RICORDI FLASH

Post n°12 pubblicato il 04 Febbraio 2011 da beskersi
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         Era Autunno inoltrato, pioveva, la nebbia copriva le cime più alte dei monti che circondano il mio paese. Il caminetto ardeva e l’acqua nel paiolo che pendeva nel camino, gorgogliando, ci faceva capire che era tempo di preparare il pranzo. La mia Mamma, seduta vicino alla finestra, stava  “rattoppando” gli abiti da lavoro del babbo e quelli di noi bambini; con mani esperte faceva  scorrere velocemente il tessuto degli abiti sotto il “piedino” della sua Singer.           

      Io Le sedevo accanto e nei momenti opportuni, facevo scorrere, sull’asta millimetrata dipinta sulla base della macchina per cucire e nella quale individuavo un lungo binario,  un pezzetto di legno con una piccola protuberanza su un lato e in quella forma “vedevo” una patente macchina a vapore, proprio come quelle che sbuffando passavano  davanti alla mia finestra;  figlie dei loro inventori, il francese Papin, il britannico Newcomen e dello scozzese Watt.            

     Fuori la pioggia cadeva insistente, mi rammaricavo un po’ perché non avrei potuto incontrare i miei amici; poi la pioggia pian piano si trasformò in neve, mi piaceva molto vedere cadere la neve  e così esclamai: ”Mamma nevica!”, mia Madre alzò lo sguardo e non sembrò felice anzi, e riprendendo a cucire esclamò: ”e poveri  noi come faremo a passare l’inverno”.             

      Certo che gli inverni, particolarmente in montagna, erano lunghi e le provviste non erano  così abbondanti e a volte anche  la legna da ardere scarseggiava; Una cassa di farina dolce, una di quella di gran turco, un pò di marroni, fagioli, patate e poco altro, provviste che non ci mettevano  al sicuro da qualche rinuncia. Notai, poi, che il volto di mia Madre, effettivamente esprimeva  preoccupazione, e un bimbo di 6 o 7 anni, come me, non poteva esser felice nel  vedere la propria mamma preoccupata. Mia Madre si accorse del mio turbamento e cercò di tranquillizzarmi dicendo:  “Non preoccuparti, Bertino,  penserà a tutto il babbo”, riprese a cucire e il suo volto riapparve sereno e anche in me tornò  il buon umore.          

     Nevicava ancora  copiosamente, mia mamma fece una pausa, andò  al paiolo, dove  mise  gli ingredienti che quel giorno avrebbero costituito il pranzo per la famiglia, e così  io potei riprendere liberamente a far scorrere il mio pezzetto di legno sull’asta millimetrata della Singer, sognando sbuffi e sibili di vapore e il classico “ciuff,ciuff, ciuff” della mia potente locomotiva, seminascosta in una nuvola bianca!.

 
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ESTATE 19......

Post n°13 pubblicato il 14 Marzo 2011 da beskersi
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Come ho già scritto, l’estate vivevo per  quattro cinque mesi sull’Appennino dove mio Padre produceva carbone. Giornalmente il mio compito principale era quello di attingere acqua fresca, per i bisogni, alle sorgenti più vicine, ma avevo anche un altro impegno che mio Padre mi aveva insegnato.

Durante la lavorazione “cuocevano” , scaglionate in tempi di cottura diversi, tre o quattro carbonaie contemporaneamente, quindi  tutti i giorni dovevano essere sorvegliate perché tutto funzionasse come di dovere.

“Vedi” mi diceva il mio babbo, “la carbonaia ha la forma di un cono e “cuocendo”, piano, piano, quando la legna si trasforma in carbone, “crolla su se stessa”, ma deve farlo in modo uniforme, a volte un vento insistente nella stessa direzione può accelerare la cottura da quella parte e quindi dobbiamo rimediare”. “In questi casi” continuava  “noi andiamo dalla parte opposta e pratichiamo dei fori sul rivestimento della carbonaia”, come era intelligente il mio babbo. Si perché una volta ultimata la sistemazione della legna, per un’altezza di un metro veniva praticato un rivestimento di “piote”, nel perimetro circolare basso, e di lì in su, dato che il cono della carbonaia perdeva la sua verticalità, il legname veniva coperto con  la “pastriccia”, che consisteva in un misto di foglie, terra e altri piccoli arbusti. Come dicevo venivano praticai dei fori con un arnese chiamato “cavicchio”, “per dare aria”,e  accelerare la “cottura” anche da quella parte.  Il cavicchio non era altro che un pezzo di legno lungo circa 50 o 60 centimetri e 5 di diametro e adeguatamente appuntito.

 Mi piaceva praticare quei fori, il fumo usciva immediatamente con vigore col suo colore azzurrognolo, e il suo aspro odore di legna e terra umida bruciata mi riempiva piacevolmente i polmoni, sembrava che quel fumo aspettasse con ansia di uscire e salire verso il cielo perché per troppo tempo represso; cosi compensata, la carbonaia riprendeva la sua “cottura” in modo uniforme.

Poteva anche capitare che per varie ragioni la terra che copriva la carbonaia scivolasse all’interno, scoprendo la legna la quale,  ovviamente, fiammeggiando si trasformava poi in cenere,  anzichè  diventare prezioso carbone. A quel punto dovevo correre, e grazie a Dio potevo farlo, e informare il mio babbo che interveniva riparando con maestria il mal fatto, era proprio intelligente mio Padre. Mentre procedeva alla riparazione dell’inconveniente, cercava di spiegarmi  come doveva avvenire la trasformazione della legna in carbone, “guai se lagna bruciasse a viva fiamma,” sentenziava “ deve farlo, ma  con scarsa ossigenazione…”e proseguiva la sua dettagliata spiegazione, l’argomento però non mi interessava  e quindi la mia mente pensava piuttosto  a come fare per aumentare la gittata della mia rudimentale catapulta,  dalla quale da un po’ di tempo, non riuscivo ad ottenere progressi; però non potevo fare a meno di ripetermi che il mio babbo era propri intelligente. Ora lo so, era un termine improprio, ma allora io sapevo bene cosa voleva significare.

Così ogni giorno, poco dopo il pranzo, mio Padre andava presso la pianta dove aveva appeso il suo corpetto e da una delle tasche dello stesso toglieva il suo orologio, di cui era orgoglioso, controllava l’ora e poi mi chiedeva di andare a fare il controllo di cui sopra.

Mi sentivo importante e lo facevo di buon grado; iniziavo la verifica dalla più vicina, la guardavo col fare di persona  competente e quindi passavo all’altra. Quel giorno non notai nessuna anomalia,niente disturbava la regolare cottura delle carbonaie, Il fumo saliva lentamente e in modo uniforme verso il cielo, io stesso potevo percorrere la loro circonferenza, per una più dettagliata verifica, senza dovermi difendere dal fumo  che a volte il vento respingeva verso il basso disturbando la mia respirazione; guardavo quei “mostri” di grandezza e mi sentivo piccolo, piccolo ma orgoglioso di poterli gestire. Giunsi all’ultima carbonaia che stava poco sotto il crinale dell’Appennino. Era una giornata torrida mi misi seduto sotto una fresca “caspa” di faggio, giocando con la mia rudimentale catapulta da me “inventata”, quando sentii il caratteristico e da me ben conosciuto grido, “mio”, “mio”,”mio”, suono tra la pronuncia dell’aggettivo possessivo mio e il miagolare di un piccolo gatto. Per me quell’uccello che volava sopra la mia testa era un’Aquila, perché così la chiamavo con i miei amici. L’uccello volteggiò a lungo compiendo larghi cerchi, finchè si fermò immobile nel cielo, come farà, pensavo mentre mi ero disteso su soffici foglie secche. All’improvviso, come colpito a morte, l’uccello chiuse le ali e precipitò verso il suolo sparendo dietro le piante. Passarono pochi secondi e lo rividi salire con forti battiti di ali e tra gli artigli teneva l’inconfondibile sagoma di un rettile, lanciò ancora il suo inconfondibile grido e volò certamente verso il suo nido.      

Quel giorno i suoi “aquilotti” avrebbero fatto un buon pasto.

         

 
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I sentieri del Paradiso

Post n°14 pubblicato il 29 Luglio 2011 da beskersi
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….ogni sera, prima di prendere sonno, esamino gli avvenimenti della mia giornata per accertarmi di non aver compiuto azioni offensive o che in qualche modo possano aver causato danni al prossimo, e  ciò per godermi un sonno ristoratore.

                Stamattina mi sono alzato un poco inquieto. Data la mia età mi domando spesso quanto ancora mi resta da vivere e non posso negare che la vecchiaia mi fa paura. I segni sono già evidenti, e lasciare questo mondo, anche se così distratto verso l’uomo in tutti i sensi non dà allegria, e quando ho momenti di tristezza il mio aiuto sono i ricordi della mia infanzia, ed è lì che mi rifugerò.

Quello di oggi consisterà nel ripercorrere “ I sentieri del Paradiso” e che sono quei sentieri che mille volte ho percorsi e che mille volte mi hanno dato e mi danno nuove e piacevoli sensazioni e che mille volte vorrei ancora percorrere. Mah, qualcuno potrà storcere la bocca, ma sono fatti miei.

Mi vesto in modo adeguato per una escursione in montagna, aspetto che la macchina del caffè gorgogli e lasci cadere il suo prodotto, mi gusto il caffè accompagnato da un biscotto e indossato lo zaino e presa la mia “giannetta di corniolo” mi incammino: il mio setter, come fa ogni mattina, mi ha già manifestata la sua disinteressata gioia, indipendentemente che possa portarlo con me o meno; oggi non potrò farlo.

                Apro la porta di casa mentre una palla di fuoco, il sole, facendosi largo sul crinale tra i tronchi del bosco di faggio mi manda un piacevole calore e l’aria del mattino, come un sapiente massaggio, mi dà vigore e voglia di libertà. Attraverso le limpide acque del fiume e il sentiero inizia a salire: quante volte l’ho percorso!.

L’ungo il viottolo, in un punto sassoso e ben scoperto, noto un piccolo serpente dalla forma strana, la vista non è più acuta, quindi mi avvicino e mi accorgo che il rettile  tiene in bocca una lucertola e tenta di ingoiarla,  la stessa si dibatte per sfuggirgli. Non ho dubbi tocco il rettile col bastone e lo stesso allenta la presa, la lucertola ne approfitta fuggendo “a coda levata”, il rettile si allontana lentamente infastidito. Sorrido e proseguo.

 Arrivo in breve nelle prossimità di un grande prato verde, dove spesso trovo Bovini al pascolo, questa mattina non ci sono, il mio sguardo percorre il suo perimetro e su vicino al bosco un capriolo mi guarda con sospetto, mi muovo e lui con quattro salti è già dentro il bosco e invisibile.

                Qualche giorno fa guardavo un video da me girato almeno 5 o 6 anni fa ad un gruppo di bovini al pascolo, mi siedo lì da dove avevo prese quelle immagini e ripercorro quelle scene. Rivedo quella mucca pascolare che col suo ritmico movimento della testa dal basso verso l’alto per brucava l’erba e il ritmico movimento dava modo al suo campanaccio di diffondere un suono grave e piacevole. Un altro bovino poco distante faceva rintoccare il suo, e i due suoni perfettamente complementari col sottofondo di qualche cinguettio, diffondevano pace. Poi la cinepresa zumò verso un boschetto dirimpetto dove i primi colori autunnali e in particolare quelli  dei ciliegi, macchiavano di un rosso ruggine il verde dei faggi, riproducendo un quadro variopinto che solo la natura sa comporre.

Le immagini continuavano attardandosi sui crinali dei monti più vicini, per cogliere giochi di luce creati dalle prime luci dell’alba e quelli di bianchissime nuvole, nei cui contorni si potevano “vedere” figure o scene incredibilmente originali. Le immagini poi scendevano lungo la dorsale della montagna, passavano sopra il paese, si allontanavano verso più ampie distanze, quindi sfioravano la Crocetta, mitico luogo di gioco di tutti i ragazzi e di tutte le epoche del paese. Infine l’immagine  rientrava sul grand’angolo e si posava su una pianta di rosa canina, i cui ultimi petali delle roselline, dai colori tenui di un bianco/violaceo, ma oramai squalciti stavano per abbandonare definitivamente la pianta e così facevano bella mostra le sue rosse bacche e la scena sarebbe finita lì se quella mucca col suo ritmico movimento della testo e il suono del suo campanaccio non avesse riempito lo schermo, fermandosi proprio al di là della pianta,convincendomi ad allungare la scena.

                                Riprendo il percorso da me scelto e risalgo verso le cime dell’Appennino, accompagnato dai miei ricordi. Salgo lungo un percorso tra noccioli dove il sole non può penetrare, poi mi avvicino ad una abetaia, la attraverso respirando a pieni polmoni il profumo della resina prodotta dagli abeti, passo vicino ad un casolare oramai abbandonato, ma dove sono ancora evidenti i segni di trascorsa vita umana, e dove il sentiero svolta a sinistra e porta diretto ad una sorgente ancora in uso, posso consumare un sandwich e dissetarmi. Davanti a me, l’orologio di un classico campanile a guglia, tipico dei pesi montani, scandisce le ore,in un casolare più giù il cane pastore di Ubaldino col suo bonario “bu”, “bu” “bu”, spinge le pecore al pascolo.

                Sono, ora, sul crinale dove un immenso prato è illuminato dal sole, i suoi tiepidi raggi  e la delicata brezza sono un compendio impagabile.

Guardo l’orologio, è ora di rientrare, scendo verso casa.

Giunto oramai vicino al paese prendo una scorciatoia che però per il poco uso che ne viene fatto attualmente, è stata invasa dalla vegetazione. Sposto un ramo che mi reca intralcio e davanti al mio viso vedo un topolini immobile  su un ramo spoglio di un ginepro, sorpreso mi chiedo come non possa essersi accorto della mia presenza. Passano pochi attimi  e a meno di quindici venti centimetri, un Biacco sta guardando fisso la sua preda, oramai ipnotizzata. E’ un rettile adulto e dai colori che bene si mimetizzano con l’ambiente.

Non ho dubbi tocco  il rettile che lentamente scende dal tronco e sparisce tra la vegetazione, anche il topolino liberato dall’ipnosi si dilegua velocemente, come la lucertola, “a coda levata!”. Sorrido e proseguo verso casa.

Anche quella sera prima di prendere sonno, ripassai in rassegna le azioni della giornata,  pensai ai miei sentieri che idealmente mi portano in Paradiso, a quella lucertola e a quel topolino a cui avevo salvata la vita e sorrisi, ma un’ombra ridimensionò il mio buon umore pensando che quei due rettili avevano saltato il pranzo.

Incornicio anche questa bella giornata passata lungo i miei sentieri accompagnato dai miei ricordi e dai molteplici rumori, sempre spiegabili, del silenzioso bosco.

 
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Paleo e Pelo

Post n°15 pubblicato il 08 Settembre 2011 da beskersi
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Stavo con Giorgio davanti al “pozzone”, così chiamavamo il punto in cui il nostro fiume, vicino al muraglione della strada, formava una pozza. Ci stavamo chiedendo se quella pozza che noi chiamavamo “Pozzone” era ancora delle dimensioni di allora!…. Forse a quei tempi ragazzi di 10-12 anni ci sembrava più grande per il rapporto  tra la nostra statura con le dimensione della  pozza stessa..         

“Ti ricordi” mi diceva Giorgio “quella volta che…”,”eh se me ne ricordo” confermavo io, e giù risate rammentando quella ennesima ragazzata.

            Intanto si erano uniti altri amici e tutti avevano ricordi lucidissimi da raccontare, ricordava Franco:

quando ero in età scolare “presi” la pertosse(tosse canina) e il dottore, come era costume allora,diagnosticò: “il ragazzo deve cambiare aria”. Mia madre  possedeva un  podere sugli 800-1000 metri e fu lì che mi portò. C’era in quella famiglia un ragazzo più o meno della mia età e facemmo subito amicizia. Lo chiamavano Paleo e aveva un cagnolino di nome Pelo. Il nome Paleo era derivato probabilmente dall’aspetto del suo fisico, “asciutto”, “segaligno” scuro in viso per la sua continua esposizione al sole e al vento, ma forte, scaltro, agilissimo, pronto ad ogni evenienza, infaticabile, un pò appunto come quell’erba foraggera, chiamata paleo, che nasce e vive anche su terreni aridi e poveri di risorse. Ovvio il nome del cane, con tutto quel pelo sugli occhi, mi chiedevo come potesse vederci, invece sempre attento fissava incessantemente  Paleo, pronto ad eseguire gli ordini del suo padroncino fatti anche di soli cenni.

            La mamma di Paleo, anche per aggraziarsi le simpatie di mia madre, ci preparava cibi ottimi cucinandoci polli , conigli o piccioni, spoglia “spenta d’uova”e dava a noi quel ben di Dio mentre a Pelo toccava “l’intingolo” riservato a tutta la famiglia. Ricordo che io pensavo: “si vede che a loro questo tipo di cibo è venuto a noia, forse lo mangiavano spesso!”

            I primi tempi che parlavo con il mio amico, lui usava dei termini che io non conoscevo: “Il magolo”, “i campi sodi”, “La vaccina”, ”Il vomero” , “il marraccio”, “la striglia”, “i finimenti”ecc. Vista la mia incertezza Paleo mi spiegava  tutti quei significati, ma io preferivo mi dimostrasse come riusciva, con trappole ingegnose, a catturare piccoli uccelli, rettili, conigli selvatici ed altri piccoli animaletti. Ma non era molto il tempo che passavamo assieme perché i suoi impegni erano davvero tanti.” Giovanni”,  lo chiamava la mamma, era l’unica a chiamarlo col suo nome di battesimo,” ha poppato il vitellino”,”Giovanni hai abbeverata la mucca” ,” Giovanni le pecore sono rientrate tutte?”,” porta un po’ di fieno anche al ciuco”,” le galline le hai chiuse? altrimenti sai che festa per la volpe stanotte”; “si mamma ho già fatto tutto” rispondeva Giovanni. Arrivava poi l’ora di cena, ancora distintamente il vitto era diverso e ancora pensavo che il tutto fosse per una questione di assuefazione al solito cibo, invece!

Un giorno scoppiò un temporale con vento e grandine e io, sotto la loggia, ero in trepida attesa di Paleo, magari tornava tutto bagnato e spaventato e io avrei potuto offrirgli il mio aiuto, invece arrivò bello e asciutto col suo gregge di pecore belanti, come avrà fatto?. Pelo  lo seguiva allegro e sempre attento ai gesti del suo padroncino,  le pecore rientrarono nell’ovile offrendo le proprie mammelle per la cena ai propri agnellini. Nella impazienza della poppata alcuni agnellini si buttarono sulla prima mammella che gli capitava, ma ogni pecora avrebbe allattato soltanto il suo “pargolo”; io incantato seguivo Paleo che afferrava senza errori quegli animaletti incerti e chiamando per nome la loro madre glielo affidava, con  incredibile destrezza.

 Non potei fare ameno di pensare che si io ero certamente più colto di lui?, Paleo frequentava poco la scuola perché distante e occupatissimo ad aiutare nei lavori la propria famiglia, certamente io sapevo quando era nato Garibaldi, conoscevo la storia dei Mille, e quanto altro, ma in caso di calamità o difficoltà di qualunque tipo fosse, la sua “cultura” sarebbe stata certamente ben più utile e determinante della mia. Dopo due mesi tornai a casa guarito!.

 

 
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Ricordi e considerazioni

Post n°16 pubblicato il 24 Novembre 2011 da beskersi
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 L’incubo. La mia infanzia è stata felicissima, ma non poteva mancare qualche (piccolo!) “buco nero”, e così è stato.

                Negli anni 40 anche per noi ragazzi le ristrettezze furono molte, e tra queste anche quella di non possedere giocattoli degni di questo nome. Così con gli amici, di volta, in volta, ci dovevamo inventare il modo di giocare e passare il tempo assieme.

Uno dei giochi, se così si può  chiamare, era quello  di attraversare le fogne del paese, sì era proprio così; entrare in una fogna e uscire dalla parte opposta era  un motivo di vanto e la possibilità di “incantare” gli amici più piccoli, adducendo motivi vari di difficoltà per guadagnarne la loro ammirazione.

Una delle ultime fogne ad essere “violata” fu quella del Carbonile. Il Carbonile, era un fabbricato dove venivano stivate in deposito e per qualche tempo, le balle di carbone prodotto nella zona; intorno allo stesso fabbricato era stata costruita una fogna di scolo che raccoglieva le acque che scendevano dalla collina soprastante, per evitare che le stesse si infiltrassero entro il deposito.

Se quella fogna non era stata ancora violata, un motivo doveva esserci; oramai esperti giudicavamo le molte e oggettive difficoltà a percorrerla. Il percorso della fogna in questione, dopo una quindicina di metri, faceva un angolo retto e quindi proseguiva parallela al fabbricato e  alla collina per altri trenta/quaranta metri. Quel giorno, assieme a qualche altro amico, decidemmo che era giunto il momento di tentare la perlustrazione anche di quel cunicolo sotterraneo.

Stabilito che dovevo essere io il capofila, mi immisi entro lo stretto “budello”, incominciando a strisciare come un lombrico, seguito appunto da altri amici. Ripeto che il cunicolo era estremamente stretto e procedendo, come suol dirsi a gattoni, percorremmo il primo tratto, superammo l’angolo retto e proseguimmo. Ero il capofila e già avevo comunicato agli amici che vedevo ben chiara la luce dell’uscita, quando urtai un sasso  malfermo nel muro a retta della fogna, questo cadde e ostruì il passaggio. Non potendo riparare il danno per le ristrettezze in cui mi potevo muovere, comunicai ai miei amici che non potevamo procedere oltre e che quindi dovevamo tornare in dietro. “Ma non possiamo farlo!” mi strillarono,” come possiamo tornare in dietro e superare l’angolo retto!”. Sembravano decisi e convinti di quello che affermavano, e anche a me sembrò difficile se non impossibile “rinculare”, almeno non senza grandi difficoltà. Improvvisamente ebbi l’impressione  di non avere aria abbastanza, il mio corpo poteva  compiere solo pochi e contenuti movimenti, sgomento sentivo i miei amici che imprecavano l’un, l’altro e in chiara difficoltà: Fu il panico! . Dio volle che uscissimo da quella trappola, ma davvero non so dire come!.

 Fu un’esperienza traumatica a tal punto che ancora oggi dopo 70 anni ne subisco le conseguenze: con incubi notturni!.

Avrei mille sogni/incubo da descrivere, ora strani, ora curiosi, ora paurosi, ma alla fine  al centro di ogn’uno di essi c’è l’impossibilità di muovermi,  oppure costretto ad uscire o accedere attraverso passaggi angusti e impossibili da superare, al che rimango lì a soffrire e a lamentarmi fino a quando qualche familiare mi sveglia. E’ tanta la sofferenza che più volte, in tanti anni, mi sono chiesto ”possibile non ci sia un rimedio!"; a più riprese ho pensato, “ma perché non posso ripetermi, non preoccuparti, è solo un sogno!”, una soluzione semplice! Magari!  Nell’episodio successivo mentre, impotente, subisco le difficoltà del momento mi dico “ Eh!, purtroppo non è un sogno, ma  realtà!” e la sofferenza proseguiva fino al risveglio.   

                Poi la guerra!, il mio paese messo a ferro e fuoco dai nazisti, comminare tra soldati pieni di odio dalle maniere paurosamente aggressive, prigioniero davanti ad armi spianate assieme a tutti i paesani per giorni, il fronte che si avvicina, le cannonate che cadevano poco distanti e potrei proseguire, hanno contribuito a variare ma anche a rinvigorire questi miei incubi che continuano ancora oggi a tormentarmi.

                  L’ultimo!: poche notti fa scendevo lungo le poche ma fresche acque del mio fiume, come facevo nei giorni estivi quasi ogni giorno con i miei amici, quando posando il piede in una pozzanghera, mi sono accorto di sprofondare. I miei amici continuavano il loro cammino certi che li avrei raggiunti appena avessi voluto. Sentendomi imprigionare, cominciai a dibattermi per uscire da quella situazione, ma invano. Sentivo quella melma vischiosa sempre più appiccicosa aderire  perfettamente a tutto il mio corpo e trattenerlo e come aiutata da migliaia di piccole ventose, trascinarmi sempre più giù, risucchiandomi nel suo morbido ”ventre”, come una preda ambita e attesa da tempo, per saziare la sua voracità; intanto alla sua sommità la melma stessa, oramai, mi impediva il respiro. Urlavo e chiamavo invano, nessuno mi sentiva. Anche in questo caso avevo la soluzione, bastava che mi fossi svegliato, semplice no?, magari! Eppure mi dibattevo ma una forza sconosciuta mi teneva immobile e oppresso, percepivo chiaramente di essere nel letto ma le mie braccia e il mio corpo non si muovevano nonostante i miei sforzi, urlavo perché sapevo che qualche familiare avrebbe potuto svegliarmi e tutto sarebbe finito, ma invano!, con un ultimo sforzo, forse spinto dal malessere che avevo addosso e la convinzione  che soltanto il risveglio poteva liberarmi da quell’angoscia, riuscii a scuotermi decisamente; Alla fine mi trovai sul pavimento della camera dolorante, ma sveglio!

 
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