Creato da Veg.Is.Better il 16/04/2007
Dappertutto, gli animali d’ allevamento sono mantenuti nelle circostanze più terribili e sono sfruttati ai limiti della loro resistenza. Privati della loro libertà, separati dai loro figli, costretti a subire le procedure stressanti e atroci, umiliati, trascurati, abusati, ignorati, sgozzati e poi mangiati. Potete contribuire a fermare tutto questo orrore, leniamo la loro sofferenza, mangiando frutta e verdura anziché carne e derivati-----> scegli di diventare vegan e salverai tante innocenti vite che come te pensano, sentono dolore, provano angoscia, gioia, sentimenti …Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all'esistenza.
 

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Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 23 Ottobre 2007 da Veg.Is.Better
 

LA PESCA

 

Quando si parla di caccia, fortunatamente, la maggioranza delle persone riconosce spesso con orrore l'oggettiva assurdità e violenza di quest'assassinio legalizzato - a dispetto delle nostre pretese di civiltà - che ha il solo scopo di uccidere animali inermi e, spesso, tanto piccoli da poter stare comodamente in una mano.

Eppure non esiste soltanto la caccia agli animali terrestri, esiste anche un'altra pratica, totalmente identica nello scopo e perciò ugualmente criminale, la quale viene però ancora largamente accettata anche da coloro che dicono di amare gli animali e di non sopportare la loro sofferenza. La differenza, in questo tipo di caccia, risiede esclusivamente nel tipo e nella provenienza degli animali che si vogliono catturare: gli animali acquatici.

Stiamo parlando ovviamente della Pesca.

La pesca non subisce la stessa condanna da parte dell'opinione pubblica di cui è oggetto la caccia, perché viene identificata con una pratica "innocente" che consente di passare il proprio tempo libero in un ambiente salubre e di trascorrere così qualche ora spensierata in mezzo alla natura.

E' chiaro che, nella realtà, la differenza tra caccia e pesca non esiste affatto, ma è probabile che la diversa considerazione di cui queste due "attività" godono sia dovuta al fatto che tante persone sono convinte che i pesci non provino dolore e, compresi coloro che sanno che le cose non stanno proprio in questo modo, non sono capaci di empatizzare con questi animali perché, sfortunatamente, i pesci non sono in grado di urlare e di esprimere la loro sofferenza attraverso lo sguardo.

I pesci, invece, soffrono esattamente quanto gli altri animali, come potrete approfondire meglio leggendo gli articoli che seguono.

 

IL DOLORE DEI PESCI

 

Fisiologi dell’Università di Utrech smentiscono il luogo comune secondo

cui i pesci non soffrono.

La paura e il dolore di una carpa presa all'amo

 

Nel porsi come dominatore del mondo animale l’uomo infligge spesso dolore fisico alle diverse specie, a vario titolo, e crea situazioni di paura negli animali con cui interagisce.

La condizione di paura è oggettivamente una condizione di sofferenza e va quindi seriamente considerata in un discorso etico sulla sperimentazione sugli animali o sulle altre attività umane che possono indurre questa condizione.

Una definizione della condizione di paura può essere questa: una situazione che viene sollecitata da stimoli specifici che in natura dà normalmente luogo a un comportamento di fuga o di difesa. Gli animali imparano a temere certe situazioni come risultato del dolore o dello stress sperimentato e possono quindi cercare di sottrarvisi o di evitarle.

La condizione di paura si accompagna nell’uomo e negli animali a marcate alterazioni fisiologiche. Il battito cardiaco tende ad aumentare e di conseguenza il ritmo circolatorio: molti neuromediatori vengono a più livelli coinvolti e provocano numerose alterazioni metaboliche.

Gli animali possono mostrare diversi segni caratteristici di paura e di volta in volta possiamo osservare l’emissione di segnali d’allarme, pilo-erezione, espressioni facciali di paura. Possono comparire risposte stereotipate o altre che implicano fuga, aggressività, immobilità fino alla simulazione della morte.

I giovani gabbiani, ad esempio, scelgono quest’ultima strategia quando sono minacciati e impauriti. Corrono al coperto e si fingono morti finché non odono il richiamo di uno dei genitori.

Animali cresciuti in isolamento mostrano con maggior frequenza segni di paura. I macachi, dopo sei mesi di isolamento, non sono più in grado di sviluppare un normale comportamento sociale e rimangono in una condizione costante di paura rispetto agli altri membri del gruppo. In generale la paura, estrema o prolungata, produce una condizione di stress o di alterata emozionalità che può portare a comportamenti anomali.

Ma quanta paura infligge l’uomo alle specie animali con cui interagisce e in quali circostanze? La paura è senza dubbio una delle emozioni basilari degli animali.

Mentre possiamo legittimamente ipotizzare che gli esseri umani abbiano emozioni che virtualmente corrispondono a ogni genere di situazioni, gli animali hanno probabilmente solo emozioni che si riferiscono a problemi essenziali per la loro sopravvivenza e per quali esiste una forte pressione adattativa. La paura può infatti stimolare meccanismi di fuga e quindi aiutare l’animale a sottrarsi al pericolo e salvare la vita.

Molto lavoro è stato svolto sulle condizioni fisiologiche ed emozionali di paura. La condizione di paura è infatti forse l’unica situazione emozionale ben definita in sé e tra le poche in cui gradualmente si sta giungendo a una progressiva comprensione dei meccanismi fisiologici che la sottendono.

Un lavoro recente di un gruppo di fisiologi comparati dell’Università di Utrecht richiama la nostra attenzione su una attività umana a carattere sportivo e utilitaristico allo stesso tempo che può provocare sofferenza e paura negli animali che vi sono, loro malgrado, coinvolti.

L’attività presa in considerazione è generalmente classificata tra le più innocenti, atta a ricreare il fisico e lo spirito di chi la pratica: la pesca sportiva. Il progetto è stato finanziato dalla Società Olandese per la protezione degli animali, il Ministero per l’Agricoltura e Foreste e la Società per la pesca sportiva, che apparentemente sperava in una conferma del luogo comune secondo il quale i pesci non soffrono e non provano paura quando sono agganciati all’amo ma semplicemente prendono una buona boccata d’ossigeno e finiscono di buon grado nel paniere dei pescatori.

Soggetti dell’esperimento sono state le carpe di un anno di età e di una lunghezza media di tredici centimetri.

I pesci erano tenuti in acquari. Gli sperimentatori lasciavano gli ami con l’esca attaccata e valutavano il comportamento del pesce che abboccava.

I pesci agganciati all’amo mostravano palesi segni di sofferenza anche quando il filo era lasciato allentato. Il pesce si muoveva repentinamente, cercava di andare più a fondo, scuoteva la testa come per espellere del cibo non gradito.

Quando il filo veniva invece tenuto teso, la carpa mostrava un comportamento che veniva definito "spitgas", tendeva cioè ad espellere la miscela gassosa nella vescica natatoria.

I pesci che possiedono questo organo regolano la loro profondità di immersione dosando la quantità di gas che trattengono in questa vescica.

Quando infine, dopo aver tenuto teso il filo, i ricercatori lo rallentavano, la carpa tendeva a cadere verso il fondo dell’acquario perché nella fase dello stress aveva espulso la maggior parte della miscela gassosa contenuta nella vescica e non riusciva più a compensare.

La carpa cercava di mettere in atto meccanismi sostitutivi alla regolazione del contenuto gassoso della vescica natatoria arcuando il corpo e facendo movimenti all’indietro, sostenuti dal movimento delle pinne pettorali, mentre il corpo veniva inclinato in avanti.

Quando invece lo sperimentatore non applicava nessuna tensione al filo, la carpa, una volta uncinata all’amo, si muoveva avanti e indietro, scuoteva la testa ma non espelleva la miscela gassosa della vescica natatoria.

In altri esperimenti i ricercatori riuscirono a riprodurre queste due situazioni con altri mezzi, a conferma dei meccanismi fisiologici. Confinando le carpe in piccole vasche o aggiungendo all’acqua dei feromoni - i mediatori chimici solubili nell’acqua, emessi in associazione con situazioni di stress o di sofferenza e atti a informare gli altri membri del gruppo dell’incombente pericolo - si vide che il pesce, pur non essendo sottoposto al dolore causato dall’amo, manifestava i segni e le reazioni fisiologiche in associazione con la condizione di paura.

In pratica si osservò che mentre l’aggancio all’amo produceva i movimenti di avanti-indietro, di immersione, di scuotimento del capo, ma non l’eliminazione della miscela gassosa contenuta nella vescica natatoria, la costrizione e la presenza di feromoni d’allarme provocavano lo svuotamento della vescica e il pesce piombava sul fondo della vasca, incapace a compensare.

Un altro esperimento venne condotto per distinguere ancora meglio dolore fisico, paura e i modelli di comportamento associati a questi due fenomeni. Con elettrodi impiantati nell’arco superiore del palato si provocava una stimolazione d’intensità crescente.

A bassi livelli di stimolo le carpe scuotevano il capo e si muovevano avanti e indietro. A livelli più alti iniziavano a saltare e dopo alcuni minuti di trattamento più intenso si verificava l’espulsione della miscela gassosa della vescica natatoria e la conseguente incapacità a regolare la profondità, così che le carpe cadevano sul fondo delle vasche.

Questo esperimento costituiva la prova che il ritardo tra la stimolazione dolorosa di più alta intensità e l’espulsione della miscela gassosa della vescica natatoria era probabilmente dovuto a una progressiva sequenza di processi fisiologici e biochimici associati con la condizione di paura.

La conclusione a cui i fisiologi olandesi sono giunti è che il dolore che deriva dall’essere agganciato all’amo contribuisce alla sofferenza del pesce meno della condizione di paura in cui il soggetto viene a trovarsi.

Ritornando ad aspetti più generali, sappiamo che nella maggior parte degli organismi provvisti di sistema nervoso centrale la risposta individuale a stimoli provenienti dell’ambiente dipende dalle caratteristiche specifiche di quel sistema nervoso, dalle esperienze e dagli apprendimenti precedenti dai tipi di stimoli con cui viene a contatto il soggetto. 

L’accuratezza della ricerca e la simpatetica attenzione per la sofferenza negli animali presente nei ricercatori mettono in evidenza una distinzione importante e necessaria nei nostri rapporti con gli animali tra i livelli di dolore e di paura che possiamo occasionalmente infliggere.

Questa descrizione strettamente fisiologica della condizione di paura nelle carpe deve rafforzare la nostra attenzione nei rapporti con le specie. Mettere un animale in una condizione inevitabile di paura può essere altrettanto crudele che infliggergli un dolore fisico.

Saper distinguere anche fisiologicamente tra queste due condizioni apre un ulteriore spazio etico nella discussione sul dominio umano sulle specie. Le sanzioni morali e le leggi deliberate dell’uomo sono severe per chi costringe altri individui in una condizione di paura.

Ma quanto lo sono per chi pone in questa condizione soggetti non appartenenti alla nostra specie ma da essa non troppo distanti per le caratteristiche dei loro sistemi nervosi centrali che li abilitano a percepire molto di quanto anche noi sentiamo?

 

Tratto dal sito dell'ENPA

 
 
 
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