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« Il mistero dello Spirito...Ch c pozze fa. Una poesi... »

VEGLIA. Un racconto del 1994.

Post n°34 pubblicato il 29 Luglio 2009 da marcalia1

Una mia short-story fantascientifica (meglio: distopica) datata 1994, pubblicata però nel 2000 per i tipi di Prospettiva Editrice ed inclusa nella silloge "Racconti di gioventù". Il titolo originale è "L'ultimo".

 

 

                         VEGLIA

 

                                                                         Speak but speak! Aye, aye!

                                                              Thy silence, then,  that  voices thee.

                                                                                Moby Dick, cap. XXXVI                                                                                                                                            

 

 Stava morendo, ne era certo.

 Da parecchi giorni ormai il volto dell'uomo andava perdendo la sanità d'un tempo e irradiava invece un sinistro bagliore giallastro di morte e i suoi rantoli parevano una insopportabile elegia di sofferenza alla quale Lui non voleva più prendere parte. Se ne andava, proprio così: il-suo-Creatore svaniva nel Grande Nulla, allora.

 Aveva continuato a nevicare durante tutta la notte, spruzzate lunghe ed impalpabili d'aghi ghiacciati e radioattivi che sembravano provenire da molto lontano, forse da occidente: laggiù il cielo si rifondeva in gelidi incastri di pesanti nubi di quasimetallo che minacciavano di esplodere al solo contatto col terreno fatto invece di strati rocciosi fusi ma già solidificati, appena velati da una patina di brume inacidite.

 Eppure, malgrado tutto, Lui seguitava a vegliarlo. Percepiva il suo respiro farsi sempre più debole e il corpo dell'uomo lasciarsi lentamente irrigidire dal freddo, immersi a sessanta gradi sottozero, o più. Provava così una strana sensazione, come di un modo completamente nuovo di cogliere la realtà quasi se fosse solitudine, oppure abbandono, secondo i valori di emotività che facevano parte del suo Programma Vitale.

 Si guardò per un attimo intorno: solo vastissime piane ammantate di bianco che portavano  verso un'unica riga piatta giù, giù fin verso l'orizzonte, privando il terreno della linea di giunzione con l'atmosfera.

 Si sentì vinto, ma fu breve sensazione.

 L'uomo che gli giaceva accanto emise un gemito soffocato e un rivo di liquido rossastro affiorò ad un angolo della bocca insecchita. Tossì quindi pezzetti d'una materia verdastra dai polmoni, disgregazione dell'organismo umano, pensò Lui, l'androide. Fu solamente allora che, mosso da pietà, gli avvicinò alle labbra le mani raccolte a coppa con le quali aveva preso un poco di nevischio sporco alla sua destra.

 E venne di nuovo la notte, senza riparo, ma l'alba trovò l'uomo rigido come un tronco di quercia. Era morto senza più dire una parola, però aveva gli occhi bruciati dallo scoppio di quel pomeriggio quando tutto il mondo osservò crescere nel cielo una luce più splendente del Sole e deflagrare come mille volte il più potente ordigno di tutte le guerre che avessero fino allora concepito.

 Lui si alzò. Prese su il piccolo rilevatore di onde radio ma non ebbe la forza di compiere un solo passo. Si vedeva come un punto oscuro, infinitesimo e costante, che spiccava nella vastità di quella candida pianura. Nulla collimava, la realtà non poteva essere quella eppure Lui, l'androide, ci era avviluppato. La struttura delle cose perdeva la propria consistenza, il mondo era adesso un'ipnosi maledetta dove il freddo e la luce, il buio, e la morte si estrapolavano dalla loro natura e perdevano di significato.

 Girò la testa verso oriente, lì, dove cielo e terra si saldavano a formare una freddissima amniosi eterea di vapori di ammoniaca compressa dentro giganteschi gorghi policromi di idrogeno purissimo. Più sopra, in lontananza, vide puri fuochi di metano baluginare nei substrati ed ogni punto del pianeta spalancarsi in folgori cangianti e lattiginosi di anidride carbonica. I nuclei degli elementi pesanti si erano fusi lasciando sospesi nell'aria enormi ammassi di sostanze radioattive, e i vorticosi magmi di gas attorcigliati in nubi dense obnubilavano il cielo, verniciandolo stranamente in tinte di cobalto.

 Pretese allora per un attimo di studiare l'effimera bellezza di quella visione provando a visualizzare nella sua mente sintetica una ragione più limpida e duratura che mai, per sopravvivere un po' più a lungo. S'incamminò a stento tutto mosso dalla volontà di riuscire a farcela, almeno Lui, ma dovette arrendersi quasi subito. La neve gli raggiungeva ormai le ginocchia e soprattutto si sentiva debole nonostante era cosciente che in fondo era niente più che una macchina, delle più evolute (certo lo sapeva), ma pur sempre l'artificio del suo Creatore. Per questo, si voltò a guardarlo. Ora, dell'uomo, non si delineava che una sagoma orizzontale, coperta da quella raffica di cristalli gelati, che vagamente somigliava all'essere con cui aveva trascorso la brevità della sua esistenza.

 Fu colto dalla disperazione. Si sedette sulla neve freschissima che cedette di alcuni centimetri sotto il suo peso. Aveva partecipato suo malgrado della fine della specie umana, rimuginò, alla quale lui era in debito per la forma del suo corpo e delle sue idee.

 Restò in quella posizione per un tempo indicibile, poi in un attimo si rese conto di essere ancora vivo. Tuttavia, proprio in quel momento, seppe cosa fare.

 Il minuscolo rilevatore di onde radio gracchiò per circa un minuto su una frequenza sconosciuta, forse alla riga 21 centimetri dello spettro, ma Lui non ci fece caso. Guardò per l'ultima volta il mondo esterno, percepì con i sensori gli ultimi impulsi elettrici dell'esistenza del pianeta.

 Poi tutto divenne buio. E fermo.

 Svaniva. Calmo si stava perdendo tra i flutti del suo Spirito, e moriva mentre lontano le fiamme opache dell'astro lo irradiavano nello Spazio, lento e brillante, in piccolissimi frammenti di candida luccicanza.

 Un po' alla volta vedeva l'Abisso infinito, terrificante come un mare di nera luce ma splendente, e sprofondava sotto di esso in una unione perfettamente incommensurabile con l'eterna tenebra del cosmo in cui avrebbe infine perduto se stesso per sempre.

 Se ne andava. Fluitava, solo e grandioso, dentro la materia degli atomi e moriva, distante. Si espandeva, ma ne  era ancora cosciente. Pure bastava soltanto guardare indietro un'altra volta per capire.

 Solo un altro sguardo al Principio.

 Per sapere infine chi realmente egli fosse, cosa era stato, cosa era avvenuto... per dimenticare... dimenticare

...sì, dimenticare...

                                                                               *  *  *

 Settantadue anni più tardi un piccolo e strano uccello del cielo, stridendo, volò sull'abisso ancora aperto; era una sonda automatica alla deriva nell'universo lanciata da qualche sistema extrasolare, forse dalla terza galassia di Andromeda, che riuscì a posarsi su Terra. Qui vi ristette silenziosa ed immobile nel tentativo di captare qualche segnale di natura intelligente ma i suoi delicati contatori al platino si scaricarono senza registrare nulla.

 Dopo sei mesi un tetro frangente di neve bianca si sbatté contro gli orli dei suoi apparecchi ghiacciati; poi, ogni cosa ricadde. 

Ed il gran sudario del mondo tornò a stendersi puro come si stendeva centomila anni fa.

 

 

 

 

 
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