Creato da TamaraRufo il 03/07/2007
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Io speriamo che me la cavo

Post n°39 pubblicato il 24 Novembre 2007 da TamaraRufo
 

Non è molto che sono qui. Trieste è Trieste. Non è Tobruk. Ma ci si fa l’abitudine. C’è poca roba in casa e i documenti non sono pronti, ma lo dissi ad Asad, almeno mi avesse ascoltato, l'organizzazione di Pepo ha aiutato suo cugino, ma quelli come noi non resistono a lungo nelle organizzazioni umanitarie, prima o poi devono muoversi.

Trieste è Trieste. Asad non si rassegna, il viaggio è stato lungo e qui, a Trieste, lui vuole restarci. Così si arrangia, ha chiesto un po' di prestiti in giro e adesso va forte. Per un po’ l’ho aiutato a vendere cd per la strada, poi siamo entrati in cantiere, aspettiamo i materiali e li distribuiamo, in un mese abbiamo messo insieme 600 euro. Non è molto. Ma sufficiente per pagare da dormire una stanza.

 

Quando sono arrivato, mi hanno affidato a una di quelle organizzazioni per la gente come me. Loro in qualche modo ti sistemano, prima ancora di capire dove ti trovi, loro fanno i dovuti controlli. Ti arrestano.

A me e ai miei fratelli, ci hanno presi tutti. Tranne Asad, lui va forte, è riuscito a liberarsi prima dello sbarco, buttandosi lungo la costa occidentale. Più a sud.

Asad è uno che non gli frega niente, sa come fare.

A noi altri ci hanno trattati come delinquenti, ci hanno tirato giù dal barcone con i fucili puntati. A noi che eravamo disperati e bagnati, le cerate appiccicate alla pelle, loro ci hanno detto di restare fermi.

Salehe è svenuto non appena ha toccato terra, i piedi nella sabbia molle e boom, è andato giù, ho pensato che fosse morto, finché ieri, o forse l’altro giorno, non l’ho rivisto in camerata che alzava una piccola rivolta. Chiedeva di uscire, ha roba da vendere, lui. “Che roba?” gli hanno chiesto gli uomini in divisa. “Roba mia” ha risposto, Salehe, “ho i contatti, io; uno che sta fuori di qui” diceva. Bè, si faceva capire.

A noi ci denunciano già prima di partire, in anticipo ci bloccano in mezzo alla strada, raccontano che siamo con le mani nel sacco, perché la polizia prende soldi per venirci a pescare. A noi ci cacciano, perché la polizia non vuole storie; la polizia si divide il traffico, uomini, donne e bambini.

Ma a me non frega niente, basta che esco di qui, voglio fare come Asad, scappare e mettermi in moto. Sono stanco di stare fermo. Ci so fare io, sono furbo io. Mentre sto qui, penso a mia madre prima che salissi sul barcone, ci siamo abbracciati, ho promesso di non tornare senza pensare alle necessità della famiglia. Frega niente a me, all’ignoto che ho davanti rido in faccia. Penso a mia madre e ai miei fratelli, quando sono partito mi hanno detto di andare dritto. Dovevo arrivare sulla costa, e sarebbe andata come sarebbe andata.

Agli stranieri non piacciamo noi, ci guardano nei pantaloni e ci tengono l’arma addosso. Pensavo che saremmo stati accolti, siamo partiti per trovare una vita nuova ma abbiamo trovato la guerra. La polizia ci sta addosso, infastidita dalla nostra fame e dalla nostra stanchezza, ci allontana rimandandoci a casa. “Spostati!”mi hanno detto, “puzzi di marcio”. A noi la gente ci mette contro vento.

Ho visto tanti fratelli disperarsi, nessuno sa come finirà, loro chiedono l’elemosina davanti alle auto dei carabinieri, si trascinano nella tristezza, e nessuno vede la dignità di lavare vetri a un semaforo. Pregano per la loro famiglia, spaventati per il viaggio, vorrebbero tornare indietro ma indietro non c’è nulla che li aspetta.

 
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Katie Olivas

Post n°38 pubblicato il 17 Novembre 2007 da TamaraRufo
 

Katie Olivas è un’altra affermazione della crescente alchimia tra la lowbrow art e il surrealismo pop. I richiami al mondo ludico dell’infanzia si mescolano ad aspetti carnevaleschi e noir. La realtà è reinventata e riflette più che mai la complessità moderna. Nelle illustrazioni di Katie Olivas è l’anarchia a regnare, la vita odierna è rappresentata attraverso la visione di universi molteplici, dimensioni in cui l’artista crea la propria geografia elettiva.

È un mondo delle meraviglie, carico di emotività, con atmosfere che variano nello stile e nella tensione psicoanalitica che si propongono di richiamare. Quello che accomuna è la volontà di raccontare piani della mente diversi dal reale ma insinuati da sempre nell’inconscio. Il mondo esterno diventa così un luogo surreale, imprevedibile e impervio, capace di attrarre e di respingere, una mappa su cui si confondono sublime e crudele, normalità e assurdo, rotondità e spigolature.

Il surrealismo è il pianeta dove per eccellenza il giorno e la notte si compenetrano, in una fusione di sentimenti e attitudini che richiamo regole conosciute e interpretazioni innovative. Ogni cosa ha il suo doppio, il suo contrario, fa tornare al reale ma va oltre e si perde in un paese di fantasie, dove le apparenze ingannano e gli inganni aiutano a superare le apparenze.

L’arte pop è il luogo ideale per affrontare in modo leggero le paure ancestrali che ci portiamo dietro. Le illustrazioni guidano a un viaggio onirico, gli archetipi dell’infanzia vengono riconosciuti e le aspettative della mente umana non si accontentano del quotidiano ma mostrano ciò che nascondono. Il lowbrow è quindi il movimento che accoglie coloro che vogliono rileggere la storia dell’umanità, con una morale diversa, attraverso una pittura emozionale, al contempo classica e dissacrante, senza limitarsi ad un genere specifico ma attraversando ogni ispirazione.

La pittura rispecchia pertanto il nostro tempo più contaminato. Le differenti ipotesi figurative prospettano attraverso l’illusione la plausibilità di un realismo alternativo.

Paesaggi, corpi, animali, storie, natura, oggetti, tutto assomiglia al reale, ma se ne discosta. Vengono lasciati percepire: dubbi e pericoli, atmosfere sospese, attese spasmodiche e silenziose, silenzi anormali e strani rumori in avvicinamento.

Il desiderio dell’artista, attraverso la satira espressa dai suoi bambini, è appunto quello di costruire una zona bianca e spensierata dove i bisogni di socializzazione degli adulti possano essere realizzati. Riferirsi all’infanzia è una necessità, l’innocenza rimane territorio dove niente è ancora stato alterato. Lo spettatore, confortato dalla reminescenza che gli giunge dalle illustrazioni, riesce così a ridimensionare grandi problemi sociali come la guerra e l’inquinamento ambientale.

Olivas vuole evocare una reazione nostalgica in chi osserva, evidenziando la solitudine, la paura e l’incertezza del mondo adulto rispetto alle aspettative dell’infanzia. L’artista vuole che l’alter ego dello spettatore torni a chiedersi, sensibilizzando la coscienza per mezzo di un ritorno al passato.

Ogni personaggio bambino, rappresentato da Olivas, esplora il suo mondo individuale, crea le proprie prospettive, e queste, la realtà. L’infanzia colloca lo spettatore in un spazio-tempo sospeso, cioè al momento in cui tutto ebbe iniziò, e provvede quindi a costruire prospettive di sviluppo futuro diverse da quelle che poi sono evolute. Lo spettatore ha in questo modo la possibilità di riflettere sulla realtà in cui vive.

I bambini sono piccoli adulti in un mondo ideale che si contrappone allo spettacolo apocalittico della realtà attuale.

 

 
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Il cuore vola e va

Post n°37 pubblicato il 10 Novembre 2007 da TamaraRufo
 

Lola non avrebbe voluto, ma non ha potuto farne a meno.

C'era troppo amore dentro di lei, una dimensione insostenibile che richiedeva spazio. O per lo meno un tradimento.

Lola lo ha sempre creduto, non c'è infedeltà senza amore, l'una è abbracciata all'altro come la notte al giorno. Lo raccontava spesso. "Viaggiano insieme", diceva a Umberto, "non si tradisce ciò che non si ama".

Non riesce a spiegarselo Lola, non sa perché il calore della luce non rimane a scaldarla se almeno qualche volta non si abbandona anche alle ombre dell'oscurità.

Nel buio della sua anima, nell'abisso in cui cade quando si sofferma un po’ di più, Lola si ritrova al sicuro solamente quando viene accolta. Quando viene capita nei suoi movimenti, nei suoi lineamenti, nella sua voce. Con una totalità comprensiva, soprattutto di ogni ferita. Di ogni colpo cui si consegna camminando al buio.

“Là, dove con il cuore vola e va, è difficile non sbattere" persuadeva a Umberto. "Ma dove mi sento contenuta non provo paura, non rischio di essere delusa. Non mi sento sola.”

Lola si chiedeva se Umberto avesse mai capito quanto per lei la delusione fosse un senso di colpa, un blocco davanti a una reazione della coscienza.

Sono le parole confidate a Umberto che Lola oggi è costretta a ritirare, guarda l’uomo che ha rappresentato la sua vita per quattordici anni e non lo riconosce più, non sa più chi sia.

Non sa più chi è lei.

"Devi fartene una ragione, sono limitata", scandisce Lola oggi a quell’uomo. Avanzando decisa verso Umberto dichiara quanto l'insoddisfazione abbia operato in modo clandestino, nel loro rapporto ogni tradimento le ha procurato un dolore immenso. Lola non ha conosciuto che il piacere passando dalla sofferenza. Ma il vero trauma è diventato l'inconoscibilità con cui si è rivelata a se stessa, improvvisamente, una perfetta sconosciuta impedita nel dire chi fosse il tradito e chi il traditore. Lola ancora lo ignora, mentre continua ad assistere sempre al loro malessere. Un disagio condiviso, riscontrabile. Sempre e comunque un’inquietudine.

Una negatività impossibile da nascondere.

Davanti alla rivelazione Lola ha visto finalmente aprirsi le sue acque, il pantano sentimentale che la invischiava l'ha attirata completamente sotto. È stato il momento più drammatico e ciononostante una liberazione.

Umberto l'ha guardata oltrepassandola con gli occhi, il crollo è stato devastante, una rottura imponderabile. Lola non ha detto una parola, avrebbe suonato come una giustificazione e sarebbe stato peggio. "Niente ossessiona più della scontentezza" diceva sempre a Umberto, "non è la motivazione che giustifica un comportamento, è il perdono di ciò che si è  che caratterizza la forza".

Arrivarci tuttavia è un percorso, Lola non lo ho mai negato, anzi lo affermava. "Spero sempre nella discussione, nell'affiorare dei problemi irrisolti” gridava dietro a Umberto. “È il punto critico questo, voglio vedere le conseguenze e non fingermi tre metri sopra il cielo…".

Lola avrebbe voluto che la collera non fosse un rifiuto, desiderava che il disaccordo servisse alla diversità ma non è facile, sorpassare, il perdono rimane un segno delle circostanze.

 
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Amy Sol

Post n°36 pubblicato il 04 Novembre 2007 da TamaraRufo
 

Il lavoro di Amy Sol è una particolare combinazione di stili. Dopo aver trascorso molti anni alla ricerca della giusta combinazione di colori, di toni, di mezzi espressivi che riuscissero a rappresentare il suo obiettivo, Amy connatura il suo lavoro di un mistico ed esotico senso di pace, unito alla concertazione di creature frutto della fantasia e della realtà perfettamente a loro agio nel trovarsi insieme nello spazio, in compagnia e con tranquillità. Una dimensione temporale sospesa e malinconica, popolata da animali e piante esotiche, figure femminili dalle forme delicate e lievi.

Influenzata dai manga della gioventù, dall’arte popolare, dalle illustrazioni vintage nonché dalle nuove tecniche del disegno moderno, l’artista ha attribuito alle sue creazioni una caratterizzazione completamente originale. Unica nel suo genere. I colori che avvolgono i pannelli sono tenui, accoglienti, il tratto è morbido, scaldato come per Audrey Kawasaki dalla superficie del legno - base naturale del piano di lavoro. Un lavoro intuitivo a  cui  Amy non assegna un preciso significato o un messaggio predefinito ma lascia allo spettatore la libertà di trarre dalle linee dolci e dalle atmosfere trasognate la propria soggettiva interpretazione.

Nonostante la comunanza degli elementi che abitano i dipinti, ogni opera dell’artista è viva e singolare. Le ambientazioni, cullate dai teneri colori pastello, sviluppano contesti sempre nuovi di totale armonia e amicizia. Il fantastico si fonda alla oggettività del rapportarsi umano, i confini della realtà vengono dilatati, sono intrattenuti dialoghi tra le parti creando l’incanto di un mondo misterioso e migliore.

L’anticonvenzionale è la vera sorgente di armonizzazione nelle opere di Amy Sol. La malinconia dei silenziosi incontri racchiude su fondali incantati tutto il desiderio nascosto di un mondo anelato e irraggiungibile.

C’è il vento che scuote le pensose ragazze, le lunghe ciocche di capelli sciolti, c’è il vento che scuote di vita. Mentre il movimento circostante delle creature immaginarie regala la magia di una compagnia presente e partecipe. E sono le venature del legno che naturalizzano l’impossibile, è la gamma cromatica che contraddistingue quest’artista coreana, autodidatta, generando la fonte che culla chi resta a guardare.

La grandezza surreale degli elementi, fuori ordinarietà, rende palpabile l’imminenza del bisogno di equilibrio. Di un rallentamento all’interno della società moderna, frenetica e alienante, per un’accettazione ordinata nella natura e con la natura. Un bisogno, pertanto, palese del motivo portante del lavoro di Amy Sol.

Un’artista estremo-orientale che dimostra come i recenti movimenti dell’arte, il pop-surrealismo in questo caso, non vadano sottovalutati ma debbano essere considerati in quanto espressione imprescindibile di un malessere contemporaneo e universale.

 
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Il rumore del buio

Post n°35 pubblicato il 25 Ottobre 2007 da TamaraRufo
 

Era quasi l’una del mattino quando l’orchestra smise di suonare e le luci si affievolirono. Era notte e la notte ci era stato detto di non fermarci.

Raggiungemmo la gola riarsa in prossimità della linea successiva, avremmo dovuto riunirci alla fanteria ma la sensazione fu di ritrovarci in una voragine infinita. Era deserto. Non c’era più nessuno.

Risalimmo a braccio la gola per allontanarci dalla battaglia, sfociammo in una radura e il nostro camminare guardingo non bastò ad impedire di calpestare i segni del massacro. I resti, sparpagliandosi ovunque, non ci lasciarono difesa.

La nostra compagnia era stata spazzata via, eravamo soli, dietro di noi il gran correre del nemico che risaliva la steppa.

Di fronte, un fioccare leggero ricopriva il terreno. Come piume bianche le polveri si alzavano in aria e riempivano i polmoni.

Il capitano assegnò i viveri e ci disse di sdraiarci giù, in silenzio, fino a nuovo ordine. Non si capiva bene cosa dovessimo fare, era notte ma il caldo stava rannicchiato sopra di noi. Le baionette erano puntate nel nulla, il colpo pronto in canna era tra le nostre spalle e gli zaini appena finiti di smontare.

Era notte fonda e sentivo il cuore battere forte. L’avallamento dove prendemmo posizione riportava le tracce del precedente reggimento che l’aveva occupato.

Poi qualcuno mi disse che ci avrebbero condotto fuori di lì, più a nord, avremmo trovato il terzo battaglione e saremmo arrivati alle spalle del nemico. Immaginavo già di risentire il vento della steppa, l’afa dei calanchi dove avremmo proseguito strisciando.

Mi dissero che era il 15 di Ottobre. Un’alba nuova stava sorgendo in lontananza, limpida e chiara, quando la terra fu bagnata di sangue e orina.

L’avallamento in cui parlavamo sottovoce fu invaso dallo scoppio di un mortaio. Il cielo si illuminò di rosso e per un momento non si distinse che il silenzio. Poi ci furono soltanto urla e l’abisso del buio. Un versante dell’avallo saltò in aria.

La squadra dei mitraglieri si aprì la strada ma sparì subito al suono delle fucilate troppo vicine. Una chimica dura ci ferì il viso. Odore di fumo. Denso e acre. Sapore di terra e sangue.

Urla unite alla gioia abbagliante di sentire la fine all’improvviso.

Forse, “coraggio”, udii una voce. Poi più nulla, l’orchestra smise di suonare e le luci si affievolirono.

Fino ad oggi, certi ricordi non vogliono uscire dal coma.

 
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