Post n°152 pubblicato il 16 Giugno 2014 da cpeinfo
' E’ degli uomini, e solo di loro, che devi avere paura. Sempre’. L.F Celinè L’inenarrabile omicidio avvenuto vicino a Milano, stupisce apparentemente per la sommatoria di due elementi che, nella clinica, è invece usuale trovare legati. La ferocia del gesto e l’assenza totale di senso di colpa mostrata dall’omicida. La consapevolezza di doversi ‘inventare‘ un alibi tanto fragile da apparire grottesco. Una donna e due bambini, eliminati perché ‘intralcio’ ad un obbiettivo, almeno così’ pare dalle notizie che trapelano, banale: non essere ostacolato nel ‘corteggiamento’ di un'altra donna. Per inquadrare casi come questo, e come tali eventi si innestino nel legame sociale, è bene fare alcune precisazioni di tipo clinico. Prima di correre in massa verso categorie diagnostiche e non che saranno ben presto evocate dai mass media, prestiamo attenzione al concetto di perversione. Il perverso, secondo la lezione dello psicoanalista Jacques Lacan, può diventare una macchina. Un automa capace di perseguire un obbiettivo a qualunque costo. Nella logica del perverso, qualsiasi cosa può diventare un ostacolo al perseguimento del suo fine: siano essi beni materiali, cose, uomini. E di ciascuno di essi ci si può sbarazzare in maniera sbrigativa, con una ferocia banale, metodica e studiata. Hannah Arendt nell’analizzare la ‘banalità del male’ mostra quello che la psicoanalisi mette bene in luce: Heicmann, al processo tenutosi a Gerusalemme, non si riteneva colpevole, essendo capace di autoassolversi per i sui crimini in nome del fine ultimo per il quale lottava. Questo è determinato da una pressoché totale assenza di senso di colpa, di Super Io. Il perverso non ha null’altra morale che il proprio disegno, e in nome di questo ritiene logico e normale mettere in atto ogni azione che possa farlo giungere allo scopo. La sua capacità di assolversi è la cifra che lo caratterizza, testimoniata da come riesce a vivere i momenti dopo l’omicidio (andando a vedere la partita, o in discoteca, o scendendo in piazza e incolpando qualcun altro per distogliere l’attenzione da lui). C’è da credere che l’omicida abbia realmente esultato al gol di Balotelli. Il suo solo limite è incappare nella legge, la sola capace di fermarlo nel suo illimitato bisogno di raggiungere quel che vuole senza il fastidio del limite. Non a caso alcuni serial killer sono soliti dire ‘ se non mi avessero fermato, avrei continuato all’infinito’. Per il perverso l’oggetto, in quanto tale è intercambiabile. Ecco allora che ‘ volendo un'altra donna’, vi era la necessità di togliere di mezzo l’ostacolo, rappresentato in questo caso oltre che dalla moglie, anche dai figli.
E’ bene quindi non cadere nella facili semplificazione legate all’uso di categorie onnicomprensive, che presto saranno evocate su tutti i quotidiani. Presto si farà ricorso ad ogni tipo di ‘malattia mentale’ da parte dei media. La richiesta insistente della ‘garanzia di follia’ è mossa dalle angosce dell'uomo contemporaneo, cresciuto nel mito dell'eterna giovinezza garantita dall'avvento della chimica, in un mercato che spaccia la morte, le malattie e la vecchiaia come eventi procrastinabili sine die. Ciò che può uccidere, oggi, è controllabile. Con le analisi del colesterolo, con la mappatura genetica, con gli screening di massa. Lo sono le polveri sottili, gli uragani, le onde elettromagnetiche, ma non la mano dell’uomo. Si è chiesto vanamente alla psicologia e alla psichiatria di convalidare il tranquillizzante senso comune che vuole il kakon quasi sempre delocalizzato nell’altro (il diverso che in quel momento si trova ad occupare la transitoria posizione del 'barbaro' inteso alla greca). Ma se la violenza omicida proviene da un nostro simile, deve per forza essere viziata da una ‘patologia’ che ha reso folle un uomo sino a quel momento ‘normale’, facendola così rientrare nell’alveo delle variabili sulle quali è possibile esercitare un controllo, umano o chimico. Uccidere senza un ‘vizio’ di mente non può appartenere al senso comune senza spaventare. Si deve individuare una torsione dell'animo, una turba della psiche. Insomma, qualcosa che ci permetta di non scorgere nell’omicida quella normalità che fa parte di noi. Episodi come questo ci costringono a fare i conti con un’inaccettabile ed inelaborabile realtà: ci si uccide tra simili, in modo abbastanza naturale e non prevedibile. Per denaro, per invidia. Per sesso. Acccade quello che J. Little ha mirabilmente descritto ne ‘Le Benevole’: ‘ non c’è altra ragione plausibile che non sia la volontà di ammazzare’. Dunque, nulla tiene. Siamo tutti esposti, tutti vulnerabili.
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Post n°151 pubblicato il 29 Aprile 2014 da cpeinfo
Consigli per campagna elettorale LA PERDITA DEL LAVORO E LE SUE CONSEGUENZE SUL TESSUTO SOCIALE. INDIVIDUI, FAMIGLIE, GIOVANI.. La ricerca dell’Osservatorio sulla salute nelle Regioni italiane del 2012, ha evidenziato che la crisi, almeno in Italia, avanza verso il primo posto tra le motivazioni che spingono al suicidio, tanto che i motivi economici alla base del gesto estremo avrebbero riguardato negli ultimi quattro anni il 20-30% di casi in più rispetto al passato. La stessa ricerca ha mostrato un impennata dell’uso di psicofarmaci , sopratutto antidepressivi. PERCHE’ L‘attuale ‘società liquida’ attribuisce al lavoro una valenza diversa rispetto al passato: non più un mero strumento di sostentamento economico o riscatto sociale in un mondo ben strutturato e capace di sostenere l’uomo in tutti i passaggi della vita, quanto uno dei pochi punti di tenuta in un legame sociale che è andato allentandosi nel corso di poche generazioni. Il posto di lavoro diventa dunque un ambiente nel quale ricreare quelle relazioni che la modernità ha progressivamente eliminato, venendo meno i momenti di convivialità comune, sempre più relegati nel privato, quando non a mondi virtuali e privi di contatto fisico. La perdita dell’occupazione significa a volte il venire meno di tutto questo. La crisi passa come una lama indistinta e toglie quel lavoro – identità che sigilla il vaso di pandora del disagio personale, facendo così deflagrare strutture deboli. La perdita del lavoro si presenta dunque come l’emergenza primaria per ogni città, discendendo da essa una serie di conseguenze che interessano al sfera individuale, familiare e, in ultima analisi, il legame sociale CHE FARE Un Comune deve sapersi dunque atrezzare con dei punti di ascolto, e non di cura, che posano accogliere uomini e donne che si trovano nella condizione di aver perso l’elemento principale che permetteva loro di mantenere un posto in società. A questo si aggiunga la non trascurabile presenza di usurai e prestatori di denaro appartenenti alla malavita. Presenze sempre più in agguato, capaci di prendere possesso delle attività e dei negozi in difficoltà le quali, non avendo accesso al credito, sempre più sono spinti a chiedere denaro a personaggi esponenti di quella malavita che , in tal modo, puà introdursi come un cancro nel tessuto sociale. Questo porta ad un alleggerimento del carico patito umanamente da questi nuclei familiari nonchè un alleviamento dei compiti del SSN. |
Post n°150 pubblicato il 23 Aprile 2014 da cpeinfo
Il vero collante del nuovo fascismo: la disoccupazione di Pietro Piro (sekiso@libero.it) Un importante articolo del presidente dell’ANPI, il Prof. Carlo Smuraglia, apparso sull’Unità sabato 29 marzo 2014 a p.8, intitolato: «Antieuropeismo, collante di nuovi fascismi», riporta quest’affermazione del giuslavorista: «Vediamo processi di possibile saldatura tra formazioni di derivazione dichiaratamente neonazista, neofascista e altre forze e movimenti con connotazioni più o meno razziste e xenofobe, basate sull’odio del diverso. Questa possibile saldatura attraverso un collante potenzialmente unificante che è l’antieuropeismo può essere detonante e deve imporre una risposta articolata, anche di tipo normativo». In parte, la diagnosi è corretta. L’antieuropeismo è certamente un fattore di aggregazione ideale e un riferimento “culturale”. Tuttavia, a nostro avviso, si tratta di un’idea molto generica e anche un po’ troppo complessa perché faccia da collante per un movimento che ha come base emozionale rabbia, frustrazione, assenza di prospettive, nichilismo diffuso, che con sfumature molto diverse – e necessariamente significative – denominiamo “nuovo fascismo”. Noi riteniamo – cercando di fare tesoro della lezione del passato – che la disoccupazione sia la causa principale del riemergere di certi fenomeni che credevamo superati. Stiamo lasciando a casa troppe persone e troppi giovani in particolare, facendo in modo che si crei un vero e proprio “esercito dello scontento”. Questo esercito di avviliti, incattiviti, depressi, amareggiati, potrebbe essere indirizzato nella direzione della violenza? Nella direzione di una tanto irrazionale quanto morbosa caccia all’uomo? Potrebbero questi marginali, questi esclusi dalla vita sociale, giungere al desiderio di aggredire il corpo sociale che li tiene nell’ombra? Lo storico tedesco Joachim Fest per rispondere alla domanda sul perché la politica nazista abbia avuto una così grande forza d’attrazione sugli intellettuali scrisse: «Va ricordata innanzitutto la mancanza di prospettive professionali che, a causa della guerra e delle vicende post-belliche, numerosi laureati si trovarono ad affrontare, tanto che la politica divenne il mestiere dei disoccupati. […] Ora i nuovi raggruppamenti politici che emergevano dal caos offrirono a ogni attivista risoluto, fantasioso e spregiudicato impensate possibilità di successo» (J. Fest, La natura precaria della libertà. Elogio della borghesia, Garzanti, Milano 2010, p. 99). La nostra condizione sociale è immune da questo tipo di dinamiche? Proviamo ad abbozzare un breve ragionamento. C’è in questo momento nel nostro Paese una massa di disoccupati che sopravvive grazie ai risparmi accumulati dalle generazioni precedenti e agli scarsi residui diwelfare state. Le disuguaglianze sono sempre più marcate e il divario tra ricchi e poveri si fa sempre più netto. L’assenza di prospettiva crea masse sempre più inquiete. Depressione e suicidio sono forme di reazione distruttiva rivolte verso se stessi. Il movimento dei lavoratori e i sindacati in particolare sono accusati continuamente di essere un “freno allo sviluppo” perché rivendicando il minimo dei diritti sindacali frenano gli investimenti. Il lavoratore è sempre più solo, atipico, precario. Bisogna essere dei geni della psicologia per comprendere che la massa di lavoratori annientata dalla legge del libero mercato e da una società sempre più disumana rappresenta un potenziale esplosivo? In un’intervista rilasciata per il museo del nazismo di Norimberga (Dokumentationszentrum Reichsparteitagsgelände) un’anziana signora ricordava come la disoccupazione e l’assenza di prospettive professionali e di vita caratterizzasse la gioventù della Germania del suo tempo. Ricordava come si passassero intere giornate a fumare in dieci una sola sigaretta. La signora ricordava come l’avvento delle divise naziste rappresentò per molti giovani di quella generazione una liberazione dalla quotidianità e una possibilità di evasione. La forza antiquotidiana di una politica ritualizzata e violenta attraeva perché trovava una massa di disperati che era disposta a tutto pur di spezzare il tedio di una vita inattiva e socialmente insignificante. Nella storia nulla si ripete mai identicamente al passato. È vero anche però, che non possiamo escludere che ondate di violenza anche peggiori di quelle avvenute nel passato, possono nuovamente manifestarsi. Noi riteniamo che oggi si stiano creando le basi sociali per l’esplodere di una nuova ondata di violenza che non necessariamente sarà politica. Smuraglia scrive: «C’è molta indifferenza tanto nelle istituzioni quanto nella scuola, dove è sparita l’educazione civica, dove non si insegna la Costituzione e non si insegna la cultura democratica». Questo vuoto pedagogico è sotto gli occhi di tutti e deve essere colmato. Ma dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti il fatto che una Repubblica “fondata sul lavoro” perde inesorabilmente di senso quando il lavoro diventa una prerogativa di una ristretta élite mentre la massa è schiacciata da una disoccupazione sempre più diffusa. La fascinazione del fascismo si combatte con il lavoro e attraverso una cultura del lavoro. Non a caso, la nostra Costituzione – nata dalla lotta partigiana contro il fascismo – pone il lavoro al centro del processo di costruzione dell’identità dell’individuo. Difendere la Costituzione, combattere il nuovo fascismo, tutelare e promuovere il lavoro sono sforzi che vanno tutti nella stessa direzione. Bologna 31/03/2014 L'articolo è scaricabile dal sito 'Criticamante' di Federico Sollazzo. http://costruttiva-mente.blogspot.it/
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Post n°149 pubblicato il 27 Marzo 2014 da cpeinfo
per la relazione: The anguish has moved from being a state of mind to be a curable disease using anxiolytics. Due to the economic crisis, anguish is become the affection that now permeates the social ties under different levels. The sense of insecurity, job loss and the disintegration of the community are behind this increase of anguish. The anguished subject (sleepless, with tachycardia, and with conversion disturbs) asks for help to the psychiatrist who does not have time to listen to his trauma. With the diagnosis of ‘panic attack’ freezes the anguish. It is the drop of therapeutic dialogue to increase the use of drugs for anxiety without the use of the words: under this respect, pharmacology creates a barrier that keeps the individual pain unexpressed. The patient has in his hands the diagnosis of panic and due to this he enters in condition of illness socially accepted and he ties his life to the use of drugs. As consequence of an abuse of diagnosis, lot of associations arise in the clinical context, which the promise of a ransom from social isolation. This causes an abuse of this label , because the doors are also open to patients with different psychiatric diseases who, in order to escape loneliness , finds moments of panic in his life. Both the medical field and the associative one are urgently call to give to the therapeutic dialogue .This concept will be accompanied by several clinical examples. |
Post n°148 pubblicato il 12 Febbraio 2014 da cpeinfo
Mai come negli ultimi tempi si parla degli adolescenti attraverso le loro problematicità, i loro eccessi. I loro reati. Le loro ‘malattie’. Mi chiedo a cosa abbiano portato anni di tecnicismo e di tutoraggio della funzione genitoriale, della quale tutti ormai piangono la scomparsa o l’evaporazione. Una funzione nel tempo diluita e messa in ombra dalla massiccia assunzione di nozionismo e generoso ricorso a figure di tipo tecnico. Non vi è associazione, ente, o gruppo che non si rispecchi in questo assunto: ‘riprendiamo il contatto con i figli’. Molteplici sono le iniziative che spronano a ricercare quel dialogo, quel filo interrotto con la prole, la cui scomparsa pare essere una delle concause del crescente disagio giovanile. Convegni, seminari, incontri. Decine di padri e madri convengono, soddisfatti a fine di queste serate su una cosa; ‘E’ vero quello che i relatori hanno detto, riprendiamo a parlare con i figli!’. E’ necessario ascoltarli, osservarli, riappropriarsi del ruolo di genitore sempre più delegato o stemperato in amicizia. L’esperto al tavolo ammonisce ‘ Siate genitori, e non amici!’. Le famiglie appaiono incredule quando sentono snocciolare le cifre delle pluridipendenze che devastano gli adolescenti: sostanze stupefacenti, abuso di alcolici come trend di massa. Cocaina a fiumi. Pasticche. Botte ai compagni disabili. Tendenza diffusa a fare gruppo per macchiarsi di azioni che sconfinano nel reato senza che i protagonisti lo avvertano come tale, stupendosi dell’eventuale punizione. Fino ad ora, dove eravamo? E’ lecito svegliarsi di colpo, scoprendosi mancanti, quando un esperto chiamato ad una conferenza richiama all’obbligo delle normali funzioni genitoriali dopo che per anni le famiglie sono sempre state dissuase dal farlo? Bersagliate dal fuoco di fila di ‘dotti’ che hanno invece alimentato l’idea corrente della delega del sapere e dell’agire? L’uso massiccio delle ‘soluzioni’ ha contribuito ad allontanare il genitore dal figlio, riempiendo lo spazio dell’interazione con nozioni, precetti, indicazioni e, soprattutto, diagnosi ed etichette. “E’ molto diffusa la sindrome da dipendenza da internet”? “Si guarisce dal disturbo da dolore prolungato”? “ Come affrontare la nuova emergenza del bambino iperattivo”? E’ ormai usuale venire interpellati, dai genitori attraverso il filtro di una diagnosi preconfezionata riguardante le questioni sopra elencate. Siamo in poco tempo passati dalla posizione della domanda generica: “mi sta succedendo questo, di cosa soffro”?, al più attuale: “ mio figlio soffre di questa patologia, mi può dare qualche consiglio per farlo uscire”? Siamo il paese dove spopola la serie televisiva ‘ SOS tata’, nella quale dove una signora attempata redarguisce coppie umiliate e zittite con frasi del tipo ‘ se fate preferenze, uno dei due pargoli crescerà male!’, oppure ‘ spegnete la tv mentre mangiate’. Questi anni sono stati caratterizzati dallo sprone continuo non ad ascoltare il disagio del figlio, quanto a classificarlo. Lezioni incentrate sulla necessità di osservare se trascorra troppo tempo in rete, per dare al genitore la possibilità di individuare i germi del ‘disturbo da dipendenza da internet’. Insegnamenti rivolti a ‘riconoscere’ atteggiamenti devianti che possano far pensare a perniciose ‘ludopatie’ o ad una crescente ‘sindrome da iperattività’. Un atteggiamento diagnostico eccessivo barattato con la funzione genitoriale, ed appaltato a ‘tecnici’, i quali sono sempre stati prodighi di ricette, consigli, formule, farmaci. Il genitore avrà un bel da fare a percorrere il guado che lo separa dalla sua funzione originaria, intasato com’è di nozioni e indicazioni che hanno allontanato a dismisura le distanze tra le due sponde.
Maurizio m.
Articolo pubblicato su http://www.psychiatryonline.it/node/4821 |
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