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AUSCHWITZ 1944

Post n°214 pubblicato il 17 Gennaio 2008 da varese.cittanuova
 

Riceviamo dagli Amici della fondazione "Giorgio Perlasca" (www.giorgioperlasca.it), e volentieri pubblichiamo:

Dal Corriere della Sera 16.01.2008 Il «rapporto Vrba- Wetzler» rese nota la verità su Auschwitz nel 1944 Pagina: 39, Autore: Alberto Melloni, Titolo: «Vrba, l'illusione di fermare Auschwitz»

Più che dal suo metodo, prima che dai suoi postulati, la storia è identificata da qualcosa di impalpabile e reale, che è il limite. Studiare storia, insegnare storia, consumare storia vuol dire andare alla ricerca di questa thule sperando che l'applicazione o un dettaglio o la fortuna euristica o la massa critica del lavoro di più anni sposti di un nonnulla quel confine che separa i fatti dalle anime, il racconto dal silenzio, il dicibile dall'indicibile e che non può essere mai superato, pena la degenerazione nella chiacchiera moralista. Quel confine è spesso un confine dolorante, doloroso: e per questo il solo avvicinarlo sgomenta, confonde, identifica, e di rimbalzo separa anima da anima, distingue silenzio da silenzio.

È su questo confine che si colloca un documento, identificato ora come il «rapporto Vrba- Wetzler» ora come i «protocolli di Auschwitz » (quasi scherzando sul titolo di un famoso falso della polizia zarista — i «protocolli dei savi di Sion» — che era il libro di testo di tutti gli antisemitismi del Novecento, russi o nazisti o islamici che fossero). Questi altri «protocolli di Auschwitz», invece, sono un documento autentico e breve, circolante da maggio 1944 in varie traduzioni prima nell'Europa centro-orientale e poi irradiatosi verso il Bosforo, la Svizzera, Londra, Roma, l'America.

Una trentina di pagine di drammatica semplicità dovute alla voce, alla penna di due giovani ebrei slovacchi evasi il 7 aprile 1944 da un campo di sterminio di cui tutti impareranno presto o tardi il nome. Quella notte essi fuggono non per una improvvisata fortuna, ma grazie a piani e con informazioni che esistono all'interno del campo di sterminio: e fuggono non con il solo obiettivo di salvarsi, ma per compiere una specie di missione.

Camminano per dieci notti scendendo verso la Slovacchia e una volta giunti lì dettano ai capi della comunità ebraica, in parte separatamente, in parte congiuntamente, una descrizione dettagliata di ciò che accade ad Auschwitz-Birkenau. La loro testimonianza, escussa da un legale, presenta piante, calcoli, stime, su come venga organizzata e industrializzata la «soluzione finale», di cui molti altri avevano già colto il senso più dei ritmi, gli scopi più delle misure. Questo rapporto inizia a circolare fra il 27 e il 28 aprile 1944. Continua per settimane a essere letto, copiato, raccontato. Fra gli esiti che i fuggitivi sembrano ripromettersi c'è quello di «fare qualcosa» per fermare lo sterminio degli ebrei ungheresi che Adolf Eichmann sta fulmineamente organizzando, complice l'inerzia dell'esautorato Miklós Horthy e delle autorità del Paese occupato dall'esercito tedesco il 18 marzo del 1944. In realtà, il rapporto non riesce a fermare il trasferimento ferroviario di migliaia di questi ebrei verso Birkenau se non dopo la prima settimana di luglio, quando pressioni politiche e religiose di rango internazionale inducono il governo a impedire nuove deportazioni. Nel contempo quel documento che viaggia in varie forme viene diffuso via radio dalla Bbc e poi dal «New York Times», arriva sul tavolo di diverse autorità alleate, giunge in varie ambasciate di Paesi neutrali, agli uomini della Jewish Agency, a Pio XII, certamente a colui che sarà il suo successore, allora delegato apostolico in Turchia e Grecia.

E fa parte del lento processo che — ben oltre la fine della guerra e il processo di Norimberga — avrebbe trasformato la Shoah da un capitolo della guerra mondiale a un evento dotato di una identità performativa storica, militare, politica, teologica.

C'è però un «dopo»: perché il più giovane dei due estensori si convincerà che del «suo» rapporto è stato fatto un uso sbagliato. Talmente sbagliato da aver vanificato il suo obiettivo più vero, che era quello di allertare le comunità ungheresi perché la fuga o la resistenza le sottraessero alla morte. Si convincerà, il fuggitivo, che la responsabilità di questo cattivo uso coincide col mancato raggiungimento dell'obiettivo che lui s'era proposto. Si sente in grado di dire, tanto più forte quanto più isolato, che una oppure addirittura la responsabilità dell'ecatombe dell'ebraismo ungherese che si era consumata poche settimane dopo la fuga sua e del suo compagno da Birkenau ricadeva sui leader di quella comunità. Passerà tutto il resto della vita a ripetere questa accusa, mentre i «protocolli» di cui era coautore appaiono in diversi tribunali. Vilipendio? Frutto ultimo della ferocia genocidaria? Non per lui: anzi l'isolamento che incontra nel dopoguerra lo conforta nel suo rappresentarsi come una Cassandra scomoda e lo farà apparire, in una polemica riaccesasi all'inizio del secolo XXI, come la voce rimossa di una storia troppo tragica, un teste che ha smarrito il senso del confine che separa vittime e assassini, o come un caso limite nel rapporto fra storia e memoria.

Per leggere un documento povero, fatto di numeri e disegni come i «protocolli di Auschwitz » è dunque necessario — come sempre quando si tocca la Shoah — consentire l'esistenza di ciò che grazie ad essi rimane irraggiungibile e insieme sfuggire alle pseudoteologizzazioni così frequenti quando non ci si vuole misurare con le responsabilità della ricerca e degli uomini; bisogna conoscere la loro storia disadorna e antiretorica; bisogna pensare e insieme sapere di ignorare ciò che avrebbero potuto o dovuto dire a chi li leggeva, ciò che chi li ha scritti pensava fossero in grado di dire, e poi tornare alla loro vicenda. Punto per punto, tessera per tessera: rinunciando a prestidigitar risposte per le domande sollecitate da una curiosità blasfema, e se mai provando a tendere l'orecchio per sentire la domanda che posero e pongono quelle pagine, la domanda che tiene insieme persone e processi, speranze e illusioni, anime e corpi.

E per converso, storicizzare il risentimento di Vrba – una operazione al fondo naturale e violenta nel linguaggio dell'arte che così spesso incrocia quello della storia della Shoah — è infatti diventato un banco di prova di tipo critico e di tipo morale per tutta una letteratura. Infatti Vrba, paradossalmente, diventa vittima e fornitore prima di materiali a buon mercato per i deliri antisemiti o neonazisti del dopoguerra, poi per chi cercava qualche analogo ebraico fra i silenzi e gli errori degli «spettatori» della Shoah, e infine per un vasto fronte revisionista che vede schierati tradizionalismo cattolico, estremismo islamista, negazionismo spicciolo.

Eppure, come ha mostrato Yehuda Bauer sul piano squisitamente storico, quella voce imponeva una riflessione sulla quantità di informazioni andate perdute in Europa durante la guerra nel disperato tentativo di razionalizzare l'irrazionalizzabile. Forniva ai fabbricanti di comparazioni troppo interessate, a chi intendeva riciclare una immagine semplicista della Shoah, un «traditore » da accusare di vilipendio dell'eroe o un valoroso testimone utile per accusare di tradimento altri.

La vicenda dei «protocolli di Auschwitz» è perciò esemplare di uno dei grandi nodi della Shoah: cioè la coniugazione fra storia e memoria, fra azione e inazione, fra percezioni e gesti, fra perpetrazione dei crimini e pragmatismo del soccorso in una vicenda che rende l'uno incompatibile con l'altro. Insomma tutto quel tessuto dell'umano che la soluzione finale voleva distruggere e ha effettivamente distrutto, al pari delle vite di milioni di vittime.

Il giovane Rosenberg/Vrba che ad Auschwitz fa esercizio di mnemonica per tenere i calcoli dei morti e ad anni di distanza si batte per i propri «numeri», contro un uomo forse innocente e contro la posatezza del lavoro storico-critico, non è un caso di studio per una neutrale psicologia cognitiva. Finché vive e post mortem, egli è la spia superstite della tragedia, l'ombra d'una Rachele che rifiuta consolazioni a buon mercato, una vita che afferma con l'impeto della denuncia il passaggio da una generazione a un'altra – è una formula di Hilberg – non sente la fonte: e come tale costituisce una sfida al sapere storico che non ha molti paragoni. E il racconto pieno d'affanno che lui e il suo compagno d'evasione riescono a esprimere – il resoconto nel quale, secondo lui, era implicito un grido di fuga o di rivolta, che altri avrebbe soffocato – non può essere giudicato con le misure spicce di chi manovra la fonte come un cadavere da sottoporre ad autopsia, ma con quelle di chi tocca cose vive. Il trattamento storiografico dell'inaccettabile, il racconto storico dell'indicibile, significa misurarsi, senza sconti e senza tardive enfasi, in questo caso con ciò che fu già inaccettabile e indicibile.

 
 
 
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