Creato da BeppeSantino il 25/05/2014

INTERVISTA AL VIP

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Intervista a Paolo Sorrentino l'uomo che ha riportato l'Oscar in Italia

Post n°1 pubblicato il 25 Maggio 2014 da BeppeSantino
 
Foto di BeppeSantino

La casa di Paolo Sorrentino è a Roma, all’ultimo piano di un palazzo molto “cinematografico”, dove abitano anche Matteo Garrone e un’attrice assai nota. Un palazzo d’epoca piemontese, cioè della fine dell’Ottocento, con le scale grandi e i soffitti altissimi. È quasi Natale. C’è un albero addobbato con cura, accanto ai finestroni in ferro da collegio sabaudo o austroungarico, fate voi, insomma un aspetto severo a scelta. Quando cominciamo a parlare il sole tramonta in uno di quei crepuscoli che avete visto in La grande bellezza, dove Roma si esibisce come spettacolo “in sé”, e la luce entra da ogni parte.

Ho il problema della porta d’ingresso: è stretta e io sono grasso, devo mettermi di fianco per entrare. Paolo ha un aspetto pigro, secondo me l’abbiamo strappato a una qualche “pennica” o a un libro che gli piaceva. Scusate il tu che ci daremo, altro pronome sarebbe un’ipocrisia e il “disclaimer” della conoscenza pregressa è dovuto. In questa casa ho guardato più di una partita del Napoli, una “fede” che ci accomuna.

Tu sei un regista e narratore giovane ma non ci sono giovani nei tuoi film.

«Il prossimo film che faccio ha come titolo provvisorio Il futuro. Il titolo cambierà di certo. Ma il tema è: come ci si prepara al futuro. Però è vero, non faccio film sui giovani, non ho mai voluto far film su persone che mi fossero vicine anagraficamente. Oggi che divento più “grande” forse sono pronto».

 Ma perché?

«Un po’ per formazione, per esperienza familiare, sono sempre stati gli “adulti” il mio universo di osservazione.  Poi i miei temi prediletti sono la nostalgia, la malinconia, la frequentazione del ricordo e i giovani non sono neanche così predisposti ai ricordi. Giustamente. Tutto questo mi lega al presente».

Come nasce e si realizza il tuo “processo creativo”? Visconti disegnava le scene a matita. Tu scrivi? C’è chi ricorda tue lunghe ore nell’archivio di un giornale quando preparavi Il divo.

«Per Il divo fu necessario. Ma quella preparazione fu un po’ un caso a parte. Ci fu il lavoro fatto con Peppe D’Avanzo».

In che modo collaboraste?

«In vari modi. Prima con lunghissime chiacchierate, nelle quali mi aiutò a selezionare, a orientarmi in quella produzione vastissima che è la letteratura su Giulio Andreotti. Parlavamo del potere, che cos’è il potere in Italia. E poi lui mi aprì le porte di una serie di personaggi chiave. In primo luogo Andreotti stesso, lo incontrai due volte. Furono importanti non le informazioni che mi davano le persone quanto guardarle parlare, osservare gli interstizi dei loro comportamenti. Ma insomma Il divo fa storia a sé».

E quindi il processo creativo “standard” qual è?

«Prima individuo un personaggio, più che una storia. E su quello comincio a raccogliere molti appunti, anche su cose che in apparenza non hanno attinenza immediata col personaggio. Scrivo su un grosso  quaderno. Quando il quaderno diventa corposo comincio a “fare delle rime fra le cose”, a cercare le assonanze. Sfrondo molto e pian piano la struttura dell’idea prende forma. Ma non disegno, non so disegnare.  L’altro momento importante è quando cerco i posti dove girerò. La visione dei luoghi mi aiuta a entrare nel film, a “vederlo”».

Fotografi i luoghi?

«Sì, li fotografo, di solito quelle fotografie tendono a diventare le inquadrature del film. Certo, le mie foto non sono all’altezza del lavoro del direttore della fotografia. Ma sono le inquadrature base del film, sono quelli i miei disegni».

Tu sei “anche” scrittore, la scrittura è il centro del film?

«Assolutamente. È  il centro di tutto. È anche la fase irrimediabile del lavoro. Ogni altra cosa è recuperabile e correggibile nel fare un film. La scrittura, se è fatta male, farà andare tutto male. Non la recuperi strada facendo».

E internet entra nella preparazione? Fiuto un’antipatia da parte tua verso la rete.

«Non è antipatia. Come con altre cose della vita, anche in questo caso sono in ritardo. Mi piacerebbe averci dimestichezza, ma non riesco ancora a usarla. Se faccio ricerche in quel modo, mi perdo. Ogni qual volta ho provato ad approfondire un’idea su internet sono finito in un labirinto, mi sono perso. Mentre mi trovo a mio agio con le mani. Quando raccolgo materiali di documentazione, accumulo altri quadernoni dove a ogni pagina c’è un articolo di giornale incollato, a mano. Mi è utile. Vedo le cose meglio».

C’è chi dice che perdersi è il primo passo di una ricerca, di un lavoro di scrittura…

«Nel cinema non è una buona idea quella di perdersi nei materiali. La scrittura del cinema è “a togliere”».

Tu lavori con degli scrittori. Lo fai con un lavoro “paritario” o dirigi queste persone?

«Non mi viene facile lavorare con gli scrittori. Per me il rapporto con lo scrittore si riduce essenzialmente al lavoro fatto con Umberto Contarello. Con lui mi viene facile, naturale, perché quando ero ragazzo lui mi chiamò a lavorare con sé, ci conosciamo bene».

 E come procedete?

«Il nostro processo di lavoro è semplice, appena c’è un personaggio o delle linee narrative, anche molto generiche, facciamo lunghi pranzi dove si mangia poco e si parla a lungo. Di solito questi pranzi finiscono verso le cinque, anche le sei del pomeriggio. Si chiacchiera moltissimo, in libertà, allontanandoci dal tema, poi ci torniamo sopra. Avanti e indietro. Quando pensiamo che le chiacchiere abbiano preso una loro forma definita, io scrivo una prima sceneggiatura, come se fosse quella buona. A questo punto gliela do, lui ci lavora e me la ripassa, con un ping pong che dura per molte stesure. Non ci dividiamo le scene, non è quello il metodo. Sai, io per lungo tempo ho fatto lo sceneggiatore in solitaria e questo è l’unico metodo che mi viene comodo per collaborare con un altro scrittore».

Ti interessano le serie tv?

«Mi interessano molto perché mi piacerebbe realizzarne, perché ci sono temi complessi che sarebbe semplificatorio contenere in un film. Mi interessano perché permettono una narrazione più complessa. È un territorio impervio da percorrere in Italia, perché l’unico interlocutore possibile per la produzione è Sky. Non la televisione generalista che è ancora legata al modello dello “sceneggiato”».

Una prospettiva americana, altri modi di lavorare.

«Loro, gli americani, sono più avanzati per quanto riguarda la libertà di chi fa. Libertà controllata, ma libertà nella scelta delle cose da raccontare e nel modo di raccontarle. Io ho fatto l’esperienza dello sceneggiatore per la televisione generalista in Italia».

 Cos’hai fatto?

«La Squadra. Era frustrante, c’erano condizionamenti sui contenuti, condizionamenti economici, e c’erano tanti e tali paletti che tutto ti spingeva a un appiattimento, a un prodotto senza vere ambizioni».

Niente Aaron Sorkin italiani…

«Siamo legati ancora a una televisione-melodramma, con schemi obsoleti, e che però poi fa ascolti».

La frontiera americana è anche quella del digitale. La “scrittura” risente della capacità abilitante della tecnologia?

«Nel mio caso comincio a pensarci. Finora il digitale si è un po’ identificato col mondo degli effetti speciali. A me questo non interessa. Se invece il digitale diventa detonante all’interno della narrazione, come ad esempio riesce a fare Scorsese, è diverso. La scena dei fenicotteri in La grande bellezza è un tentativo: mettere il digitale al servizio della narrazione, non  delle auto che esplodono e delle montagne che franano».

Se ti dico che il digitale è una cultura cosa mi rispondi?

«Che mi piacerebbe conoscerla. Il digitale comporta il superamento della cultura dell’artigianato. Che aveva una sua grandezza. La scena del “polpo” nel mio L’uomo in più fu girata grazie a un attrezzista geniale che muoveva i tentacoli del polpo morto con una serie di fili. E io ho pensato per anni che le cose si facessero così. Ora penso che si debba fare in un altro modo. Col direttore della fotografia può accadere che  si faccia un lavoro più frettoloso, perché sappiamo che al computer possiamo aggiustare le luci. Sul fronte dell’illuminazione del film sta molto cambiando il rapporto con il set. Poi forse la reticenza di tanti registi verso il digitale è dovuta al fatto che agli inizi si facevano cose pacchiane, con un eccesso di trucchi, si facevano affreschi affastellati senza fascino. Adesso tutti prendiamo le misure della novità».

I social non ti piacciono, vero? Hai definito Twitter una “stronzata” una volta. Però nei social hai una reputazione molto buona.

«Quella della stronzata è dovuta al fatto che su Twitter c’era uno che si spacciava per me e mi attribuiva fesserie che non avevo mai detto. Ma non ho niente in contrario, se non per ciò che sono. Io procedo per ossessioni, so che cadrei nell’ossessione, che non farei altro. È paura, non disprezzo».

Mi incuriosisce che il titolo del prossimo film  sia Il futuro. Il futuro comporta la speranza, questo è un paese che ne ha bisogno.

«È sull’ossessione del futuro, io sto sempre a far calcoli su quanto ancora vivrò, quando, spero in un tempo lontano, morirò. Sull’assottigliarsi del tempo che ci rimane».

Un rapporto ossessivo forse ce l’hai con la musica, i maligni dicono che ascolti Califano… 

«Certo che sì, Califano ha scritto tanti bei pezzi. Ma della musica ascolto tutto, tutti i generi. Forse ciò che ascolto di meno è il jazz. È una musica che per il tipo di cose che faccio io si adatta poco. Tutto il resto sì, canzonette, musica classica, folk americano…».

Una serie che ti è piaciuta particolarmente?

«Mi è piaciuta molto Mildred Pierce, ma quella è una miniserie, piaciuta tantissimo».

Se ti chiamassero i ragazzi di una startup con una bella idea, li riceveresti, saresti disposto ad ascoltare una lingua  così “straniera”?

«Prima spiegami cos’è una startup».

[Lo faccio. Ndr].

«Assolutamente sì, dovrei superare i miei limiti di comprensione. Ma lo farei senz’altro».

Ti stai rovinando, lo sai?

«Ma no…».

C’è una domanda che “devo” farti. Manca poco a un certo premio.

«Quale premio? Di che cosa stai parlando?».

 Il premio, la statuetta.

«Non so di cosa parli, ricordati che sono napoletano. Ma forse tu parli di pallone. Sì, sì. Il Napoli vincerà il campionato».

 
 
 
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