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Post N° 35

Post n°35 pubblicato il 30 Settembre 2008 da TizianaSegalini

L’economista della Bocconi analizza un sistema disastroso. E spiega quali sono i rimedi
La prof che non pubblicò una riga
Università malata. La denuncia di Roberto Perotti: clientelismo e sprechi

 

Il bello del calcio è che, qualche volta, può accadere
l’impossibile: la Corea del Nord che batte l’Italia, l’Algeria che
batte la Germania, Israele che batte la Russia. Il brutto
dell’università italiana è che troppo spesso accade l’impossibile. Come
all’Università di Bari, dove un concorso del 2002 dichiarò idonea alla
cattedra l’aspirante docente Fabrizia Lapecorella, che aveva zero
pubblicazioni nelle quattro categorie delle 160 riviste più importanti
del mondo, zero nelle prime venti riviste italiane, zero in tutte le
altre, zero libri firmati come autore, zero libri come curatrice, zero
libri come collaboratrice. E ovviamente zero citazioni fatte dei suoi
lavori: come potevano citarla altri studiosi, se non risulta aver mai
scritto una riga? Eppure, battendo una concorrente che aveva un
dottorato alla London School of Economics, 10 pubblicazioni e 31
citazioni sulle riviste nazionali e internazionali più importanti,
vinse lei. Destinata a essere promossa poco più di tre anni dopo, dal
terzo governo Berlusconi, direttore del Secit per diventare col secondo
governo Prodi esperto del Servizio consultivo e ispettivo tributario e
infine, di nuovo con Tremonti, direttore generale delle Finanze. Una
carriera formidabile. Durante la quale, stando alla banca dati centrale
di tutte le biblioteche italiane, non ha trovato il tempo per scrivere
una riga. Sia chiaro: magari è un genio. E forse dovremo essere grati a
chi l’ha scoperta nonostante difettasse di quei lavori che all’estero
sono indispensabili per diventare ordinari.



Ma resta il tema: con quali criteri vengono distribuite
le cattedre nella università italiana? Roberto Perotti, PhD in Economia
al Mit di Boston, dieci anni di docenza alla Columbia University di New
York dove ha la cattedra a vita, professore alla Bocconi, se lo chiede
in un libro ustionante che non fa sconti fin dal titolo: L’università
truccata. Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per
rilanciare l’università (Einaudi). Un’analisi spietata. A partire,
appunto, dal sistema di assegnazione delle cattedre. Dove i casi di
persone benedette dalla nomina a «ordinario » con 12 «zero» su 12 in
tutte le tabelle delle pubblicazioni e delle citazioni, a partire da
quelle del «Social Science Citation Index», sono assai più frequenti di
quanto si immagini, visto che Perotti ne ha scovati almeno cinque. Dove
capita che il rettore di Modena Giancarlo Pellicani indica una gara
vinta dal figlio Giovanni anche grazie alla scelta di non presentarsi
di 26 associati su 26. Dove succede che il preside di Medicina a Roma,
Luigi Frati, possa vincere la solitudine avendo al fianco come docenti
la moglie Luciana, il figlio Giacomo, la figlia Paola. Un uomo tutto
casa e facoltà. Che probabilmente diventerà rettore della Sapienza.
Superato solo da certi colleghi baresi come i leggendari Giovanni
Girone, Lanfranco Massari o Giovanni Tatarano, negli anni circondati da
nugoli di figli, mogli, nipoti, generi... Il familismo è però solo una
delle piaghe nelle quali il professore bocconiano (che ha l’onestà di
toccare perfino il suo ateneo, rivelando che «l’ufficio relazioni
esterne della Bocconi impiega circa 100 persone e ha un bilancio di 13
milioni di euro» che basterebbero ad assumere «i migliori docenti di
economia degli Usa») affonda il bisturi. A parte quello che «il
clientelismo e la corruzione esistono, ma sono tutto sommato
circoscritti», Perotti fa a pezzi almeno altri tre miti. Uno è che «il
vero problema dell’università italiana è la mancanza di fondi». Non è
vero. Meglio: è vero che «le cifre assai citate della pubblicazione
dell’Ocse "Education at a Glance" danno per il 2004 una spesa annuale
in istruzione terziaria di 7.723 dollari per studente» appena superiore
ad esempio a quella della Slovacchia o del Messico. Ma se si tiene
conto che metà degli iscritti è fuori corso e si converte più
correttamente «il numero di studenti iscritti nel numero di studenti
equivalenti a tempo pieno», la spesa italiana per studente «diventa
16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia ».
Quanto agli stipendi dei docenti, è verissimo che all’inizio sono
pagati pochissimo, ma da quel momento un meccanismo perverso premia
l’anzianità (mai il merito: l’anzianità) fino al punto che un
professore con 25 anni di servizio da ordinario non solo prende quattro
volte e mezzo un ricercatore neoassunto ma «può raggiungere uno
stipendio superiore a quello del 95 percento dei professori ordinari
americani (...) indipendentemente dalla produzione scientifica».


Altro mito: nonostante tutto, «l’università
italiana è eroicamente all’avanguardia mondiale della ricerca in molti
settori».Magari! Spiega Perotti che in realtà, al di là della
propaganda autoconsolatoria, fra i primi 500 atenei del mondo, secondo
la classifica stilata dall’università cinese Jiao Tong di Shanghai,
quelli italiani sono 20 e «la prima (la Statale di Milano) è 136ª,
dietro istituzioni quali l’Università delle Hawaii a Manoa ». Certo,
sia questa sia la classifica del Times (dove la prima è Bologna al
173˚posto) sono fortemente influenzate dalle dimensioni dell’ateneo.
Infatti nella «hit parade» pro capite della Jiao Tong 2008 possiamo
trovare al 19˚posto la Normale di Pisa. Ma a quel punto le grandi
università italiane slittano ancora più indietro: la Statale milanese
al 211˚,Bologna al 351˚,la Sapienza addirittura a un traumatico
401˚posto. Da incubo. Quanto al quarto mito, quello secondo cui
«l’università gratuita è una irrinunciabile conquista di civiltà,
perché promuove l’equità e la mobilità sociale consentendo a tutti
l’accesso all’istruzione terziaria», l’economista lo smonta pezzo per
pezzo. I dati Bankitalia mostrano che nel Sud (dove il fenomeno è più
vistoso) dal 20% più ricco della società viene il 28% degli studenti e
dal 20% più povero soltanto il 4%. Un settimo. In America, dove
l’università si paga, i poveri che frequentano sono il triplo: 13%.
Come mai? Perché al di là della demagogia, spiega l’autore,
l’università italiana è «un Robin Hood a rovescio, in cui le tasse di
tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei più
ricchi ». Rimedi? «Basta introdurre il principio che l’investimento in
capitale umano, come tutti gli investimenti, va pagato; chi non può
permetterselo, beneficia di un sistema di borse di studio e prestiti
finanziato esattamente da coloro che possono permetterselo». Non
sarebbe difficile. Come non sarebbe difficile introdurre dei sistemi in
base ai quali il rettore che «fa assumere la nuora incapace subisca su
se stesso le conseguenze negative di questa azione e chi fa assumere il
futuro premio Nobel benefici delle conseguenze positive». Tutte cose di
buon senso. Ma che presuppongono una scelta: puntare sul merito.
Accettando «che un giovane fisico di 25 anni che promette di vincere il
premio Nobel venga pagato tre volte di più dell’ordinario a fine
carriera che non ha mai scritto una riga». Ma quanti sono disposti
davvero a giocarsela?


Gian Antonio Stella

30 settembre 2008

 
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