Creato da TamaraRufo il 03/07/2007
Racconti, poesie, recensioni, letteratura, arte, libri, fotografia

Area personale

 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Maggio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
    1 2 3 4 5
6 7 8 9 10 11 12
13 14 15 16 17 18 19
20 21 22 23 24 25 26
27 28 29 30 31    
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 

I miei Blog Amici

Citazioni nei Blog Amici: 1
 

Ultime visite al Blog

maaar0alemus72nicola_susiganbaronessa_rossaFatatrillySabrymarelgrazia.gazzarribagninosalinaroElanorrmariadp01crizigdragoastercs.italiapiccolastella337Jacksburonmonique.71
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

Alzheimer

Post n°34 pubblicato il 07 Ottobre 2007 da TamaraRufo
 

Era un privilegio essere accoccolato nel suo più appartato recesso, il suo letto, tra le sue lenzuola, osservando i suoi oggetti d’uso quotidiano, un senso di aspettativa pervadeva la stanza.

Ma cosa potevo aspettarmi da una perfetta sconosciuta, incontrata nientemeno che la sera prima?

La vita era sempre stata una favola strana, assurda dacché me ne ricordavo. Seguitava da anni senza particolari punti di svolta e poi all’improvviso, fluiva rapida lungo un sentiero scivoloso arrestandosi in preda a pensieri solo poco prima dichiarati inammissibili.

Non è che non l’avessi desiderato, ma era già da un po’ che la ritenevo finita, non credevo più all’avverarsi di un desiderio inesaudito. Conoscevo solo il silenzio e il silenzio, tanto lungo da portare al riposo.

E quella sera, su una strada piena di curve, all’improvviso non ricordavo più da dove fossi venuto, avevo scordato perché mi trovassi lì e cosa stessi cercando. Provai a domandare in giro, mi guardai intorno, e alla fini entrai nel portone di un grande edificio con la speranza di capire cosa si nascondesse dietro quella disattenzione, ma non ebbi successo. Senonché mentre mi allontanavo una donna mi si avvicinò con espressione pensosa. Aveva appena udito il dialogo con il portiere e mi parve preoccupata, così a modo nell’interessarsi, con un’aria imbarazzata mentre mi sorrideva. Mi raccontò che era capitato anche a lei, si era ritrovata per strada dimenticandosi dove abitava.

Quella sera l’avevano appena accompagnata, ancora teneva in mano la piccola busta della spesa mentre con l’altra stringeva al petto una borsa di pelle lavorata. Come se fosse in ansia o se temesse una qualche sciocchezza subito mi invitò a salire in casa sua e lo non nascondo, con una certa mia inconfondibile sorpresa; tanto che la mia esitazione la spinse ad aggiungere, “per favore, almeno per un momento”, indicandomi gentilmente l’ascensore che ci avrebbe condotti al piano superiore.

Mi ritrovai a seguirla notando il suo aspetto curato, affabile come le sue richieste.

“Come si chiama? Se lo ricorda?” mi disse.

“Bruno” risposi, stupito di essere lì e di udire la sua voce un’altra volta.

Le spiegai che avevo un figlio ma non sapevo come trovarlo, non ricordavo d’aver mai mandato a memoria un numero di telefono e, rammaricandomene davanti alla sua espressione, risultava che non tenessi con me nemmeno un’agendina.

“Si aggiusterà tutto, non deve preoccuparsi”, mi confortava. “Mi chiamo Vera”, mi disse.

Bevemmo un tè insieme assaggiando una torta al cioccolato e poi non so com’è che accadde, semplicemente mi addormentai. Quando riaprii gli occhi Vera era davanti a me, i capelli raccolti sulla nuca, intenta a sfogliare una rivista.

Mi scusai e mi scusai, ripetutamente, per il mio contegno inappropriato ringraziandola mentre le comunicavo con prontezza che per me era arrivato davvero il momento di andare.

Quindi Vera mi fissò assorta e in un soffio, “sarebbe bello se restasse” mi disse, “di questi tempi è così difficile trovare un po’ di buona compagnia.”

Continuavo a non capire. Cosa era accaduto quel giorno? Perché mi trovavo lì? Era da lei che sarei andato quel pomeriggio?

Mi sentivo bene tuttavia come non mi accadeva da tempo. Nonostante l’invito misterioso la mettesse a disagio, “scusatemi...” si affrettò a dire, Vera mi dava l’idea che l’avrei delusa se avessi rifiutato.

Dal canto mio per tranquillizzarla la interruppi prima che potesse finire la frase, “lei è stata incredibilmente gentile, non voglio recarle ulteriore disturbo”.

“Nessun disturbo”, proclamò, ma la sua premura ancora una volta non fu che un soffio.

Alla fine accettai, confermandole che altrimenti sarei stato nei guai poiché continuavo a non ricordare e dopotutto era già sceso il buio.

“Ci penseremo domani”, chiarì le cose, si alzò dalla poltrona e mi mostrò la stanza dove riposare.

Ero stanco. Impensierito. Non ero convinto nemmeno di essere sveglio.

Fu quando udii l’acqua scrosciare sotto la doccia che capii dove fossi, il mattino seguente, mentre gli occhi continuavano a fissare la paratia della porta con una certa ammirazione; dall’ingresso del bagno il vapore caldo stava sollevando enormi nuvole di incredibile densità.

Osservai quelle circonvoluzioni espansive a tal punto, soprappensiero, che mi sentii in imbarazzo.

Nota che la porta era socchiusa, come se fosse un invito o invece solamente l’apparenza di ciò che un tempo aveva significato l’oltrepassare un confine.

Mi domandai se il fatto non fosse dovuto ad una distrazione o piuttosto, inverosimilmente, se l’azione non fosse stata veramente intenzionale.

Vera si aspettava realmente che la raggiungessi sotto il getto caldo dell’acqua? Con incredulità me lo chiesi scivolando fuori dal viluppo del letto ancora profumato di fresco. Mi avvicinai e fu più di quanto non avessi azzardato quella notte.

Che fantasia! mi rimproverai decidendo subito per la marcia indietro. Sarebbe stato un affronto!

Ritornai nel tiepido groviglio di lenzuola quasi annaspando, incautamente, di fatto urtai una poltroncina accanto all’armadio e per un momento nel tentativo di non emettere alcun suono restai immobile.

Tra i comodini ed il comò, su uno dei due letti gemelli della sua stessa camera, pensai: “era un privilegio essere accoccolato nel suo più appartato recesso, il suo letto, tra le sue lenzuola, osservando i suoi oggetti d’uso quotidiano, un senso di aspettativa pervadeva la stanza”.

Mi vergognai dei miei pensieri, non c’era dubbio, ne era passato di tempo per contraddire la ragione.

Rimasi ad ascoltare lo scroscio dell’acqua finché d’istinto, forzatamente, con collaudata determinazione strinsi le gambe soffocando una risata rauca.

La memoria graffiava non producendo più alcun movimento… e in questa consapevolezza, a voce alta, pur sperando di non essere udito, “ah ah ah ah ah…” risi di gusto.

“E’ di buon umore, vedo.”

Finsi di non averla attesa e non la guardai, solo “… buongiorno…” dissi allegro.

Cercai il motivo per cui sorridevo con tanta insistenza ma non lo trovai, il gesto che seguì conquistò tutta la mia attenzione.

Era vestita come la sera precedente, si sedette di fronte allo specchio e prese a spazzolarsi i capelli, i suoi capelli corti di cenere, fin troppo sinuosi nella loro esile fragilità. 

Allora accadde, senza volerlo, il mio sguardo si perse sopra il suo viso e non incontrò ostacoli.

La sua fronte gocciolava ancora quando lo capii, gli occhi scavati dalle profonde rughe degli anni si erano distesi all’istante, non appena furono attratti dai suoi. Umidi, per tutto il tempo fermi nei miei, come il miraggio di una passata debolezza a dirmi che sarebbe stato ancora possibile.

Come due adolescenti privi di posizioni di attacco restavamo sempre innocenti, giovani nonostante tutto, anche se quell’anno proprio i nostri ottanta furono il momento più discusso della vecchia provincia.

Quell’anno e a dirla tutta, ancora adesso, mi racconta mio figlio.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Impulso

Post n°33 pubblicato il 06 Ottobre 2007 da TamaraRufo
 

 

Del modo in cui mi scava fitto fitto il vuoto e degli artigli a cui mi instauro con strane forme di dialogo, vorrei dire dimostrando ogni pezzo del mio corpo per cui stono, ma non c’è niente oltre il declino adesso. Non c’è niente e non c’è rimedio.

Le ferite aprono piaghe a rivestire le parole, gli approcci raccontano di muri conquistati di graffiti. Tutto è materiale in abbandono. Ed è così difficile oltrepassare la scansione dei divieti senza sbucciarsi almeno i gomiti o il fiato.

Infatti, per ogni volta che ho tentato di abbozzare una vittoria non è rimasto che quieto quieto un blocco, un’apertura immensa di immagini sopite. L’umano è stato rovesciato in lontananza con alchimie languide d’interazione e con allacci appartenenti ad accostamenti impetuosi.

Ho visto la trasfigurazione di una fuggevole sazietà. La catarsi di una metamorfosi prima della dissolvenza. Prima ancora della vasca vuota e della sua impotenza.

Una tensione indescrivibile a schiaffeggiare l’animo in attesa, precisamente, non fosse stata l’esistenza che un manipolo di carne generosa.

Un’inconsistenza incredula d’amore.

Un’insania da gestire.

E, ciononostante, un’impressione permanente torna a residuare. A convertire sia il grembo che la convinzione nell’emozione trascinante di una bellezza costretta ad ammalarsi a causa di una coscienza inadeguata.

Inadeguata.

Agli orrori del giudizio.

Una confusione annunciata e completamente antica.

Un capolavoro di morte nota che trionfa.

Giacché spontanea e allucinata posso ancora dire adesso, proprio nell’impulso si ritrova il massimo di uno slancio di realizzazione.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La confessione

Post n°32 pubblicato il 06 Ottobre 2007 da TamaraRufo
 

Nel corso degli anni avrebbe avuto molte occasioni per ripensare a come sarebbe cambiata la sua vita se avesse permesso all’autista di riaccompagnarla a casa, ma Laura non poteva certo lamentarsi per come erano andate le cose. Aveva sempre ottenuto tutti i successi sperati, la sua carriera era andata alla grande, aveva vissuto un’esistenza che si sarebbe detta serena. Non mancava proprio nulla alla donna con l’abito dal rifinito taglio sartoriale che stavo osservando. Mostrava un’eleganza cucita addosso, un’affabilità nell’incedere dei gesti riconoscibile già dall’aria con cui si rivolgeva alle persone.Solo da piccoli dettagli, nella posizione in cui mi trovavo, potevo cogliere il lamento vano della solitudine che cresceva dentro di lei.La guardavo rimanere composta, gli occhi sempre puntati sulla sua ventiquattrore, ma in tutto quell’essere perfettamente misurata emergeva come un’incongruenza il continuo mordere del labbro superiore, l’affiorare dei denti sulle labbra rosse. La capigliatura folta le incorniciava il viso rivelandone l’espressione lontana e i pensieri probabilmente sui passi del destino che si era prefissa affinché le regolassero la vita. Laura aveva sempre nascosto il suo lato introverso, essere sicura e razionale erano garanzie di successo secondo la sua visione del mondo e la vita gliela aveva dato ampiamente ragione.

Laura si era persa, per quanto la sua vita fosse allestita con una incredibile varietà di eventi bizzarri, il disordine della sua personalità continuava a muoverla dentro, girandole nel sangue, stipandole in fondo alla mente chi era davvero.

La seguii per le strade della città tenendomi sempre a debita distanza. Laura camminava talmente sicura del suo bel castello in aria che non avrebbe mai ammesso la verità della notte in cui ci separammo, dieci anni fa, quando disse all’autista che poteva andarsene tanto lei non sarebbe rientrata.

Era una calda, surriscaldata notte d’estate, il mio albergo era dietro l’angolo quando istintivamente Laura mettendo una mano nelle mie mi attirò nella hall. La situazione si presentò eccitante, era una notte bellissima e Laura sfolgorava un incontenibile ardore davanti a chiunque si fermasse a osservarla.

Quando l’ho rivista pochi mesi fa mi sembrò che non fosse cambiata, aveva la stessa aria svagata di allora, usciva dall’ingresso del grande centro commerciale e presi a seguirla.

Per settimane e settimane l’ho osservata, Laura si ostinava a fingere di divertirsi, manteneva la freddezza necessaria per restarsene lontana dal ricordo, lontana da me, lontana dall’indugio che la coscienza continuava a suggerirle.

L’ho seguita fin dove abitava, un quartiere del centro che si allineava con l’idea che il suo viso e il suo corpo intendevano far credere all’esterno: essere una donna corazzata e difficile da abbattere, una donna insidiosa nelle forme come nell’armonia nervosa con cui affrontava i pensieri.

L’ho vista giocarsi il dolore giornalmente mettendo i piedi nella cosa meravigliosa che era il mondo e le sue metamorfosi improvvise. Voleva spingersi verso la rinascita ma non riusciva, perché era sempre lei l’unico arbitro di se stessa e non poteva funzionarle.

Non avere nessuno che interferisse era solo un modo per non pensare.

Laura era riuscita ad incastrare bene le cose, era una fotografa freelance ambita sul mercato delle opere d’arte, era un’amante degli oggetti la cui natura morta non la costringeva a giustificarsi.

Aveva imparato a raccontarsela e quando mi piantai davanti alla porta di casa sua, fermandola prima che si allontanasse, lei nemmeno si ricordò di me ma il peggio era che invece  io c’ero dentro del tutto.

       Ti vedo stanca Laura.

Le dissi inchiodandola sul pianerottolo di casa senza ricevere risposta. Il silenzio le toglieva l’aria, il terrore di quell’infiltrazione nella sua vita la faceva soffrire.

       Non devi giustificarti con me Laura. Ti prometto che non me ne andrò, non ti sentirai più sola.

Si accasciò come una bambola di pezza, una costruzione malfatta che cominciò a tremare, ma io risi alla sua reazione e risi forte. Era così patetica, mi faceva rabbia, non meritava nessuna compassione.

Avevo passato gli ultimi dieci anni della mia vita in gabbia per colpa sua, a causa della sua testimonianza e di chi l’aveva aiutata a far credere a tutti che avessi ucciso io la ragazzina, quella puttanella che le faceva l’occhiolino dall’angolo della strada dietro il mio albergo.

Laura se l’era voluta portare a letto quella notte. “Ci divertiremo vedrai” aveva detto, afferrando la chiave della stanza e facendo cenno alla ragazza.

E all’inizio ci divertimmo pure ma poi l’atmosfera cambiò, ad un certo punto la ragazza volle andarsene. Voleva più soldi per tutta la notte e Laura non era d’accordo. Cercava ripetutamente di trattenerla. “Sei solo una puttana” le urlava contro, protestando ormai fuori di sé per spaventarla.

I soldi non sarebbero stati un problema ma Laura diversamente non si sarebbe accontentata. Sembrava essere diventata pazza.

La ragazza cercò più volte di sottrarsi ma Laura continuava a spintonarla lontana dalla porta, sempre più agguerrita ad averla vinta.

Ad un certo punto si mise a strillarle di stare zitta, “zitta troia! zitta!”, ed è stato allora quando tentai di fermarla che caddi a terra senza rendermene conto e Laura e la ragazza finirono sul balcone. Dopo… ricordo solo un grido disumano e la disperazione.

Credetti di sentire io il terrore del cemento.

Ecco, è così che iniziò tutto.

       Ricordi, non è vero Laura? Non va troppo male, sai? Ma non importa, non importa! Sai com’è una prigione Laura? Dieci lunghi anni, dieci fottuti lunghissimi anni… –

La sua indifferenza al pensiero di quanto avessi sofferto mi mandò in bestia.

       Ricordi i miei capelli Laura? Ricordi quanto ti piacevano? Me li hanno dovuti tagliare, sai? Dicevano che lì dentro non potevo portarli.

La donna che era di fronte a me, quella donna che aveva recitato una vita, era miserabile vedere l’orrore con cui mi guardava.

Non mostrava avvisaglia alcuna, ma sapevo che dietro quella maschera ben congegnata si nascondeva la donna che avevo conosciuto quella notte. Una furia omicida.

Mi avvicinai e ne colsi improvviso il profumo sottile, l’odore congestionato dal calore della paura, era rimasta una bella donna. Mi soffermai sul respiro, i minuti silenziosi ne scandivano il ritmo martellante mentre il suo odore di animale in trappola mi stordiva il cervello.

La vidi scuotere la testa, ancora un paio di volte, era sempre più vicina ma poi il suo sguardo svanì definitivamente dalla mia vista.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

L'involucro

Post n°31 pubblicato il 05 Ottobre 2007 da TamaraRufo
 

Ditemi dell’abbandono quando basta, con la faccia in mezzo all’erba, sedotta dalla voce di uno spazio che invade i sensi.
Ditemi del fingere quando non serve a niente, tanto la musica non tace e il cielo torno torno resta a smembrare le parole anche se solo osassi. Andare.
Andare oltre respirare.

So di chiedere melodie ad alleggerire i rigorosi battiti sprecati pronti a scorrere nel sangue, ma questo canto unico si apposta tra la vita e il varco morituro di un enigma, è l’involucro di una storia sfatta al punto da restare asciutto.
I corpi hanno ondeggiato sulle costanti del destino e spinti verso la rovina hanno mancato la sommità del volo e tuttavia, tuttavia ditemi del palpito e della sensualità ridotta a grumi tra gli intrecci consumati e i brodi di morale.
Ditemi delle confidenze incustodite divenute raggrumati adagi tra il baluardo degli sguardi e la punta delle dita lentamente concitate.
Lasciatemi ai rivoli infuriati delle lacrime, prima che mutino tra i ghiacci per incorniciare il fascino del fuoco e ditemi, ditemi l’affanno che è del corpo quando è incapace di risorgere.
La realtà è lo sbigottimento di una moltitudine di scene di malinconia, svanisce inspiegabilmente tentando di rallentare la scomparsa dell’organo inarcato tante e tante volte subentrato. E' il simulacro di un divino sbocco, davanti ad una schiena contro schiena, aspettando l’impeto intrecciato ora rimasto solamente un solitario unisono.
Un triste isolamento.
Un'estinzione al culmine di lontananza, quando il fiato è segregato per mancanza d’aria e non c’è più che lentezza e lentezza rallentata.
Lentezza inesorabile di fronte alla pietà restante di uno sgravio, di ogni residua vibrazione priva di equilibrio.
Con le braccia supplichevoli puntate dove si raccoglie l’avanzo di un afflato, e il pianto, allorché non si accovaccino  mai i giorni ma si tormentino tesi fino al bordo del sogno.
Questi giorni luminosi ed indiscreti, traditi e senza risultato.
Ditemi del grembo coraggioso che si dilunga nello spasmo con la speranza, prima o poi, di un piacere che ricada l’un nel petto dell’altro.
L’ultima grazia, l'evanescente senso, di un inesprimibile mancanza.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

In quel giardino

Post n°30 pubblicato il 31 Agosto 2007 da TamaraRufo
 

Barbara ricordava tutto, il vento possessivo tra i capelli, i gomiti premuti contro la ringhiera e il calore della fede, la fede che scivolava giù dal dito fino a scomparire.

Ma era un ricordo agrodolce rivedere ancora il pugno chiuso, la trazione della spalla mentre dava tensione al lancio e il lungo, lunghissimo volo del suo anello d’oro fino al tonfo in fondo al lago.

Quello che rimase di allora andò a stringerle un vuoto, lo stesso vuoto che aveva visto pervàdere il lago dopo il viluppo delle piccole onde.

Barbara ricordava i cerchi concentrici che erano andati ad aprirsi sempre di più sopra la superficie dell’acqua, ricordava di averli osservati dilatarsi e fermarsi come la disillusione in fondo al suo petto.

Barbara aveva sentito l’assenza avvinghiarla dentro.

Il ramo della vita si era spezzato sotto il peso disincantato degli anni e non era possibile un recupero, le restava il bruciore del tradimento.

Perché erano ormai due settimane che Madleine arrivava in casa come a ribadire con la sua presenza che avrebbe vinto.

Barbara la vedeva comparire insieme alla sua ombra nel giardino, il giardino di suo marito – il suo bel Sergio, che non aveva mai permesso a nessuno di toccarlo.

Erano sempre state di Sergio le mani in quella terra, erano sempre state sue tutte le rose e tutte le spine, suo era stato l’insegnamento nato coi virgulti.

Fu Sergio infatti a dirle un giorno che il graffio di una rosa riproduceva una richiesta di attenzione.

E Barbara aveva finito per credere che quei fiori possedessero la linfa di suo marito, la sua memoria raccolta, il gelo della sua malattia durante l’inverno e il fiore intenso della sua passione mai mancata.

Per questo non era più riuscita a sopportarlo, Barbara non era più riuscita a sopportare le mani di Madleine in quel giardino. Le sembrava che i tagli scuri dei rami sulla pelle di Madleine fossero suppliche a richiederle di non toccare.

E Barbara non poteva non ascoltare quella preghiera, era il suo stesso Sergio che si lamentava.

Barbara così decise, Madleine non avrebbe più toccato quelle rose.

Perché sapeva che l’amore per Madleine le sarebbe stato perdonato solamente se il verde del roseto fosse rimasto intatto, toccato da lei soltanto da restarle sotto le unghie. Come avrebbe voluto Sergio.

Da allora Barbara ha giurato, Madleine sarebbe stata l’ultima delle rose, sarebbe stata la spina affondata nel suo cuore malato.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963