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Di seguito il documento finale del seminario organizzato da Comunisti Uniti e tenutosi a Napoli, lo scorso 5 febbraio.
I comunisti e la questione sindacale
Comunisti Uniti, Napoli, 5 febbraio 2011
Il compito dei comunisti non è soltanto di difendere i diritti dei lavoratori o rivendicare una più equa redistribuzione del reddito, ma di impedire che quella ridefinizione dei rapporti sociali e politici continui ad essere sfavorevole alla classe lavoratrice. Pensiamo che per fare questo occorra prioritariamente mettere in collegamento, far confrontare e organizzare le avanguardie comuniste presenti nel sindacato e nei luoghi di lavoro. E’ quindi necessario mettere mano all’unico strumento veramente efficace per tutto questo e che manca ormai da troppi anni: un Partito Comunista degno di questo nome ed all’altezza dei compiti della fase. Non solo un Partito Comunista che possa unire, ma soprattutto in cui tutti i comunisti possano riconoscersi e vedere una prospettiva al di là della mera sopravvivenza.
Oggi nelle fabbriche, nei call center, nella grande distribuzione, nelle cooperative sociali, come in altri luoghi di lavoro, esistono situazioni diversificate dovute alle tante tipologie contrattuali che hanno lo scopo di rendere il lavoro e la vita precaria, determinando il totale asservimento dei dipendenti alle logiche di impresa. Questo ha provocato la frammentazione dei lavoratori e la loro potenziale e costante contrapposizione.
Il tema del sindacato, dello snaturamento della sua funzione, della sua progressiva istituzionalizzazione, della continuità con un sistema di relazioni concertative, sembra essere l’unico motivo di tutto quello che sta accadendo. Ma non possiamo pensare che un soggetto quale il Sindacato, che per sua natura ha funzione di contrattazione e mediazione per strappare condizioni favorevoli a tutto il lavoro salariato, possa essere la causa unica di tutto ciò. E, di contro, non è possibile che l’inizio di una nuova stagione conflittuale, nelle condizioni citate, possa risolvere tutti problemi. Non possiamo pensare che il vuoto della risposta politica e di classe possa essere stato causato unicamente da linee sindacali errate. E allo stesso modo non possiamo illuderci che questo vuoto venga colmato da una linea sindacale eventualmente corretta.
È sicuramente vero che la degenerazione sindacale, anche morale, ha prodotto uno snaturamento della sua funzione e un aumento della sfiducia, provocando la perdita della forza indispensabile per un Sindacato per essere controparte, riducendosi sempre più a centro di servizi. Ma non possiamo addebitare al sindacato la responsabilità del fatto che in questo paese non c’è più una politica di classe capace di risvegliare passioni ed entusiasmi attorno ad un progetto di trasformazione radicale della società. Possiamo dire che le nuove generazioni, ma anche quelle precedenti, siano cresciute e stiano seguendo modelli dettati dal potere reazionario ed economico.
La Fiom, grazie alla battaglia che, non da sola, sta conducendo in questi ultimi tempi, viene avvertita diffusamente come ultimo baluardo di democrazia e di difesa dei diritti. C’è, da parte di tanti altri sindacati extraconfederali, un’azione simile, una battaglia talvolta anche più dura. Ma non si riesce ad unire la lotta nemmeno verso uno sciopero generale di tutti i principali sindacati che rappresentano la classe. La risposta che ciò non avviene solo per la resistenza della Cgil non è sufficiente. Esiste una condizione sfavorevole dal punto di vista della cultura dominante e della consapevolezza diffusa tra le lavoratrici ed i lavoratori. E d’altra parte sarebbero i lavoratori stessi, se consapevolmente convinti, a spingere le loro organizzazioni verso la mobilitazione generale. E in piccola parte questo sta anche avvenendo, ma purtroppo è ancora il corporativismo, il ceto a prevalere sulla base.
I Comunisti devono battersi con fermezza e determinazione perché i sindacati assolvano sino in fondo il proprio ruolo. Devono quindi essere presenti, con avamposti organizzati e coordinati tra loro, in tutti i sindacati in cui è utile difendere le condizioni, i diritti ed in ultima analisi il salario della classe lavoratrice. Lotte di questo tipo e l’esistenza di sindacati più radicali, possono creare un clima propizio per la modifica dei rapporti di forza col padronato e tendenzialmente anche sul piano politico nei confronti dei nostri nemici di classe. Una classe attiva nel sindacato guadagna spazio, visibilità, fiducia in sé stessa, e crea oggettivamente le migliori condizioni per la crescita dei comunisti.
Del resto, la coscienza sindacale, la volontà cioè del lavoratore di difendere collettivamente posto di lavoro e salario, costituisce il primo gradino necessario ma non sufficiente per una presa di coscienza politica: la comprensione che nella società capitalista la lotta per difendere lavoro e salario non avrà mai fine se non si lotta per una società nuova. Da una massa di lavoratori privi di coscienza sindacale non ci si può aspettare in alcun modo una coscienza più avanzata di carattere politico.
Militare nei sindacati di massa è, da sempre, utile ai comunisti per “tenere i piedi per terra”, per avere il polso della propria classe, misurandone anche l’eventuale grado di arretratezza ideologica e politica e per tentare di influenzarne larghi numeri. I comunisti, ovviamente, lottano contro ogni limitazione della libertà di organizzazione sindacale, contro ogni controllo da parte dello Stato, dei capitalisti, della Chiesa e dei partiti della classe dominante. Inoltre considerano una priorità assoluta costruire sindacati in tutti quei settori della classe lavoratrice che ne sono privi e si impegnano a ricostruirli dalla base quando questi vengono distrutti. Non solo. Laddove la deregolamentazione e la sottomissione completa del mercato del lavoro alle esigenze del rilancio del processo di accumulazione capitalistica impone condizioni lavorative nuove, i comunisti devono provare tutte le strade più adeguate anche se non sono quelle classiche. La crisi ed il processo di delocalizzazione, decentramento, precarizzazione e esternalizzazione dei processi produttivi ha portato a estendere il peso della sottoccupazione e a imporre una manodopera estremamente flessibile. Mentre prima avevamo sostanzialmente di fronte solo: la forma contrattuale “classica”, la disoccupazione e il lavoro nero; oggi le forme dello sfruttamento salariato hanno allargato una fascia di generazione precaria che coinvolge milioni di persone tra lavoratori cosiddetti atipici, a tempo, immigrati, ecc…
La crisi fa comprendere meglio oggi come la condizione di “precarietà” in realtà sia una condizione “tipica” del capitalismo che da sempre che “garantisce” una vita dignitosa solo in subordine alla forza della lotta di classe e/o alle proprie esigenze di accrescere i profitti.
Quindi questi lavoratori precari possono e debbono essere organizzati nella stesso sindacato assieme ai propri colleghi con contratti a tempo indeterminato per un’unica lotta che stabilizzi e unifichi salario e diritti. E già questo piano, apparentemente semplice da comprendere, i sindacati tutti stentano a perseguirlo. In altri casi, poi, questi lavoratori sono eccessivamente dispersi, individualizzati nel rapporto di lavoro e inquadrati con un lavoro falso autonomo che li esclude dalle tutele sindacali di legge. Se non si cercano strade, a volte da sperimentare, che facciano convergere queste differenti forme in un’unica lotta, l’indignazione e la sete di diritti che molti di questi lavoratori intermittenti provano rischiano di trasformarsi in divisioni interne alla classe.
I comunisti devono cercare – in ogni condizione data – di trasformare questa sete di dignità in un progetto di società differente oltre ogni confine di contratto, di categoria o di nazionalità.
Le vicende della lotta di classe hanno fatto sì che si sedimentassero in ogni Paese diverse organizzazioni sindacali. La frammentazione è particolarmente accentuata in Italia. In queste condizioni si pone il problema di quale organizzazione i comunisti debbano scegliere per investire le proprie energie. Secondo noi i criteri di scelta non devono in alcun modo dipendere da una linea più “radicale” di un sindacato rispetto a un altro. Come abbiamo detto, la linea sindacale dipende largamente dallo stato della coscienza delle masse oltre che dalla posizione dei propri dirigenti. I comunisti devono scegliere il sindacato che – a partire dal proprio posto di lavoro, poi dalla propria categoria e quindi dall’insieme della classe lavoratrice – permette loro di stare più a contatto con le larghe masse. Ciò può significare in molti casi militare in sindacati apertamente concertativi e neo-corporativi, a patto che non si perda mai la direzione verso un progetto comune di tutti i comunisti, se questi raccolgono la massa dei lavoratori di una certa fabbrica, o categoria, o classe.
Così come può significare il dover cercare altre strade di organizzazione dei lavoratori nei settori “atipici” (lavoratori intermittenti, immigrati, ecc…) dove gli strumenti classici non riescono ad arrivare. Ne deriva che i comunisti non devono coltivare alcuna adesione “politica” o identificazione sentimentale con il sindacato al quale appartengono. Non alimenteranno in alcun modo lo spirito di corpo, la divisione tra sigle, il patriottismo organizzativo ed altri sentimenti che, pur comprensibili, non fanno altro che aumentare il settarismo tra sindacati e la divisione delle lotte. L’identificazione completa dei comunisti con un certo sindacato è frutto della frustrazione, del disorientamento e della perdita incipiente di identità politica nonché della capacità di incidere nei processi reali della lotta di classe.
I comunisti devono lottare instancabilmente per l’unità della classe lavoratrice e il lavoro nei sindacati deve tendere a favorirne le condizioni. Questa lotta può prendere varie forme a seconda della congiuntura e delle condizioni ambientali. All’interno del posto di lavoro significa privilegiare sempre l’azione degli organismi di rappresentanza eletti dai lavoratori (in Italia, con tutti i loro limiti, le RSU ma anche i comitati spontanei di lotta e sciopero) rispetto alle rappresentanze sindacali aziendali o a quelle imposte dai vertici burocratici. Nella categoria significa ricercare instancabilmente occasioni di lotta unitaria tra sigle diverse rifiutandosi di avallare scelte suicide come l’indizione di scioperi in date diverse per la stessa vertenza. E’ meglio un’unica manifestazione con piattaforme diverse che diverse manifestazioni, perché questo fatto disorienta e demoralizza i lavoratori e ringalluzzisce i nostri nemici di classe. Quando la frammentazione non è all’interno del proprio posto di lavoro ma tra una categoria e l’altra, i comunisti devono battersi per superare i confini di categoria e fondare camere del lavoro, coordinamenti e istituti di lotta dove siano rappresentati tutti i lavori. A livello dell’intera classe i comunisti devono lottare strategicamente per l’unificazione di tutte le organizzazioni sindacali verso un Sindacato di classe. Anche se oggi la sua “costituente” non è all’ordine del giorno va imposta sul campo intanto la linea del “sindacalismo di classe” a qualsiasi sigla si appartenga. Più linee sindacali possono convivere all’interno della stessa sigla sindacale e confrontarsi liberamente contendendosi il consenso.
Anzi, come elemento di contrasto della divisione tra sigle e categorie e terreno di coltura per un vero sindacalismo di classe, le comuniste ed i comunisti devono favorire il collegamento sempre più esteso dei lavoratori attraversi istituti consiliari e assemblee autoconvocate che, nelle condizioni dell’attuale contesto del mercato del lavoro, sfuggano al controllo di questa o quella sigla sindacale. Anche al di là delle volontà dei propri sindacati, occorre ripartire dalle “piattaforme unitarie” che dentro il movimento dei lavoratori diano un’anima ricompositiva, ovunque ci siano gli elementi del conflitto, sui punti più avanzati, aggregativi, di ricostruzione della capacità assembleare di decidere insieme, cercando di andare a riflettere anche sulla composizione sociale di questi punti avanzati di conflitto. Un sindacalismo di classe che oggi, necessariamente, ha una sola anima conflittuale ma due gambe organizzative (all’interno della FIOM e della sinistra CGIL da un lato, nel sindacalismo di base dall’altro).
E’ la risposta di unità dal basso spesso incompatibile con i limiti imposti dal padronato, contrapposta a quella tra le burocrazie sindacali spesso utile alla compatibilità (vedi nuovo Patto Sociale). Insomma, il Sindacato di classe resta la forma più alta di organizzazione e di resistenza all’interno delle leggi del capitalismo; il Consiglio rimane la forma più incompatibile di organizzazione contro il capitalismo (e in determinate condizioni, come dimostrarono Lenin e Gramsci, la base per lo sviluppo di un nuovo modello di democrazia operaia “oltre” il capitalismo); il Partito la forma più alta di organizzazione per combattere il capitalismo ed avviare una trasformazione sociale rivoluzionaria.
A ognuno il suo compito. Ai comunisti quello di legare tutto questo con una linea politica coerente.
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