercantili il dir romano fu innalzato a trattar le cose pubbliche, gli affari politici dello stato, e gli affari religiosi della chiesa, si cominciò a dirozzare, e polire, e prendere qualche forma di gentilezza e di civiltà.

CIV.  Allora mutaronsi le condizioni dei due paesi. La Provenza non ebbe più quelle frequenti relazioni con gli italiani, le quali si voltarono invece verso Francia, di cui più tardi doveva diventar provincia; e il dir romano dei provenzali non potè più seguire le fasi dei perfezionamenti, che ogni giorno, coll' avanzar della civiltà, subiva il dir romano in Italia. Anzi, a misura che il nostro volgare si perfezionava, si poliva, e diventava più colto e più gentile e più armonioso, i provenzali, rimasti isolati da questo gran movimento, e abbandonati a se stessi, accolsero qualche voce araba o spagnola, come quelle terminate in ada, e qualche voce francese, per Io più avverbi, onde per questi due novi elementi introdotti nel romano dai provenzali ne sorse un novo linguaggio, diversissimo dal francese, e somigliantissimo e identico per le radici, i modi, e le costruzioni all'italico antico, e dall'italico d'oggidì solo per le desinenze diverso. Ecco la vera origine della lingua provenzale.

CV. Goffredo Rudel, trovator provenzale che fioriva nel 1170, chiama ancora romana la sua lingua. I grammatici provenzali dichiarano errori di lingua le voci francesi introdotte nel provenzale. E Raimondo Vidale, altro trovator provenzale, scrive «che tutti quelli che dicono amiz per amie e moi per me, tutti fallano, che sono parole francesi, e l'uomo non le dee mescolar alle provenzali».

CVI. E la ragione si è, che la provenzale e la francese son due lingue diverse, e procedono dai due poli opposti; perchè la lingua francese trae la sua origine dalle lingue nordiche, e la provenzale dalle meridionali, e non è altro che uno dei tanti dialetti del volgare comune d'Italia. Però tutto quanto si trova di comune tra i provenzali e gl' italiani noi non converremo giammai col Bembo che sia stato rubato dai fiorentini ai francesi, ma si bene coll' esimio Perticari francamente diremo, «che fu del romano comune, ed è conservato nella lingua degli italiani: di che trovasi ancora esempio nei provenzali,» come noi diremo nel dialetto napoletano, bolognese, siciliano, corso, veneto, lombardo, o meglio ancora nei dialetti italici delle isole e delle coste del mare mediterraneo, del mare ionio, del mar nero, o nelle colonie italiane della Morea, dell' Asia Minore, di Gaffa, o della Tana, dove il commercio e le relazioni degli italiani introdussero la lingua italiana, modificata però di forma e di pronunzia, secondo le condizioni diverse di maggior o minor coltura, di maggior o minor affinità col linguaggio dei nativi di quelle contrade.

CVII. Il provenzale non è adunque altro che uno dei tanti dialetti del volgare comune d'Italia, com'era a un bel circa, nel novecento. Le voci e i modi dei provenzali, che non s' incontrano nella illustre lingua italiana, hanno certamente radice, e si possono riscontrare nelle voci e ne' modi degli antichi e moderni dialetti di tutte le provincie italiane. Addurrò un solo esempio di Guido d' Uissel.

L' autre jorn per avventura
M' anava sol cavalcan
Un sonet notan
Et trobei toza ben estan

CVIII. Dov' è da osservare che la voce autre per altro, e il cangiar sovente l' l in u è modo usitatissimo nei dialetti piemontese, genovese e lombardo; e se ne ha molti esempi anche nella Tavola Rotonda. Per avventura è maniera del volgare illustre; m' anava per me n' andava è modo vivente nel dialetto umbro e romanesco -, sonet per sonetto, cavalcan per cavalcando, notan por notando, ben estan per bene stando son modi e troncamenti dell'antichissima lingua italiana, ancor viventi in quasi tutti i dialetti dell' alta Italia. Trobare per trovare è vivente nei dialetti delle alpi marittime e cozzie e ne' monti siciliani, i due opposti estremi confini d'Italia, e si trova in Ciullo d' Alcamo: toza o tosa per fanciulla è vivente nel dialetto bolognese e milanese, si riscontra in Ciacco dell' Anguillara trovator dugentista, ed era, in antico, comune a tutti i volgari italiani.

CIX. Il chiarissimo Perticari ha dimostrato con evidenza la grande affinità del dire provenzale col nostro, e come si trovano in quello tante eleganze toscane, e tanti fiori della lingua italiana illustre, e i modi più caratteristici dell' italica favella, quali - essere a dire - dire di no - escire a capo - non aver che fare - preso d' amore - prender guardia - venir a piacere - non far motto - da valle e da monte - chiamar mercè - a pena - anzi - adunque - innanti - davanti - anzi che - come - così - siccome - entro - mentre - mentrechè - insieme - intorno - di fuori - fuorché - omai - qui - giammai - giù - in giuso - suso - giusta - malgrado - meno - almeno - per mezzo - unqua - unquemai - onde - però - perciò - perchè - peggio - poi - di poi - appresso - quando - secondo che - sì che - sempre - tutt' ora - senza - anziché - altresì - sopra - sotto - tosto - a traverso - troppo - inverso - e perfino la pietra di paragone della lingua italiana, il modo affermativo si.

CX. È da notarsi che non solo come delle voci e dei modi schiett' italiani, ma dei versi interi italiani, senz'alcuna alterazione, si posson vedere nei trovatori provenzali, come quelli di Bernardo da Ventadorno:

Ciascuna creatura
S' allegra per natura.

E così in quelli di Gioffredo:

Il gira la testa
Del buon destrier ver quella part.

E Rambaldo di Vachiera scrisse:

Gioven dev far guerra e cavaleria.

CXI. La radice delle voci, l'inflessione delle parole e la costruzione de' periodi sono assolutamente conformi nel provenzale come nell' italiano, e tutta la differenza che passa fra queste due lingue consiste nelle desinenze delle voci, e in quelle variazioni, che unicamente dipendono dalla pronunzia locale, e da maggior o minor coltura e raffinatezza di civiltà, e non da diversa natura del linguaggio stesso; le quali variazioni e diversità di pronunzia e di desinenze, tutte, come abbiam detto, s' incontrano ancora nei diversi dialetti italiani viventi.

CXII. Anche il profondo filologo, Leonardo Salviati, negli aurei avvertimenti, sospettò che la lingua provenzale fosse invece derivata dall' italiana, e non l' italiana dalla provenzale, com' era l' opinione del volgo. «Se il primo presupposto fosse da consentire, dic' egli, cioè che da sì fatta lingua, più forse per avventura che per ragione stata in pregio alcun tempo, la nostra bella e dolcissima togliesse in presto i vocaboli, e non più tosto quella, per lo contrario, gli avesse dal volgar nostro; avvegnaché forse la provenzale, prima che la toscana, gli mettesse in opera e in iscrittura; o, per me' dire, in più antichi libri rimasi sieno nel provenzale idioma, che non han fatto nella nostra favella. Di che più di una può esser la cagione».
La ragione vera, perchè si trova qualche scrittura provenzale forse più antica delle italiane, cred' io che sia questa. La civiltà de' provenzali fu iniziata, e promossa e diretta dagl' italiani, e procedeva di pari passo alla stessa civiltà italiana. Quando, per nove condizioni politiche, si trovò, tutto ad un tratto, separata e divisa da quel gran movimento che conduceva i nostri maggiori alla libertà politica e civile, questa civiltà provenzale senza guida e senza sprone, rimase ferma, e direi quasi in sospeso, sui confini della barbarie, e isolata e stazionaria sotto il reggimento dei suoi principi, senza poter mai pervenire a un più alto grado di coltura, di quello ove l' aveano condotta l' influenza degl' italiani. E così avvenne della loro lingua, la quale rimase la stessa nel trecento e nel quattrocento, qual era nel mille cento. Ma ben diversamente avvennero le cose in Italia, dove si accesero tanti fuochi di civiltà e di coltura, quant' erano corti, università, comuni e repubbliche; e a tutti questi fuochi tanto si affinava il nostro antico linguaggio, che se ne vide poi risplendere l' oro puro in Dante, Petrarca, Boccaccio, Macchiavelli, Guicciardini e Torquato, e in tanti altri esimi scrittori, i quali innalzarono la lingua italiana al più alto grado di coltura e di perfezione. Allora accadde che gl' italiani, avvezzi di buon ora all' eleganza e all' armonia di questi sommi scrittori, incominciarono a disprezzare li stessi trovatori dugentisti, i quali usarono pure una lingua italiana, già dirozzata e colta, ed ebbero a sdegno Guido da le Colonne e Iacopo da Lentino, e Federigo II, e Re Enzo, e fra Guittone, e tutti i migliori scrittori di quel secolo; sprezzando poi altamente e condannando a un eterno oblio tutto ciò che in nostra lingua volgare era stato scritto prima del mille; e durando tuttavia il costume di scriver in lingua latina tutti gli atti notarili, legali e officiali, non vi fu alcuno che delle cose in lingua italica anticamente scritte, volesse far ricordo. Il qual disprezzo per l' antica lingua italiana è ancor a' nostri giorni tanto grande, e tanto smisurato, che la irragionevol turba volgare, mentre accetta volentieri le bruttissime ed orribili voci straniere, da dieci o vent' anni introdotte nella lingua italiana, chiama spregevole o barbara, sol che v' incontri una voce disusata, un ette che non intenda, la più bella, la più dilicata e la più sublime poesia degli scrittori dugentisti.

 
 
 

Il Dittamondo (5-16)

Post n°1121 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XVI

"Figliuol mio, disse, allo strolago piace
che per vertú de la luna si mova
lo mare e qui suoi argomenti face. 

Il fisico quanto piú può il riprova 
per questo modo: che vuoi dir che ’l mondo 5 
fatto di quattro alimenti si trova, 
ond’ello è animato, e che, secondo 
ha nare, aviene come in noi si mira: 
e propio dove il mare è piú profondo. 
E però, quando il fiato fuori spira, 10 
cresce e rallarga; ancor similemente 
dice che manca, quando a sé lo tira. 
Ma sí com’io t’ho detto, a chi pon mente, 
pur la Somma Potenza guida il tutto 
e le altre fanno poi come consente". 15 
Cosí parlando, mi trovai condutto, 
nel paese Beronico, a un fiume 
che bagna quel terreno caldo e asciutto. 
"Dimmi, diss’io e volsimi al mio lume, 
questo qual è, che sí forte s’avanza 20 
e fa sí grandi e torbide le schiume?" 
Ed ello a me (con ridente sembianza 
mi riguardò e disse): "Questo è Lete, 
ch’è interpretato a noi dimenticanza. 
Assai t’è chiar, per le genti poete, 25 
ch’egli eran molti che credeano allora 
che l’alma, uscita fuor de la sua rete, 
perdesse, qui bevendo, la memora 
e che, perduta, senz’altro governo 
tornasse in altro corpo a far dimora. 30 
Ancor diceano che venia d’Inferno. 
Ma passiam oltre, ché a far troppo avrei 
a dir di lui ciò ch’io n’odo e dicerno". 
Cosí per Libia rimovendo i piei 
e spiando d’alcuna cosa bella, 35 
che fosse da notar ne’ versi miei, 
io fui dove si mostra e si novella 
come ’l beato Giorgio uccise il drago 
e che scampò da morte la donzella. 
Molto è il paese dilettevol, vago 40 
di verso noi e abondevol d’acque; 
ma in verso il mezzodí non vale un ago. 
Da Foroneo, figlio di Cam, nacque 
la prima gente di questo paese: 
tanto l’Africa a lui allora piacque. 45 
Questo si scrive e tra loro è palese; 
e poi un fiume il manifesta quivi 
che ’l nome tiene ancor, che da lui prese. 
D’oro, d’argento e di gemme son divi 
coloro che vi stanno e han gran copia 50 
di biada, dico, di vigne e d’ulivi. 
"Come a Italia, Solin disse, s’appropia 
provincie assai, cosí date ne sono 
a Libia, tra l’Egitto e l’Etiopia. 
Ma pon mente a quel ch’ora ti ragiono, 55 
a ciò che, se ti vien mai caso o destro, 
lo sappi ragionar sí come il sono. 
Tanto è questo paese aspro e silvestro 
in verso l’Etiopia, ch’a passarvi 
impaccio pare a ogni gran maestro: 60 
perché le selve e ogni bosco parvi 
formiculare di vari serpenti, 
con diversi veleni, grandi e parvi. 
E perché sappi con quanti tormenti 
altrui offendan, ti dirò d’alcuno 65 
e quanto al viver loro hanno argomenti. 
In fra gli altri piú principale è uno: 
cerasta è detto; ha otto cornicelli, 
co’ quai si pasce allora ch’è digiuno. 
Dico che a inganno sa prender gli uccelli: 
e, se udissi dire a che partito, 
ben ti parrebbon gli argomenti belli". 
E io: "Per altro tempo l’ho udito 
come la coda fuora al gioco tene 
e l’altro corpo asconde e sta romito". 75 
"Se ’l sai, rispuose, dir non me ’l convene". 
E seguí poi: "Ancora vi si vede 
in molta copia de l’amfisibene. 
Questi han due teste: l’una, ove si chiede; 
l’altra hanno ne la coda e van bistorti, 80 
però che con ciascuna morde e fiede. 
Giaculi v’ha tanto securi e forti, 
che, trapassando lungo ai lor procinti, 
gli altri animai da lor son lesi e morti. 
Li scitali son tanto ben dipinti, 85 
che spesso a chi li mira torna danno: 
sí dal piacer de lo splendor son vinti,
che presi son, ché partir non si sanno".
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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