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Titanic Europa. Ormai è a rischio anche la moneta unica. Parte II

Post n°407 pubblicato il 20 Giugno 2011 da VoceProletaria

Titanic europa. ormai è a rischio anche la moneta unica.

di Vladimiro Giacché,  16.06.2011

....

Ovviamente, a questo elenco si potrebbero aggiungere altre conseguenze plausibili. Tra le più probabili, va menzionato un forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato di tutti i Paesi considerati in difficoltà, inclusa l’Italia. Che tra l’altro sta già finendo sotto i riflettori degli investitori internazionali essenzialmente per due motivi:
1) il primo è rappresentato dalla sciagurata revisione delle regole di Maastricht decisa al Consiglio Europeo del 24 marzo, che impone ai Paesi ad alto debito manovre di rientro nella misura di un 1/20 del debito eccedente il 60% del prodotto interno lordo ogni anno. Questo obiettivo – accettato supinamente dal governo Berlusconi – comporta tagli alla spesa pubblica (e quindi degli investimenti pubblici) tali da colpire fortemente la domanda interna e anche la crescita della competitività (a cui sarebbe essenziale, ad es., un potenziamento delle infrastrutture);
2) il secondo è la bassa crescita (e il disavanzo commerciale), che rende impossibile diminuire il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo attraverso un aumento del pil anziché attraverso una riduzione del debito.
È evidente che, se a questi problemi già sul tappeto si aggiungesse un forte rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato (ossia degli interessi che lo Stato deve pagare ai suoi debitori), la situazione diverrebbe assolutamente incontrollabile. E condannerebbe il nostro Paese, se si decidesse di accettare la linea di rigore cara alla BCE e alla Commissione Europea, a un destino greco: manovre lacrime e sangue per ridurre il debito, depressione economica e quindi aumento del debito; e in prospettiva, dopo altri anni di stagnazione, l’insolvenza.
Conclusioni
Proviamo a trarre qualche conseguenza da quanto abbiamo visto.
1. La strategia di attacco al debito voluta dall’establishment europeo (quindi Bruxelles e Francoforte, ma anche – ed è bene sottolinearlo – i governi nazionali che partecipano al Consiglio Europeo, incluso quello italiano) conduce inevitabilmente ad una riduzione della domanda. Essa infatti prevede:
a.) che il debito pubblico sia ridotto attraverso un surplus primario delle finanze pubbliche (e questo implica minore domanda legata alla spesa pubblica);
b.) che il debito delle famiglie sia ridotto attraverso una crescita del tasso di risparmio;
c.) che il debito delle imprese rientri almeno in parte, la qual cosa può avvenire solo attraverso l’effetto combinato di una crescita del saggio di profitto e di un calo del tasso di investimento, e quindi una crescita del tasso di autofinanziamento nella misura utile a ridurre il debito.
Tutti questi elementi concorrono a deprimere la domanda. È una strategia che può funzionare soltanto a patto che il Paese interessato abbia una forte vocazione esportativa e che esporti soprattutto al di fuori dell’Unione Europea. Questa condizione si applica soltanto alla Germania, e – in parte – ad Austria, Olanda e Finlandia. Non si applica a nessuno dei Paesi del Sud Europa (Francia e Italia incluse).
2. Pertanto la strategia europea di rientro del debito ha i seguenti caratteri:
a.) è marcatamente di classe: il rientro dal debito pubblico, per tutti gli Stati che hanno impegnato ingenti risorse per salvare il sistema finanziario nel 2008 e 2009, significa che questi soldi ora si vanno a prendere riducendo il salario indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni): a questo infatti nella sostanza si riduce gran parte delle manovre di rientro elaborate dai governi.
b.) È discriminatoria nei confronti di alcuni Paesi europei, la cui struttura produttiva mal si adatta a questa strategia. Per questa via, le attuali strategie europee di rientro dal debito di fatto fanno sì che la distruzione di capacità produttiva necessaria per far riprendere i profitti avvenga principalmente a spese delle attività manifatturiere dei Paesi del Sud Europa, accentuando processi di deindustrializzazione già da tempo in atto in questi Paesi (tra cui il nostro).
3. Ma siccome gli effetti di queste manovre sono socialmente ed economicamente distruttivi per alcuni Stati, e siccome è praticamente scontato un effetto domino a livello europeo
a.) per le ripercussioni che l’esplodere di crisi del debito nei Paesi del Sud avranno inevitabilmente sui sistemi bancari dei Paesi del Nord;
b.) per le ripercussioni che tutto questo avrà sulla struttura stessa dell’Unione Europea, a partire dalla moneta unica;
c.) per il possibile innesco di un’altra crisi simil-Lehman (ma l’esempio migliore sarebbe quello del Creditanstalt austriaco nel 1931);
allora la strategia europea ha un’altra caratteristica: non funziona in generale. Ossia, alla lunga, per nessuno. Neppure per la Germania.

4. Per quanto riguarda più in particolare l’Italia, un’intransigente opposizione ai tagli della spesa pubblica che si prospettano è obbligata dai seguenti punti di vista:
a.) Si tratta di misure di classe, alle quali va contrapposta la possibilità concreta di recuperare sul piano delle entrate, attraverso lotta all’evasione fiscale (120 miliardi il gettito evaso ogni anno) e imposte patrimoniali ben calibrate, le somme sufficienti a manovre anche di entità significativa. Ovviamente il problema è la volontà politica: questo governo non può agire in tal senso perché eroderebbe in misura significativa la propria base elettorale.
b.) Si tratta di misure che, in quanto imperniate sulla riduzione della spesa pubblica, per i motivi visti sopra non scongiurano la crisi del debito, ma la rendono più probabile e più catastrofica.
c.) Si tratta di misure che comportano un sostanziale ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’economia, riportando di fatto la situazione all’era del laissez faire dell’Italia pre-unitaria.
d.) Infine, è il vincolo stesso alla riduzione del debito secondo le modalità viste sopra (di fatto un peggioramento dello stesso trattato di Maastricht) in una fase economica come l’attuale a risultare penalizzante oltre misura in particolare per l’Italia. Da questo punto di vista deve essere denunciata la gravità sul piano della stessa sovranità nazionale dell’accettazione da parte del governo Berlusconi di queste norme-capestro dall’effetto potenzialmente devastante per il nostro Paese.

In questo contesto, è compito dei comunisti italiani

1. Consolidare i rapporti con tutti i partiti e i movimenti che in Europa si battono contro le manovre micidiali imposte dall’Unione Europea, a partire dai compagni del KKE in Grecia e del PCP in Portogallo.
2. Contrapporre all’Europa dei capitali, che sta implodendo sotto i colpi della crisi e per le proprie interne contraddizioni, un’Europa del lavoro: che non significa astrattamente “più diritti” nell’attuale contesto di mercato capitalistico (come in qualche cialtronesca “nuova narrazione” ci capita di sentire), ma – in concreto – un’Europa che unifichi verso l’alto gli standard salariali e di protezione dei lavoratori, difenda lo Stato sociale e allarghi la sfera di ciò che è pubblico, introducendo forme di orientamento e di controllo sociale della produzione.
3. Lanciare una grande battaglia per la democrazia in Europa: per restituire alla sovranità popolare tutti i poteri e le decisioni che in Europa sfuggono ad un controllo democratico.
*[l’articolo è in stampa per la rivista “Marx 21 – nuova serie de l’ernesto – rivista comunista”]

 
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