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IL DELIRIO DELL'UOMO. Per non dimenticare l'11 settembre 2001 e la vita che perdemmo allora.

Non c'è giorno che passa in cui io non pensi a quello che è stato l'11 settembre. Doveva essere un anno quasi sacrale, il 2001: compivo 30 anni e si realizzava, in termini temporali, la profezia dell'odissea visiva di Stanley Kubrick. Invece, quell'anno, io ci persi la vita. Morii nel mio di dentro, portando su di me tutto il fardello di un lutto corale. Ipocritamente, d'altro canto, penso anche che se tutto fosse accaduto che so, a Kuala Lumpur, questo mostro oscuro proteso sull'abisso delle mie paure più intime non avrebbe poi procurato tanto dolore: ma come tutti voi, che ne siate coscienti o meno per ciò che vi riguarda, sono un clone spirituale della cultura americana e quindi quel giorno là, nel mito fondativo del moderno pensiero occidentale, io morii per la prima volta in me stesso. Sicché ancora adesso, mentre digito queste righe, ho davanti senza volerlo un'epifania di immagini che deturpano la mia sensibilità di uomo: un impiegato della Torre Nord che sporge da una finestra, forse al 90° piano del grattacielo; butta la giacca, poi si aggrappa al costolone di alluminio lucente che percorre in verticale tutta la struttura dell'edificio: intende usarlo a mo' di  scivolo, al pari di una pertica gigantesca sospesa sul vuoto. Nella disperazione cosciente, egli elabora a torto l'idea di poterci riuscire. Scivola effettivamente per qualche metro sul suo tetragono appiglio, poi però perde la presa ed incomincia a fluttuare nell'aria, precipitando all'incirca da 350 metri d'altezza. La visione della sua caduta per me si arresta a questo punto, come se fosse il fermo-immagine involontario di un film che non avrei mai voluto vedere. È orrore. L'Orrore.

Silenzio. Ora occorre solo questo. Avrei bisogno di un altro tempo; di altre parole. Avrei necessità di altre formule di concetti per spiegare il senso straziante di quel corpo morituro bloccato in volo nello spazio sospeso di un martedì qualunque, a New York City, l'11 settembre 2001. Quell'uomo che precipita, andando incontro alla morte che gli è stata destinata, annulla millenni di filosofie eudemoniche. Ogni fede, ogni liturgia, ogni preghiera svanisce nel buco nero spalancato da quelle mani che stringono l'aria come a cercare un ultimo disperato appiglio che non c'è. Io non ci vedo Dio, in quell'abbraccio fatale con l'infinita amniosi del cielo. Quell'uomo che cade è la prova ontologica dell'inesistenza di un qualsiasi nume preteso, sopra e sotto la terra. È la logica elementare del suo corpo sospeso sul nulla a far decadere ogni criterio morale, ad impedire ogni ragione ammissibile, a destorificare ogni ordine del pensiero tributato a giustificarla nella negativa spettacolarizzazione. Pur tuttavia, qualcuno sostiene che è stato il Male esterno a creare le condizioni affinché egli, come altre circa 300 persone, potesse scegliere tra due terribili alternative di morte: bruciare o precipitare.  Coloro che sostengono l'ipotesi del Male esterno non ripropongono che un paradigma inconscio del "diverso", il quale essendo escluso dall'ordine culturale condiviso, è giocoforza foriero di lutti e disgrazie. Eppure Osāma bin Lāden non era un escluso, cioè "altro" dalla civiltà americana; non di fatto un Mamurio Veturio sedimentato nel XXI secolo: egli era, ed è anzi, il prodotto sociologico di quella condivisione etica tipicamente occidentale imperniata sulle meccaniche redditizie del capitalismo petrolifero.

Osāma rappresenta ormai nel 2009 solo uno spauracchio invisibile, al-Quaeda una confraternita di "martiri" cocainomani ed alcolizzati sovvenzionati probabilmente dalla CIA attraverso il riciclaggio di denaro internazionale. Con questo non voglio alludere a nulla. Per carità, se fossi malpensante dovrei persino dubitare, al pari di Bill Kaysing, che nel 1969 Neil Armstrong pose piede sulla Luna e che, in tempi attualissimi del Belpaese, la sestina ritardataria del Superenalotto sia solo un furbo stratagemma algoritmico per conseguire ad ogni giocata un cospicua entrata extra con lo scopo di finanziare la ricostruzione dell'aquilano, dopo il terremoto. Se fossi dunque scettico fino al midollo su ogni cosa, dovrei allora sostenere che perfino l'attacco globale dell'11 settembre sia stato concepito da Richard "Dick" Cheney (nell'inglese popolare "dick" è il nomignolo del diavolo) in combutta con Donald Rumsfeld ed alcuni apparati deviati della difesa militare statunitense. Dovrei dire che le Torri Gemelle siano state fatte implodere volutamente, minando con la termite i giunti dei solidi pilastri d'acciaio del core; che non fu un Boeing a sfondare il muro del Pentagono né un altro a precipitare nei dintorni di Shanksville, in Pennsylvania. Beninteso, non voglio fare "dietrologia" ma certamente vorrei alzare la voce su una questione di fondo: e cioè, il fatto che siano emerse le teorie finanche più strampalate del "complotto interno" giustifica le zone d'ombre implicite nella versione ufficiale rilasciata dalla Commissione deputata ad indagare, presieduta da Thomas Kean. Ma ammettiamo pure che per capriccio io voglia fare l'incredulo, pensare male a guisa di un bastian contrario senza pretese, cercando maliziosamente di rinfocolare la fiamma delle verità nascoste. Solo così mi sentirei legittimato ad argomentare che non sia stato davvero il volo American Airlines 77, con una manovra aerea senz'altro impossibile per un pilota inesperto, a schiantarsi contro l'ala est del Pentagono. D'altronde, su centinaia di telecamere di sicurezza perennemente attive, a noi è toccata analizzare solo una brevissima sequenza a scatti in cui qualcosa che non è certamente un Boeing sembra sfilare veloce in orizzontale contro la parete rinforzata dell'edificio: piuttosto sembrerebbe essere, se non qualcosa-che-non-è, quello che invece dovrebbe: ovvero un drone, oppure un missile o un ordigno a cordite. Se non altro poi, quando un aereo malauguratamente precipita al suolo, pare produrre sempre una nuova Gomorra sulla faccia della terra. Invece le foto riprese dall'alto, sul luogo del presunto impatto del volo United Airlines 93 in Pennsylvania, mostrano tutto fuorché quello che per logica si dovrebbe vedere in consimili circostanze: solamente un lungo solco impresso nel suolo, senza rottami significativi, un ridicolo teatrino imbastito sotto una scura nuvolaglia effimera che sale dritta al cielo, a formare un volatile fungo immaginario.

Sono consapevole di riaffermare in parte il tritume meditativo dei cospirazionisti. Eppure, l'immagine dell'impiegato senza volto che precipita, votato oramai alla morte in un abbandono ieratico che sa di sacrificio antico, mi spinge a riconsiderare questi argomenti dubbi per non lasciare che il suo suicidio sfumi come il ricordo dei più in merito all'11 settembre. A voialtri non chiedo di pregare inutilmente un nume inesistente o distratto né di compiere ritualità di cordoglio prive del minimo senso. Io vi invito solo a ricordare, così, puramente e semplicemente. Manca ormai meno di un mese all'ottavo anniversario di questa data fatidica e le ambiguità sono ancora tante. Concludo pertanto il post ribadendo una richiesta che dovrebbe scuotere la coscienza di molti: è una delle dodici domande inserite nella petizione sottoscritta dai parenti delle vittime con lo scopo di chiarire i misteri  della tragedia: "Perché la commissione 11/9 non risponde a gran parte delle domande rivolte dai famigliari delle vittime?".

 

 
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