2 passi tra le righe

Frasi rubate qua e là... di VILMA REMONDETTO

Creato da Vilma66 il 16/09/2012

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"La figlia sbagliata" di Raffaella Romagnolo

Foto di Vilma66

La morte arriva in fretta, e alla fine gli avambracci di Pietro Polizzi restano dove stanno ogni sera, dopo cena, da quasi otto anni: sulla tovaglia cerata del tavolo in cucina, le dita a contenere i confini della Settimana Enigmistica, il temperino, la gomma e la matita ...

Ines Banchero è la mdre dei suoi due figlie in quel momento gli dà le spalle. E' china sul lavello, traffica con i piatti della cena e presta orecchio al televisore. Il prossimo maggio festeggeranno quarantatrè anni di matrimonio e per l'occasione Ines ha intenzione di sostituire le vecchie tende della cucina,lise e fuori moda ...

E' insultante questo silenzio. L'ennesimo insulto. Ines sente che il grumo di rabbia cresce. Il matrimonio è un compromesso, ripete tra sè, sposarsi è rinunciare. Il prete dovrebbe dirlo chiaramente: vuoi tu prendere il quipresente e rinunciare ai desideri, ai sogni, alla tranquillità, a parlare quando vuoi e di quel che vuoi, a uscire quando ne hai voglia, a dormire se hai sonno ... Vuoi tu essergli fedele ogni giorno della tua vita, anche quando tornerà dopo una settimana che è via col camion, si butterà sul letto senza neanche fare la docciae si girerà dall'altra parte?

Non può essere. Se fosse la morte, perchè allora, dentro, un desiderio così vivo e acuminato? Qui adesso: che Ines si volti, lo guardi, si avvicini e lo prenda per mano. Nient'altro. Come farai adesso, pensa guardando la schiena appesantita, i capelli sciupati, le cocche del grembiule annodate su un golf troppo vecchio anche per i lavori di casa, come farai, amore mio?

 

 

 
 
 

"Firmino" di Sam Savage

Post n°39 pubblicato il 31 Dicembre 2016 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Li ricordo tutti benissimo. Dei mostri. Persino ciechi e nudi, soprattutto nudi. Lungo gli arti, muscoli e tendini simili a tanti piccoli rigonfiamenti, o almeno così mi sembrava allora. Soltanto io sono nato con gli occhi spalancati, ricoperto da una pudica peluria di soffice pelliccia grigia. Ero anche gracile. E, credetemi, essere gracili è una cosa terribile quando si è piccoli. 

Talvolta mi piace pensare che i primi istanti in cui ho lottato per venire al mondo fossero accompagnati a mò di marcia trionfale, dalla distruzione di "Moby Dick".Il che spiegherebbe la mia straordinaria propensione all'avventura.

Come accade a molti piaceri illeciti, inizialmente innocui, masticare la carta divenne ben presto un'abitudine, a suo modo impellente, e poco dopo una forma di dipendenza, una fame insaziabile.

All'inizio mi avventavo senza andare troppo per il sottile, in modo indifferenziato, abbandonandomi a un'orgia insaziabile ...ma presto cominciai a notare delle sottili differenze. Notai prima di tutto, che ogni libro aveva un sapore diverso: dolce, amaro, aspro, agrodolce, rancido, salato, agro.

All'inizio mangiavo lasciandomi guidare soltanto dal gusto, rosicchiando e masticando dimentico. Ma ben presto cominciai a leggere, quà e là, lungo i bordi dei miei pasti e, con il passare del tempo, quanto più leggevo tanto meno masticavo finchè, in ultimo, presi a dedicare quasi tutte le ore di veglia alla lettura, masticando solo nei ritagli di tempo. Oh, come mi rammaricai allora di tutti quei buchi spaventosi!

Il mondo fuori dal mio adorato negozio di libri era tutto un divorarsi a vicenda in una feroce competizione, un si salvi chi può. Ogni cosa era lì , pronta a colpirci a morte, implacabile. Le probabilità di vivere un anno erano pari a zero ... Se c'è un merito da riconoscere  alla letteratura è che infonde un senso di fatalità. Niente, più di una vivida immaginazione, riesce a privare una persona del suo coraggio. 

Non ho mai avuto molto coraggio, nè fisico nè di qualsiasi altra natura, ed è stato duro riconoscere quanto fosse insulsa la mia esistenza, ordinaria com'era, e priva di una storia di cui incarnarsi. Così, molto presto, cominciai a consolarmi con l'idea assurda, ridicola, di avere davvero un Destino. Cominciai a cercarlo nei libri appunto, viaggiando nello spazio e nel tempo.

Nonostante fossi loquace fino al cicaleccio più inverosimile, ero condannato al silenzio. Il punto è che ero privo di voce. Tutte le frasi meraviglioseche si libravano in volo nella mia testa come farfalle, in realtà, svolazzavano dentro una gabbia da cui non sarebbero mai uscite.Tutte le parole incantevoli che rimuginavo e mimavo a fior di labbra  nel silenzio strozzato del mio pensiero erano inutili come migliaia, o forse milioni di parole che avevo stracciato via dai libri e ingoiato;frammenti sconnessi di interi romanzi, opere teatrali, poemi epici, diari intimi, confessioni scandalose: tutto buttato via, muto, inservibile, sprecato. 

Non mi dava fastidio il fatto che bevesse ... ma odiavo quei periodi di depressione. Tutta la sua sotterrranea disperazione, tutta la tristezza e la disperante rassegnazione che si trovavano nei suoi libri, affioravano piano piano verso la superficie della sua vita, montando e riversandosi come bollicine nei suoi occhi, velandogli il viso ... Come probabilmente avrete ormai intuito, io stesso sono un tipo piuttosto incline alla depressione  e so tutto sui diciasette tipi di disperazione ... Quando qualcuno disperato ti dice come sia insensibile e crudele il mondo e quanta sofferenza inutile ci sia nella vita e quanta solitudine, e tu ti trovi a concordare con lui proprio su ogni punto, tutto ciò ti mette in una situazione difficile, e non sai cosa dire.

Vi chiedete perchè dunque mi lagni adesso dinanzi a una nuova possibilità di camuffarmi, all'occasione d'oro che mi si offre di rannicchiarmi inosservato dietro le impenetrabili sembianze di un animaletto che ispira tenerezza?... la differenza tra assumere una maschera, che è sempre un'occasione di libertà, e averla imposta è la stessa che intercorre tra un rifugio e una prigione. Sarei stato ben felice di attraversare l'intera esistenza a passi decisi, magari un pò goffi, ricoperto della corazza di pelliccia del mio travestimento da animaletto domestico, se fossi stato persuaso che avrei potuto sbarazzarmene in qualsiasi momento lo desiderassi, strappare via quella adorabile faccia tenera e far balzare fuori la creatura che sapevo di essere ... Non l'avrei mai fatto, certo, ma mi piaceva la sola idea di farlo.

Penso sempre che ogni cosa durerà in eterno, ma non è mai così. In realtà, niente esiste per più di un istante, tranne ciò che custodiamo nella memoria. Cerco sempre di conservare dentro di me ogni momento - preferirei morire piuttosto che dimenticare.

Non avevano mai visto niente di simile, un angelo nudo che portava con sè un ratto. Danzammo a lungo, ancora più veloci, mentre la musica cresceva. Un ballo folle, frenetico. Poi, a un tratto, la musica cessò. Nella stanza piombò un silenzio assordante e le pareti tornarono all'improvviso al loro posto. Lei si abbandonò all'indietro sul letto. Rideva, continuando a stringermi a sè. Sentii il suo petto levarsi e ricadere sotto di me, poi la stretta dellle sue dita allentarsi sul mio dorso e, quando sollevai lo sguardo, vidi che aveva gli occhi chiusi. Mi divincolai e lentamente presi ad avvicinarmi furtivo al suo viso, annusando l'odore del suo collo e il tepore profumato che emanava dal suo respiro. Sul labbro superiore luccicavano piccoli diamanti di sudore. Li sorbii uno ad uno. Erano salati. In seguito alle mie letture, avevo appreso che anche le lacrime avevano quel sapore lì. Lei si tirò su, facendomi cadere all'indietro sul letto. - Il tempo è scaduto, - disse.

 
 
 

"Fuori da un evidente destino" di Giorgio Faletti

Post n°38 pubblicato il 23 Novembre 2016 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

A Caleb piaceva quel cane. Aveva carattere da vendere. O se non altro aveva un carattere molto simile al suo, commerciabile o meno che fosse. Per questo lo faceva sedere in cabina accanto a lui e non lo costringeva sul cassone dietro come facevano tutti gli altri ... Silent Joe  non abbaiava mai. Non l'aveva fatto nemmmeno quando era un cucciolo tutto zampe e con addosso una quantità di pelle tre taglie superiore alla sua. Per questo motivo al suo nome originale, Joe, si era ben presto aggiunta la qualifica di silenzioso, che lui si portava appuntata al petto con noncuranza come un'onorificenza ...Non poteva dire che Silent Joe fosse veramente il suo cane, perchè quell'animale dava l'idea di appartenere solo a se stesso.

Era solo questione di tempo e prima o poi anche lui avrebbe raggiunto il risultato a cui stava lavorando da anni. In un momento avrebbe cancellato tutta la fatica , tutte le notti in bianco e tutto il denaro speso, ma soprattutto le derisioni e le risatine di scherno alle sue spalle. Una volta aveva letto da qualche parte che la grandezza di un uomo si misura da quanti stupidi gli danno addosso. Allora quelli che lo prendevano in giro si sarebbero mangiati il fegato, condito con la stessa merda che gli avevano sparso addosso.

Vegas era un posto in cui ogni piede trovava la sua scarpa e viceversa. Anche quello più grande entrava in quella più stretta. Bastava avere il lubrificante giusto. Il denaro. Jim non aveva mai avuto l'ossessione per i soldi. Per lui rappresentavano potere, conquista, una vita sprofondata nel lusso. Erano tuttavia il solo modo che conosceva per potersi comperare la libertà. E per lui la libertà a un certo punto aveva significato andarsene da lì, da quella vita immobile che finiva alle nove di sera, dalle canzoni piene di selle e cow- boy, dai vestiti che sapevano del fumo dei barbecue, dalla polvere del deserto, che esaltava i turisti e impestava l'esistenza di chi era costretto a viverci.

C'era in Charlie il senso tranquillo dell'appartenenza alla gente e ai luoghi in cui era nato. Forse anche al passato, che nel suo concetto di tradizione era solo un pezzo di presente lasciato per un lasso di tempo alle spalle e da ritrovare nel futuro.Così il cerchio si chiudeva e diventava una fede.

Un soffio di vento lo riportò al posto in cui era e alla consapevolezza di quello che era venuto a fare. Quell'uomo che ai suoi giorni aveva visto la guerra e che l'aveva vinta, da quel momento in poi era diventata tutta la sua famiglia. Gli aveva insegnato tutto quello che sapeva e soprattutto  quante cose ci sono da sapere, prima di poter arrivare in cima alle rocce scalandole a mani nude. Gli aveva insegnato che la morte era l'unica certezza che gli era dato possedere, una certezza che stava appoggiata come un grande uccello bianco su una spalla di ogni uomo. E adesso stava volando in alto da qualche parte, con le ali di quella sola certezza.

Era rimasto da solo per tutto il tempo, seduto su una sedia in plastica. Quell'attesa aveva qualcosa di miracoloso, un atto dovuto al suo stupore. Era una pausa che gli serviva come l'acqua del deserto per fermarsi un istante a rifare dei conti che si ostinavano a risultare tutti sbagliati. In poche ore la sua vita era stata capolvolta. Provava la sensazione soffocante di annaspare sott'acqua, nel buio più profondo, senza il conforto di poter seguire le bolle per ritrovare la superficie. Il ritorno a casa aveva disintegrato tutte quelle che lui aveva chiamato per anni certezze. Ci sono dei confronti che la vita non promette di evitare, ma permette al massimo di rinviare. Così le persone che avevano fatto parte della sua vita passata erano arrivate una a una a reclamare il loro posto nel presente. 

Erano passati tanti anni e tanto sangue era stato versato. Sangue uscito dalle vene e dalle parole, di quelle che uccidono le persone  in modo molto più doloroso delle armi. Tutto quello che sembrava essere andato in frantumi si stava poco per volta ricomponendo, per la magia e la bizzarria del caso, con nuove forme e nuovi colori a ricordare che nulla può essere uguale. Quell'incontro a cui non era preparato, non in quel posto e non in quel momento, l'aveva lasciato con un senso di vuoto difficile da spiegare, quando invece un desiderio di rivalsa sarebbe stato molto più comprensibile. Nell'istante in cui si erano trovati di fronte e si erano guardati negli occhi era sembrato tutto così lontano, così inutile, così privo di senso. Nessun motivo per vincere, perchè non c'era nessun motivo per combattere. L'unica emozione era stato il rimpianto. Non per quello che era stato, ma solo per quello che poteva essere.

Dentro di sè scoprì una forza diversa che pareva crescere con il crescere della fatica e che per ogni tratto guadagnato alla parete lo incitava a procedere e a salire ancora. Sentiva con il vigore del corpo e della certezza che in ogni supporto per ilpiede, in ogni appiglio per la mano c'erano le tracce degli uomini appesi con lo stesso intento alla stessa roccia. Erano frammenti immobili di una storia in continuo movimento, le testimonianze di un'audacia antica e all'apparenza inutile. Ma indispensabile per ogni uomo che desiderava arrivare a guardare il mondo dall'alto con occhi nuovi.

 
 
 

"La regina scalza" di Ildefonso Falcones

Post n°37 pubblicato il 26 Settembre 2016 da Vilma66
Foto di Vilma66

Quando si allontanò dal ponte, cominciò a sentirsi osservata. Non aveva soldi per raggiungere Siviglia. Cosa poteva fare? L'uomo del ponte non le aveva detto come procurarseli. A venticinque anni, Caridad non aveva mai guadagnato neanche un soldo. Al massimo, a parte il cibo, i vestiti e un posto in cui dormire, le avevano dato la "fuma", il tabacco che i padroni regalavano agli schiavi per il consumo personale. Come avrebbe potuto guadagnare qualche soldo se, a parte lavorare il tabacco,non sapeva fare altro?

Si mise seduta sulla sponda, lasciando i piedi in acqua. Faceva freddo, ma in quel momento non ci fece caso: non sentiva niente. Avrebbe dovuto provare piacere, forse? Uno dei due uomini gliel'aveva chiesto. Quante volte le avevano fatto la stessa cosa? Anche il padrone l'aveva fatto, quando era solo una "bozal", una bambina appena strappata dalla sua terra. Allora non aveva nemmeno capito cosa le stesse chiedendo quell'uomo viscido, che l'aveva toccata ovunque prima di deflorarla... "Ti piace?" le chiedevano la domenica, durante i balli, quando uno schiavo la prendeva per un braccio e la portava fuori dalla baracca, dove altre coppie stavano fornicando. Poi riprendevano a cantare e a ballare, in attesa di essere posseduti dai loro dei.  A volte lo rifacevano. No, non le piaceva, in realtà non provava niente: il cuore glielo avevano strappato, un pezzo dopo l'altro,quella prima notte, quando il padrone l'aveva violentata. 

Melchor socchiuse gli occhi. Una delle nuvole che si erano accanite a oscurare Siviglia per l'intera giornata aprì un varco a un debole raggio di luna. Fu allora che per terra, a qualche passo di distanza, scorse una macchia grigiastra. Avanzò e si accovacciò, fino a distinguere una donna vestita di grigio, nera come la notte. Era seduta con la schiena contro un albero, come in cerca di un riparo. Aveva lo sguardo fisso, indifferente alla sua presenza, e continuava a canticchiare a bassa voce quella nenia, ripetendo lo stesso ritornello... Le si sedette accanto. Non capiva ciò che diceva, ma la voce stanca, rassegnata e monotona  lasciava trapelare un dolore immenso...La tristezza e la malinconia  di quel canto lo avevano riportato, per l'ennesima volta, ai remi della galea. Acqua. Quante volte anche lui aveva implorato la stessa cosa? Gli sembrò di sentire i muscoli delle gambe, delle braccia e della schiena che si tendevano, come quando l'aguzzino aumentava il ritmo della voga durante l'inseguimento  di una nave corsara. Il suo fischio lacerante gli spaccava i timpani mentre la frusta gli strappava la pelle dalla schiena nuda per spingerlo a remare con sempre maggior forza, in uno strazio che poteva durare per ore. Alla fine, con i muscoli sul punto di scoppiare e la bocca secca,  dalle file di banchi saliva una sola supplica: acqua!

Gli invitati dei conti, francesi o inglesi che fossero, rimasero a bocca aperta quando Ana , accogliendo la sfida della figlia, agitò voluttuosamente i fianchi. Milagros, ridendo, la imitò. Nel buio, sulle acque del Guadalquivir tremolanti d'argento, alla luce delle fiaccole sparse nel giardino, tra caprifogli e belle di notte, aranci e limoni,  le chitarre cercarono di tenere il ritmo frenetico imposto dalle donne; mentre i palmi picchiavano con forza, i "bailaores" vennero travolti dall'audace sensualità con cui madre e figlia danzavano la sarabanda. Alla fine, madide di sudore, Ana e Milagros si strinsero in un abbraccio silenzioso. Sapevano che era solo una tregua, che il ballo e la musica spalancavano un altro mondo, un universo dove i gitani scappavano dai loro problemi.

Dopo l'ultima frase sulla spiaggia, Melchor non aveva più proferito parola,e ora Caridad camminava tenendo gli ochhi fissi sulla  sua schiena. Il gitano l'aveva trattata bene, l'aveva rispettata, le aveva regalato i vestiti rossi e l'aveva anche difesa, più di una volta, ma perchè non l'aveva frustata? lo avrebbe preferito. Con la frusta, la cosa era conclusa: si tornava al lavoro fino allo sbaglio successivo, alla successiva esplosione di rabbia del sorvegliante o del padrone, così, invece... Guardò la giubba di seta celeste del gitano, e le parole della canzone che intonava le morirono in gola.

"Quello che ha fatto la piccola è solo colpa vostra". "Di tutti voi. Avete messo radici e lavorate per i payos, addirittura vi sposate in chiesa e battezzate i vostri figli per entrare nelle loro simpatie. C'è perfino chi va a messa! Ben pochi di voi, ferrai di triana, percorrono le strade e vivono nella natura come facevano i nostri avi, come fa la nostra gente, mangiando ciò che la terra produce spontaneamente, bevendo l'acqua dei pozzi e dei ruscelli, e dormendo sotto le stelle in nome di una libertà che è sempre stata la nostra unica legge. Perciò, allevate figli deboli, irresponsabili,come quelli dei payos, bambini che ignorano la legge gitana, non perchè non la conoscono, ma perchè non la vivono nè la sentono"..."E cosa dovremmo fare Maria?" la giustizia arresta nelle strade chi indossa i nostri costumi tradizionali e vive come facevano gli avi di cui parli. Sai bene che per il solo fatto di essere nati gitani siamo considerati malviventi..."

Ana non aveva mai sentito suo padre intonare il "lamento del galeotto". Melchor non l'aveva più cantato, da quand'era tornato in libertà. Perciò, non appena il primo gemito, lungo e lugubre, invase la sera,  la donna si lasciò cadere a terra come lui. Milagros si sentì accapponare la pelle: non aveva mai ascoltato niente di simile; nemmeno le toccanti deblas della Trianera reggevano il confronto. La ragazza sentì un brivido, cercò il contatto con la madre posandole le mani  sulle spalle, e un attimo dopo Ana le sfiorò le dita con le sue. Melchor cantava senza parole, intrecciando lamenti e gemiti dal timbro grave, incrinato, roco; il suono cupo della morte. Le due gitane erano immobili, chiuse in se stesse, mentre quel canto indefinibile, profondo e intenso, meraviglioso nella sua tristezza, le colpiva al cuore. Caridad, da parte sua, sorrideva. Lo sapeva: tutto ciò che Melchor  non riusciva a dire a parole lo esprimeva attraverso la musica; come lei, come gli schiavi.

Melchor si ritrovò ad avvicinarsi a lei con una delicatezza che non aveva mai usato con nessun'altra donna, come se temesse di farle del male. Caridad si abbandonò ai suoi baci e alle sue carezze, e a quel piacere a lei del tutto sconosciuto; scoprì che il suo corpo nascondeva migliaia di punti ansiosi di rispondere  al contatto delle dita di lui. Si sentì finalmente amata. Melchor l'amò con passione; le parlò con dolcezza. Lei pianse, e il gitano rimase interdetto prima di capire che quelle lacrime non erano di dolore. Le sussurrò all'orecchio frasi che la fecero sciogliere di passione, e Caridadsi ritrovò ad ansimare e a ululare come una lupa nel bosco.

Davanti alle donne e ai loro figli, Ana scoprì la schiena per il carceriere; nonostante avesse scapole, colonna vertebrale e clavicole sporgenti, i molti castighi che aveva subito a Malaga erano ben visibili. La frusta schioccò in aria e la gitana strinse i denti. Tra una frustata e l'altra, cercò con lo sguardo Salvador, che era in prima fila, come sempre. Con i pugni e la bocca serrati, il piccolo chiudeva gli occhi ogni volta che il cuoio feriva la schiena della gitana. Ana si sforzò di sorridergli per tranquillizzarlo, ma sulle sue labbra non apparve che una smorfia innaturale. Le lacrime che vide correre sulle guance del piccolo la ferirono più delle scudisciate. Salvador aveva scelto lei come sostituta della madre morta, e Ana aveva riversato su di lui quell'affetto che tutti sembravano volerle strappare.

Quante altre volte Pedro vendette sua moglie, in quell'anno scarso? Cinque , o forse sette volte. Sapendo che la situazione poteva precipitare da un momento all'altro, che i ricchi madrileni avrebbero dimenticato la Scalza quando i pettegolezzi sul suo conto si fossero estesi ai loro circoli di amici e godere del suo corpo avesse smesso di essere motivo di vanto, Pedro la vendette al miglior offerente. La gitana cercò rifugio nella figlia: Marìa era tutto quel che le restava. Abbracciava la bambina, calmandone il pianto, canticchiandole motivetti all'orecchio con voce rotta, accarezzandole i capelli finchè la piccola non si addormentava e lei restava a cullarla per ore. Imparò ad accogliere le sue risate fingendosi a sua volta allegra, e a partecipare ai suoi giochi con entusiasmo, persino quando, per tutto il giorno, continuava sentire il tocco disgustoso della mano di individuo ributtante tra le gambe, sui capezzoli... o sulle labbra.

Costretta a prostituirsi a suon di botte, privata della figlia, controllata ovunque andasse, Milagros diventò una donna vuota, sconfitta, silenziosa, indifferente a tutto; Bartola non poteva più fare niente per nascondere i suoi occhi infossati, cerchiati da occhiaie scure, quando doveva portarla a teatro.

Attaccò con un sussurro che poco a poco guadagnò forza per diventare un lamento lungo e profondo capace di rieccheggiare perfino in cielo. Caridad sentì un brivido correrle lungo la schiena e tremò tutta, l'emozione a fior di pelle. Milagros abbracciò la madre per non cadere. nessuna delle tre accompagnò il suo canto, rapite come erano dall'incantesimo di una voce rotta che si mescolava alla brezza per volare in cerca della libertà. "Cantate nonno", sussurrò Milagros. "Cantate finchè la vostra bocca non saprà di sangue."

 

 
 
 

"Il profumo del caffè" di Antony Capella

Post n°36 pubblicato il 28 Aprile 2016 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Se il dolore fosse un caffè, si dice Emily a volte, riuscirebbe a elencarne i molti sentori. Il crepacuore naturalmente, che però è solo una delle emozioni che prova in questo momento. C'è l'umiliazione, la consapevolezza di aver fatto la figura della stupida per la seconda volta in vita sua. Suo padre e Ada le vogliono troppo bene per ribadire "te l'avevo detto", ma gliel'avevano detto davvero, e lei li aveva ignorati: adesso capisce che avevano sempre avuto ragione riguardo a Robert. Fallimento: si sente sciocca, inutile, incompetente. Come può pensare di cambiare il mondo quando non è neanche capace di scegliersi un marito? Collera. Come ha osato? Tradirla in quel modo, scrivendole due righe, come se stesse cancellando l'abbonamento a un giornale. Ma la brevità elegante e glaciale della lettera, si rende conto, faceva parte del messaggio. Solitudine: sente la sua mancanza, farebbe di tutto per farlo tornare da lei. Ricorda i pomeriggi ad assaggiare caffè nell'ufficio di suo padre, gli aggettivi che rimbalzavano tra loro come frasi musicali, un duetto, un linguaggio privato sensuale che comunicava molto più del sapore del caffè. E poi c'è un emozione per la quale non ci sono parole, o almeno lei non le conosce: la terribile privazione di un desiderio fisico che ora resterà inespresso per sempre. Si sente un personaggio grottesco, deforme, menomato, una vecchia zitella in potenza. 

Era come se l'assenza stessa del caffè fosse racchiusa in quel  goccio di liquido.Ceneri ardenti, fumo di legna e braci annerite dal fuoco mi danzarono sulla lingua, mi si trattennero in gola prima di arrivarmi direttamente al cervello. Eppure non era acre. Aveva una consistenza di miele o melassa, con una sorta di dolcezza rbiscottata che indugiava a lungo in bocca, come il cioccolato più nero, o il tabacco. Finii la tazzina in due sorsate, ma il sapore sembrò accrescersi e farsi più intenso anche dopo.

Eppure, eppure... Ogni sera, al calar delle tenebre - in quelle notti equatoriali assurdamante anticipate, col buio che avviluppava la giungla come una coperta - i martin pescatori e i pappagalli attraversavano fulminei il tramonto, le scimmie colobo si dondolavano pigre dai rami degli alberi sopra di noi, e le lucciole cadevano dal cielo come per magia. Io e Fikre mangiavamo insieme, con la lampada a kerosene per compagnia. Era difficile non avvertire un senso di soddisfazione in quei momenti. Qualunque cosa avessi previsto quando ero stato cacciato da Oxford, mai, neppure nei sogni più folli, avrei immaginato qualcosa del genere.

Ora che eravamo finalmente insieme, pareva quasi che nessuno dei due volesse fare il primo passo. Mi preparò il caffè - il caffè delicato e fragrante dellle zone rurali - come aveva fatto nel deserto, puntando su di me uno sguardo solenne mentre bevevo la prima tazza... Profumava di caffè: quel sapore era in ogni bacio, il profumo dei forni di torrefazione le si annidava nei capelli. Le sue mani erano caffè; le sue labbra erano caffè; era nell'aroma della sua pelle e dell'umore acqueo che le si raccoglieva agli angoli degli occhi. E anche tra le cosce scure, dove la carne le si apriva come una successione di petali per rivelare l'interno roseo profumato di caprifoglio, trovai un chicco minuscolo, un bottoncino di carne dura che sapeva di caffè. Me lo misi in bocca e cominciai a mordicchiarlo; come per magia, anche dopo che avevo finito di divorarlo lo ritrovavo lì.

"La foresta può ricrescere, ma non si può difendere dal prossimo uomo bianco che verrà con l'intenzione di raderla al suolo per piantare semi in file ordinate. Possiamo dirgli che le sue piante moriranno, che i facoceri mangeranno i semi e il sole brucerà i loro germogli, ma l'uomo bianco non ci ascolterà, perchè è quella la sua natura". 

Un estraneo potrebbe pensare che mi stanno onorando: sono lì seduto sulla mia sedia da campo come un re sul trono, e loro mi sfilano davanti rendendomi omaggio. Sono io invece a sentirmi umiliato, a chinare il capo davanti a ciascuno, con le mani giunte, le lacrime agli occhi, e ripeto senza stancarmi: "Galatoomi, galatoomi". Grazie.

Il movimento militante per il suffragio femminile - la Causa, come la chiamavano loro - stava ormai crescendo rapidamente... Emily e le sue compagne di lotta trascorrevano lunghe ore nella stanza sul retro a discutere di tutto: la costituzione, questioni etiche, la distinzione tra azioni legittime e quelle che non lo erano, proposte su come procedere... Certe volte mi veniva da pensare che il loro fosse un entusiasmo vuoto, un'avventura da ragazzine. Poi, però, alla fine delle interminabili riunioni, si infilavano il cappello, allacciavano gli stivali e, invece di salire sull'omnibus che le avrebbe portate a casa, andavano da sole o in coppia a scrivere slogan con secchi di vernice bianca su edifici del governo, o a tappezzare i muri con i loro manifesti. Molly, Geraldine e le altre non erano più "angeli del folcolare", ma angeli vendicatori. Quelle spedizioni serali, lo ammetto, mi lasciavano molto perplesso. Mi era stato inculcato fin dalla tenera età che le donne erano creature fragili,ed era un'idea che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

 

 
 
 
 
 

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