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ESTATE 19......

Post n°13 pubblicato il 14 Marzo 2011 da beskersi
Foto di beskersi

 

 

Come ho già scritto, l’estate vivevo per  quattro cinque mesi sull’Appennino dove mio Padre produceva carbone. Giornalmente il mio compito principale era quello di attingere acqua fresca, per i bisogni, alle sorgenti più vicine, ma avevo anche un altro impegno che mio Padre mi aveva insegnato.

Durante la lavorazione “cuocevano” , scaglionate in tempi di cottura diversi, tre o quattro carbonaie contemporaneamente, quindi  tutti i giorni dovevano essere sorvegliate perché tutto funzionasse come di dovere.

“Vedi” mi diceva il mio babbo, “la carbonaia ha la forma di un cono e “cuocendo”, piano, piano, quando la legna si trasforma in carbone, “crolla su se stessa”, ma deve farlo in modo uniforme, a volte un vento insistente nella stessa direzione può accelerare la cottura da quella parte e quindi dobbiamo rimediare”. “In questi casi” continuava  “noi andiamo dalla parte opposta e pratichiamo dei fori sul rivestimento della carbonaia”, come era intelligente il mio babbo. Si perché una volta ultimata la sistemazione della legna, per un’altezza di un metro veniva praticato un rivestimento di “piote”, nel perimetro circolare basso, e di lì in su, dato che il cono della carbonaia perdeva la sua verticalità, il legname veniva coperto con  la “pastriccia”, che consisteva in un misto di foglie, terra e altri piccoli arbusti. Come dicevo venivano praticai dei fori con un arnese chiamato “cavicchio”, “per dare aria”,e  accelerare la “cottura” anche da quella parte.  Il cavicchio non era altro che un pezzo di legno lungo circa 50 o 60 centimetri e 5 di diametro e adeguatamente appuntito.

 Mi piaceva praticare quei fori, il fumo usciva immediatamente con vigore col suo colore azzurrognolo, e il suo aspro odore di legna e terra umida bruciata mi riempiva piacevolmente i polmoni, sembrava che quel fumo aspettasse con ansia di uscire e salire verso il cielo perché per troppo tempo represso; cosi compensata, la carbonaia riprendeva la sua “cottura” in modo uniforme.

Poteva anche capitare che per varie ragioni la terra che copriva la carbonaia scivolasse all’interno, scoprendo la legna la quale,  ovviamente, fiammeggiando si trasformava poi in cenere,  anzichè  diventare prezioso carbone. A quel punto dovevo correre, e grazie a Dio potevo farlo, e informare il mio babbo che interveniva riparando con maestria il mal fatto, era proprio intelligente mio Padre. Mentre procedeva alla riparazione dell’inconveniente, cercava di spiegarmi  come doveva avvenire la trasformazione della legna in carbone, “guai se lagna bruciasse a viva fiamma,” sentenziava “ deve farlo, ma  con scarsa ossigenazione…”e proseguiva la sua dettagliata spiegazione, l’argomento però non mi interessava  e quindi la mia mente pensava piuttosto  a come fare per aumentare la gittata della mia rudimentale catapulta,  dalla quale da un po’ di tempo, non riuscivo ad ottenere progressi; però non potevo fare a meno di ripetermi che il mio babbo era propri intelligente. Ora lo so, era un termine improprio, ma allora io sapevo bene cosa voleva significare.

Così ogni giorno, poco dopo il pranzo, mio Padre andava presso la pianta dove aveva appeso il suo corpetto e da una delle tasche dello stesso toglieva il suo orologio, di cui era orgoglioso, controllava l’ora e poi mi chiedeva di andare a fare il controllo di cui sopra.

Mi sentivo importante e lo facevo di buon grado; iniziavo la verifica dalla più vicina, la guardavo col fare di persona  competente e quindi passavo all’altra. Quel giorno non notai nessuna anomalia,niente disturbava la regolare cottura delle carbonaie, Il fumo saliva lentamente e in modo uniforme verso il cielo, io stesso potevo percorrere la loro circonferenza, per una più dettagliata verifica, senza dovermi difendere dal fumo  che a volte il vento respingeva verso il basso disturbando la mia respirazione; guardavo quei “mostri” di grandezza e mi sentivo piccolo, piccolo ma orgoglioso di poterli gestire. Giunsi all’ultima carbonaia che stava poco sotto il crinale dell’Appennino. Era una giornata torrida mi misi seduto sotto una fresca “caspa” di faggio, giocando con la mia rudimentale catapulta da me “inventata”, quando sentii il caratteristico e da me ben conosciuto grido, “mio”, “mio”,”mio”, suono tra la pronuncia dell’aggettivo possessivo mio e il miagolare di un piccolo gatto. Per me quell’uccello che volava sopra la mia testa era un’Aquila, perché così la chiamavo con i miei amici. L’uccello volteggiò a lungo compiendo larghi cerchi, finchè si fermò immobile nel cielo, come farà, pensavo mentre mi ero disteso su soffici foglie secche. All’improvviso, come colpito a morte, l’uccello chiuse le ali e precipitò verso il suolo sparendo dietro le piante. Passarono pochi secondi e lo rividi salire con forti battiti di ali e tra gli artigli teneva l’inconfondibile sagoma di un rettile, lanciò ancora il suo inconfondibile grido e volò certamente verso il suo nido.      

Quel giorno i suoi “aquilotti” avrebbero fatto un buon pasto.

         

 
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