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Un blog creato da violet_space il 11/01/2009

ViolaMente

spettri viola di parole e musica

 
 

CANZONE ECOLOGICA

Parole che vanno e vengono in quantità:
come pennellate di colore cariche
aggrumano le preziose tenuità
in cumuli di volgari croste, ovunque.

Forse sarebbe più bello tacere,
in accordo coi nostri pensieri,
che solo ad esprimerli in verbi e parole
non sono più verità.

Ma so che sarebbe anche bello
Sceglierle bene;
per farle aderire con più precisione
all’anima con la sua musica.

Sento svanire il suono infinito,
il timbro che unisce le vite
alle cose del mondo:
l’umano ululato strepita
e tutto si fa disarmonico.

Quanto rumore e parole in libertà…
Quanto timore di ammutolire in sé…

L’umano fracasso contamina
Il fiato dell’universo.

Marlene Kuntz

 

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UN DIECI GABBATO

Post n°8 pubblicato il 05 Aprile 2009 da violet_space

- Mi scusi, Signora, è già passato il 13?

La realtà è che a Massimo non importa granché se il 13 é già passato e se dove aspettare il prossimo. Non ha fretta e, d’altronde, a piedi ci avrebbe impiegato molto più tempo se non si fosse ormai arreso all’evidenza che anche pochi passi erano sufficienti per rubargli il fiato e trasformargli le gambe in macigni, piombo da trascinare, e poi, in fin dei conti, nemmeno gli dispiace l’idea di mischiarsi con la varia umanità che popola l’autobus a quell’ora.

Signore ben curate, intente a mantenere l’equilibrio tra tacchi alti e buste piene, uomini e donne accigliati, con le loro ventiquattrore e senza il permesso di circolare in centro con l’auto, ragazzetti con gli zaini in spalla pronti a colpire ad ogni impercettibile moto del corpo. Ed indiani (o pakistani, o del bangladesh, chi poteva saperlo) silenziosi e distanti con la loro scia di spezie, mamme maghrebine e sudamericane con bimbi appesi al petto, e poi i soliti tizi dalle facce poco raccomandabili, da tenere sott’occhio e quanto più alla larga.

Ciò che, ad ogni modo, più lo spinge tra la folla del mattino resta il fatto che il tragitto, anche se di poche fermate, gli permette di sbirciare nella vita indaffarata degli altri, ascoltarne le telefonate urlate senza titubanza, perdersi senza più alcun ritegno nell’immaginare le quotidianità di chi gli cede, con un’aurea da benefattore, il posto a sedere.

Questi tratti gli fanno tornare in mente gli anni passati in cui anche i suoi giorni si susseguivano affaccendati e in cui nutriva la sensazione mai sopita che ancora tutto potesse accadere, cambiare, subire una svolta imprevista ed avventurosa. Dimenticare così che le sue di giornate erano trascorse tutte pressoché uguali, tanto da poterle persino fondere in una soltanto, insignificante e rituale, ad eccezione di quelle poche che poteva, senza fatica, contare sulle dita di una sola mano.

Stamattina sul 13, ad esempio, gli occhi grandi e sfrontati di una zingara (che non poteva avere più di quindici anni, e da cui badava bene di mantenerne le dovute distanze) gli fanno tornare alla mente una sera di più di quarant’anni addietro, una di quelle diverse dalle solite. Non nella sua città, tanto piccola da far sembrare pure gli zingari provinciali, ma nella capitale, quel giorno invasa da un popolo in protesta sceso dai pullman organizzati dalle maggiori sigle sindacali. 

Fu dopo la manifestazione che, in un vicolo dietro a piazza Navona, una giovane rom con gli stessi occhi di quel marrone intenso lo fermò e gli afferrò la mano. Tentò senza convinzione di opporle resistenza per poi arrendersi e farle leggere, tra le pieghe del palmo e gli sghignazzi dei compagni, che lui era un dieci, vale a dire che la sua anima era alla decima reincarnazione e che, dopo la morte, avrebbe guadagnato un posto tra i saggi, finalmente libera dalla perpetua condanna di dover vagare da un corpo all’altro. Brillo com’era ne rise forte, le lasciò le poche monete avanzate dopo alcuni bicchieri di rosso e le rispose che il suo nome era Massimo, per cui avrebbe dovuto, perlomeno, essere un dieci, sì, ma con la lode.

Adesso, però, che il decimo trapasso non doveva essere, ad occhio e croce, troppo distante ci si soffermava spesso su quelle parole chiedendosi se, casomai, quei rimasugli d’emozioni che avvertiva quando la mente si perdeva (e dogni giorno sempre un poco più a lungo) non fossero solo fantasie, ma piuttosto qualcosa che somigliasse a percezioni lontane di vite già consumate.

Sono le natiche piene e sode di una ragazzina (che non poteva avere più di quindici anni) a scuoterlo da questi pensieri dopo una frenata brusca, e, in particolare, il loro lento assestarsi sulle sue anche incerte. Quello che sente con nitidezza è proprio uno di quei fondoschiena che spinge le sue rotondità verso il basso, nascendo da una larga striscia di pelle scoperta tra la cintura borchiata e un piumino color fucsia. Sì, fucsia, proprio come le ciocche che le dividono geometricamente i capelli, neri come le icone degli antichi egizi. Stordito dal prolungarsi di quel contatto e dalle vibrazioni sonore che escono da auricolari bianchi, Massimo si culla mente e corpo nella vacua, e ancora tutta maschia illusione, che forse è tutto sommato presto per rinunciare ai fremiti della carne per l’undicesimo innalzamento dell’anima… talmente scosso, nella spina dorsale e nel basso ventre, da scorgere appena il sorriso perfido che gli rivolge la ragazzina dopo essersi voltata e agganciata in un istante, e pensare...

Ma sì, in fondo quel culo li valeva tutti....

  MonAmi, queste righe sono per te, un dieci che non ha bisogno di aspettare l’undicesima vita per scorgere la bellezza, ovunque.

 
 
 
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