Stavo approfondendo ulteriori spunti sulla la clinica della perversione per terminare un capitolo di un libro, nonché un articolo per Pol.it, quando mi arriva un sms. Apprendo da un avvocato, facente parte del team di giuristi che ha sostenuto la causa di alcuni amici massacrati nella caserma ‘Diaz’ , la notizia che la Corte Europea ha dunque sancito quello che tutti sapevano: la dentro fu praticata la tortura. La sevizia sistematica su cittadini provenienti da diverse parti d’Europa. In quei giorni dunque si attuò ciò che aveva ben descritto Orwell in 1984: ‘ Come si può esercitare potere su un essere umano?’ Facendogli sperimentare del dolore” rispondeva Winston al torturatore con un filo di voce, reso una larva umana dalle scariche elettriche. Mi sembra quindi opportuno spendere alcune righe, forse non troppo tecniche, né dense di bibliografia, in nome di una verità uscita dalla clandestinità, anche per l’amicizia personale che mi lega ad alcune care persone, che quell’inferno lo hanno attraversato.
‘Lui è in giro, io non dormo, non mangio, non riesco ad attraversare la strada’ mi diceva una donna pestata a sangue dal marito, immobilizzata dalla paura perché il dispositivo legislativo permetteva al suo persecutore di girare indisturbato per la città. La stessa nella quale la ridusse in fin di vita, prima che fosse ospitata in una casa protetta. Non temeva altre botte, ma l’impunità dell’uomo. La violenza non era stata né riconosciuta, né perseguita. Per questo motivo ella non riusciva a trovare pace.
In molti casi l’impunità del carnefice determina uno stato di paralisi della parola della vittima, creando una situazione di afflizione nella quale la violenza si ripete all’infinito, senza mai liberare chi ne è stato oggetto. Lo stato di vittima è una gabbia spesso simbolica, una prigionia che va oltre le cicatrici sulla carne. Nelle frasi di tante donne oggetto di abusi, di uomini adulti che hanno subito gli appetititi di orchi incontrati nell’infanzia, risuona costante un motivo: ‘ ho potuto finalmente rinascere quando chi mi ha fatto del male è stato condannato’. Quando cioè un istanza ha posto fine a quella drammatica situazione opaca di presunzione di innocenza del reo, spazzando via quella patina di dubbio che annichiliva ed emarginava l’abusato. La condizione interiore di sofferenza si protrae per tutto il tempo in cui il carnefice è contingente, libero da giudizio, con una parola che spesso ha maggior valore di quella della vittima. Il riconoscimento ‘formale’ dello stato di torturatore, toglie la vittima da una situazione di sospensione del tempo e del giudizio, nel quale la realtà sfuma e si opacizza, il dubbio la assale nel merito della sua stessa versione dei fatti. ‘ Se tutti in città dicono che costui è un professionista adamantino e rispettato, forse io ho fatto in modo di provocare le sue ire e le sue percosse’ è l’incipit che segna un pericoloso capovolgimento di prospettiva. Una sovversione.
A Genova questa sovversione ha avuto luogo all'interno di un luogo a - temporale, nel quale la legge ordinaria è stata sospesa, e uomini delle forze dell’ordine hanno abdicato alla loro funzione, quella di tutela e salvaguardia del cittadino, dando sfogo alle loro peggiori pulsioni sadiche, sino a quel momento forse malcelate, e strette forzosamente in una divisa per la quale si sono dimostrati indegni. Profittando di una condizione eccezzionale: il via libera arrivato dai vertici i quali hanno acconsentito alla sospensione della lex per allestire un altro palco , una scena perversa , regolata da un’ altra legge. Quella del perverso, la quale sfiora eludendola quella del codice penale, in un illimitato orizzonte di godimento che si nutre nel vedere soffrire la vittima, avendo cura di procrastinarne i patimenti. Il sadico sa far vibrare le corde della sua vittima, e in tal modo sostiene e motiva la sua esistenza, diceva Lacan nel Seminario X.
In tutti gli stati totalitari, quado l’autorità è folle e sregolata, i 'servitori' si sentono liberi di mostrare la loro peggior natura sadica e violenta, certi che nessuna sanzione potrà mai arrivare da un capo che essi avvertono come consimile. Non a caso Lacan tratteggia il perverso come un perfetto soldato obbediente, privo di sensi di colpa, convinto di assolvere ad un compito in nome del quale ogni remora morale può essere spazzata via. L’orizzonte morale del sadico è la sofferenza dell’altro in quanto tale, senza alcun fine che non sia la sofferenza stessa. Orwell sosteneva : ‘Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell'intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell'intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere’ .E questi agenti lo hanno esercitato liberamente il potere, certi di una assoluzione, auto incaricatisi di punire e far soffrire coloro i quali, a loro discrezione, erano un insopportabile per il legame sociale: i manifestanti con idee ed orizzonti diversi dal loro. Liberi. Ingovernabili. Quando è lo Stato a intrappolarti in una caserma , togliendo dai suoi uomini le vesti che lo rappresentano, si compie un passaggio letale, e senza possibilità di ritorno. C’è una scena del film ‘Il maratoneta’ che riassume piu’ di ogni altra parola quello che una vittima può provare quando il suo carnefice vive indisturbato, magari una vita ricca e gratificante. Il criminale di guerra Cristian Szell cammina per la 47 strada, intento a far prezzare i gioielli, frutto del suo passato criminale. Una donna, attonita, lo riconosce. Una ex internata , sottoposta alle sue sevizie, lo vede passare tra la folla ben vestito ed indisturbato. La sua parola strozzata, al sua angoscia, riassumono dolore, incredulità, rabbia. Vanamente grida alla folla il nome dell’aguzzino,puntando il dito nell’intento che qualcuno lo riconosca. Riconosca il carnefice. Ma vanamente. Quel grido contiene anni ed anni di una condizione infernale mai sciolta e mai superata, di vittima , oggetto di torture mai riconosciute, compiute da un criminale che nessun tribunale ha mai riconosciuto tale. Vederlo e gridare il suo nome, è una liberazione.
Per tanti che sono caduti nell’inferno della Diaz, molti dei quali intrappolati nel doloroso ' disturbo post traumatico da stress', la vita può ora ricominciare. L’Europa ha sopperito al vulnus legislativo dello Stato Italiano che, lungi dal formalizzare il reato di tortura, ha permesso agli esecutori della carneficina di percorrere fulgide carriere. E’ drammatico, e sintomatico, constatare come sia stato necessario bypassare le nostre istituzioni, contado solo sulla tenacia di alcuni che , avendo cosciuto un Italia diversa, basata sul diritto e abituati alla resistenza, hanno saputo uscire da quelle stanze chiuse all’interno delle quali il perverso è invincibile. Per questa Italia sorda alle leggi internazionali, ottusa e ipocrita nel suo non validare quello che tutto il mondo ha visto, è dovuta arrivare l’umiliazione di un ammonimento di un ‘giudice a Berlino’, chiamato ad incarnare quella posizione di regolatore per uno Stato che ha fatto della legge perversa un suo elemento fondante. Non credo che questa certificazione venuta da fuori chiamerà a maggior responsabilità il legislatore. Né che convinca chi di dovere a fare pulizia all’interno delle forze dell’ordine. Spero solo che possa, per tutte le decine di uomini e donne massacrati, avere un effetto di distacco da una condizione di sofferenza inenarrabile, chiudendo simbolicamente un cerchio nel quale si sono trovate. Agli amici che erano dentro, lo dirò di persona. Dirò che , almeno in questo caso, non si è avverata la profezia di Orwell:"Non devi neanche pensare, Winston, che i posteri ti renderanno giustizia. I posteri non sapranno mai nulla di te. Tu sarai cancellato totalmente dal corso della storia[...]. Di te non resterà nulla, né il nome in un qualche archivio, né il ricordo nella mente di qualche essere vivente. Tu sarai annientato sia nel passato sia nel futuro".
Maurizio m
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