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L'incendio di Odessa e la stampa italiana

Post n°937 pubblicato il 08 Maggio 2014 da VoceProletaria

L'incendio di Odessa e la stampa italiana

Un pogrom antirusso, squadre naziste, elicotteri d'assalto, un rogo raccontato in modo vergognoso dalla stampa italiana. Il dramma ucraino e i media italioti

Pino Cabras | megachip.globalist.it

03/05/2014

Vediamo i lenzuoli sui corpi di decine di persone, nelle videoriprese di Odessa, in Ucraina. Lì è in atto un pogrom antirusso in pieno XXI secolo, con lancio di molotov, granate artigianali, assedi, bastonature. Squadre nazistoidi di Pravy Sektor ("Settore Destro"), protette e inquadrate anche nel resto del Paese da una giunta insediatasi dopo aver allontanato con la violenza un presidente eletto regolarmente, stanno devastando i luoghi di aggregazione sociale e politica - ossia i partiti, le associazioni, i sindacati - di una parte della popolazione di Odessa (maggioritaria) identificabile come russa, russofona o filorussa. La polizia della città sul Mar Nero ha lasciato fare per ore.

Ma le vergognose testate italiane fanno a gara per sopire e troncare la reale portata della notizia.

Distinguere fra un generico incidente e una strage politica: il confine per capire quali tempi di fuoco si avvicinano passa da qui, dai 38 morti del 2 maggio di Odessa (per tacere degli altri episodi da guerra civile nel resto di un paese in bancarotta).

In materia di guerra la stampa italiana, specie sul web, ci ha già abituati al peggio negli ultimi anni. Con il dramma dell'Ucraina si è già subito portata ai suoi peggiori livelli, già raggiunti nel disinformare i lettori sulla guerra in Libia e poi in Siria. Le pagine web italiote ci farebbero davvero ridere, se non parlassimo di una tragedia: i 38 filo-russi bruciati in una sede sindacale dai nazionalisti ucraini di estrema destra sono diventati delle generiche "38 vittime in un incendio". «Quasi si trattasse di un incidente e non di un massacro politico», commenta Daniele Scalea, direttore dell'IsAG, un istituto di studi geopolitici molto attento alle vicende dell'Europa orientale. Scalea e anche noi ci domandiamo cosa avrebbero scritto nel 2011 il Corriere della Sera, o la Repubblica, o Il Fatto Quotidiano, se dei miliziani di Gheddafi avessero assediato decine di manifestanti fino a farli bruciare vivi.

Ecco come il canale televisivo russo RT riferisce i fatti:

«Almeno 38 attivisti antigovernativi sono morti nell'incendio della Camera del Lavoro di Odessa a seguito del soffocamento per il fumo o dopo essere saltati dalle finestre dell'edificio in fiamme, ha riferito il ministro dell'Interno ucraino. L'edificio è stato dato alle fiamme dai gruppi radicali pro-Kiev.»

Così invece li racconta il Corriere:

«Trentotto persone sono morte in un incendio scoppiato nella città ucraina di Odessa e legato ai disordini tra manifestanti filo russi e sostenitori del governo di Kiev.»

Così, genericamente, un incendio "legato ai disordini"...

Ancora, il pezzo su Repubblica suona così:

«È di almeno 38 morti anche il bilancio delle vittime degli scontri tra separatisti e lealisti a Odessa, città portuale ucraina sul Mar Nero. "Uno di loro è stato colpito da un proiettile", ha riferito una fonte all'agenzia Interfax, "mentre per quel che riguarda gli altri non si conosce la causa della loro morte". La sede dei sindacati è stata data alle fiamme. Le persone sono morte nell'incendio. Gli scontri sono violentissimi.» La macabra contabilità si disperde in un groviglio in cui non si capisce chi fa che cosa, quanti muoiono in un episodio o in un altro, chi appicca gl'incendi.

L'Unità riesce a fare peggio di tutti. La salma del giornale di Gramsci scrive infatti che la sede del sindacato è stata bruciata dai separatisti filo-russi (uno scoop malauguratamente ignorato in tutto il resto del mondo). A ulteriore dimostrazione che all'Unità non sanno quel che dicono, aggiungono che sono stati «abbattuti due elicotteri filorussi, Mosca furiosa», come se la rivolta avesse una sua aviazione all'opera.

Naturalmente la notizia era inversa: due elicotteri d'assalto Mi-24 delle forze speciali di Kiev (che stanno combattendo assieme a contractors stranieri e milizie naziste), sono stati abbattuti dalle forze ribelli. Notizia molto preoccupante, se vista nelle sue implicazioni, possibilmente quelle esatte, della possibile escalation del conflitto.

Se puntiamo di nuovo l'attenzione al rogo di Odessa, la conclusione è dunque chiara: gli organi di informazione nostrani sono reticenti, quando non falsificano, perché non riferiscono che le vittime sono state tutte di una parte, né che la causa immediata della loro morte sia stato un incendio doloso appiccato dalla milizia del partito nazista Pravy Sektor presso la sede di un sindacato.

Questo accade nell'Odessa del 2014 e non nella Ferrara del 1921 né nella Stoccarda del 1932. A quel tempo c'erano ancora organi di informazione che raccontavano la portata reale della catastrofe, prima di esserne travolti.

Non sappiamo ancora se il veleno della catastrofe politica di questo secolo potrà essere evitato, data la risolutezza degli apparati atlantisti nel precipitare nel caos l'Ucraina, paese chiave della sicurezza comune europea.

L'unico antidoto esistente può funzionare solo se diventa un fenomeno politico e mediatico di massa: l'antidoto è informarsi e informare, fuori dalla ragnatela mediatica dominante, far sapere tutto su chi vuole estendere il grande incendio, ben oltre i palazzi di Odessa.

 

 
 
 

UNA GIORNATA COME LE ALTRE

Post n°936 pubblicato il 28 Gennaio 2014 da VoceProletaria

UNA GIORNATA COME LE ALTRE

di Nikita Pilò,  01.2014

Ho caldo. Sono stanco.
"Cosa ho fatto ieri?"
...
Non me lo ricordo.
La mensa. Quella signora scorbutica con i capelli rossi e il viso ossuto, che mi
spiattella la minestra sul piatto con schifo.
"Stronza" penso, "sono io a mangiarlo" "tu andrai a casa, al caldo, a mangiarti
un gustoso arrosto con la tua dolce famigliola".
Quanto odio questa mia invidia.
Il cappotto nero, regalatomi dalla Sara, mi fa sudare. Però ci tengo troppo per
correre il rischio di perderlo, ma non ho un posto sicuro dove lasciarlo.
La barba prude. "Dove Sara finita la lametta?" "Il rasoio non l'ho mai avuto, a
parte quando stavo ancora a casa".
In realtà, poco mi importa, c'è di peggio del prurito facciale...
"Che imbarazzo"...
Sono stanco.
"Dove vado ora?"
È troppo presto per andare a dormire.
"Dove vado?"
Sono in piazza Maggiore, è sempre rimasta uguale in questi 15 anni in cui l'ho
vissuta con lei.
Sono cambiate le persone, gli stili, i venditori.
"Peccato che non sia sabato per sentire un po di musica di quello strimpellato
che chiamano "Beppe Maniglia".
Andrò dalla Sara". La mia ultima delusione.
"Dovrei trovarmene un'altra". "So che lei non mi vuole più."
Ma è così carino vederla arrabbiare…

 
 
 

Mandela e la sua contraffazione nei deliri di “Repubblica”

Post n°935 pubblicato il 16 Dicembre 2013 da VoceProletaria

Mandela e la sua contraffazione nei deliri di “Repubblica”


12 Dicembre 2013
di Spartaco A. Puttini per Marx21.it

Il mondo sta rendendo il giusto omaggio a Nelson Mandela, una grande figura di rivoluzionario e alfiere dell’emancipazione del suo popolo dai lacci del razzismo, che è uno storico corollario del colonialismo e dell’imperialismo.

Purtroppo più che commemorare Mandela per quello che è stato e per come è stato il circo mediatico non può sfuggire alla necessità di edulcorare la sua figura di combattente e così al posto di Mandela si cerca di offrire al pubblico un santino evirato e sostanzialmente innocuo.

Mandela viene giustamente ricordato come un campione della lotta contro il regime razzista dell’apartheid ma è il contesto della sua lotta che viene abilmente taciuto.

Egli ha fatto interamente parte di quel movimento di liberazione dei popoli di colore dal suprematismo bianco e dall’imperialismo occidentale che ha scosso il mondo dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, portando alla decolonizzazione di interi continenti che nel giro di pochi decenni, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, erano stati completamente spartiti, predati e riorganizzati dalle potenze capitalistiche avanzate in base ai loro esclusivi interessi.

Quello di Mandela è il capitolo di una storia di riscossa e rinascita che affonda le proprie radici a partire dalla rottura del fronte dei paesi imperialisti a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, rivoluzione che generò un nuovo potere statuale sulle macerie della Russia zarista. Potere che per primo si pose l’obiettivo di saldare la lotta di classe per l’emancipazione degli sfruttati nelle metropoli capitalistiche e la lotta di liberazione nazionale dei popoli che erano asserviti dall’imperialismo.

Il richiamo che la Russia sovietica, il Komintern e l’intero movimento comunista internazionale esercitarono sui popoli di colore e l’impatto del loro appoggio alla causa della liberazione dal giogo coloniale e imperialistico fu enorme. Dal secondo congresso del Komintern Lenin annunciò l’alleanza strategica del movimento comunista con le correnti del nazionalismo rivoluzionario. E i militanti nazionalisti di quello che più tardi si sarebbe chiamato Terzo Mondo presero a guardare con fiducia e simpatia verso Mosca, sicuri di aver trovato una sponda cui appoggiarsi per lottare contro l’oppressione occidentale.

Alcuni militanti nazionalisti maturarono poi convinzioni che li portarono a diventare comunisti, altri non giunsero a tanto, ma compresero l’importanza dell’Ottobre e videro nell’Unione Sovietica e nel movimento comunista internazionale un naturale alleato nella lotta antimperialista. Ancor più dopo che la costruzione della potenza sovietica permise di sconfiggere il nazifascismo e il suo ambizioso tentativo di imporre i disumani metodi di dominio e sopraffazione che le potenze imperialiste avevano già applicato nelle colonie allo stesso continente europeo, fino a progettare lo sterminio sistematico di intere popolazioni.

Il crollo della Germania e del Giappone aprì una nuova fase della storia dei popoli di colore. Anche gli imperi coloniali che erano usciti vincitori dalla guerra tremarono. Iniziava la decolonizzazione. Fu il momento della rivoluzione cinese, di quella coreana, della sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu ad opera dei vietnamiti. Fu l’inizio della sollevazione dell’Indocina, dell’Algeria. Fu l’annuncio della rinascita araba e anche di quella dei popoli africani.

Mandela ha fatto parte di questa storia. Insieme a Nkrumah, a Lumumba, a Kabila, a Nyerere, a Neto, a Cabral, a Sankara e a Mugabe, per non citare che i nomi di alcuni protagonisti della riscossa dell’Africa nera.

In questi giorni quel foglio reazionario che risponde al nome di “Repubblica” ha riproposto, per il lavaggio del cervello dei suoi incauti lettori, un articolo tratto dal “New York Times”1.
E’ noto che gli Stati Uniti appoggiarono fino all’ultimo il regime sudafricano dell’apartheid e che trattarono Mandela alla stregua di un feroce terrorista. Per quanto sia di cattivo gusto proporre un ricordo di Mandela da parte di uno degli organi di stampa ufficiali della politica statunitense alcuni rilievi dell’articolo meritano che ci si soffermi e che si abbia il coraggio di guardare il fondo della latrina.

L’articolo di Bill Keller congettura sull’appartenenza o meno di Mandela al partito comunista sudafricano. Ma poi, a ben guardare, si sente in dovere di scagionarlo da tale ipotetica macchia sottolineando che in fondo il leader sudafricano è stato molte cose: “un nazionalista nero e un anti-razzista, si dichiarò contrario alla lotta armata e giustificò la violenza, fu una testa calda e diede prova di calma olimpica, fu divoratore di opuscoli marxisti e ammiratore della democrazia occidentale, stretto alleato dei comunisti e, durante la sua presidenza, partner dei potenti capitalisti sudafricani”. In fondo fu compagno di strada dei comunisti solo per avere degli alleati e l’aiuto più grande glielo diedero quando crollò il campo socialista, disinnescando il pericolo rappresentato dall’ANC in Sudafrica agli occhi di Washington, perché ormai la guerra fredda era finita. Questa la tesi. Una tesi che sembra suggerire, tra le altre cose, non senza suscitare involontariamente una certa ilarità, che se non ci fosse stato il pericolo sovietico sarebbero stati gli Usa a mettersi alla testa dei movimenti rivoluzionari e di emancipazione del pianeta.

In realtà l’articolista può smetterla di arrovellarsi: Mandela è stato membro del SACP e membro del suo Comitato Centrale per giunta, come ricordato dai comunisti sudafricani nel loro necrologio ufficiale2.

Successivamente, da leader dell’African National Congress, è stato un alleato fedele del partito comunista nella lotta di liberazione contro il regime dell’apartheid, tessendo un’alleanza che dura ancora, e non a caso.

Mandela ha guardato al movimento comunista, come moltissimi altri con lui in ogni continente, perché il movimento comunista è stato il più grande fattore dei processi di liberazione ed emancipazione della storia contemporanea. E’ stato ad oggi l’unica dottrina politica che è riuscita a fondere le due questioni cardinali della nostra epoca: la questione sociale e la questione nazionale. E’ stata una proposta politica che come poche altre ha concorso a trasformare in soggetti attivi masse disperate, fino ad allora oggetto del gioco di altri. Ha innescato il più grande processo di liberazione della storia umana. Nessun altro movimento ha ottenuto e realizzato di più. Coloro che lo criticano o lo deridono fanno riferimento a culture e movimenti politici che non sono arrivati nemmeno alle anche del movimento comunista internazionale.

Certamente quello innescato dal movimento comunista è stato un fenomeno e un processo di liberazione che, come tutto ciò che ha a che fare con la materialità e la concretezza della realtà e non solo con il mondo astratto delle idee declamate nei salotti, ha avuto anche un andamento complesso, non privo di contraddizioni. Ma come ogni movimento e fenomeno storico concreto va colto nelle sue caratteristiche e nei suoi effetti salienti. Chi ne parla a partire dal gulag, senza peraltro minimamente contestualizzarlo, pretende di iniziare un pasto a partire dal caffè.

Tra l’altro il processo di emancipazione innescato dall’Ottobre continua, a dispetto dei capricci della sinistra sinistrata occidentale, convertita o meno al liberismo, sia nella sua variante liberal che in quella radical. Continua nell’ascesa dei paesi emergenti, trainati dalla Cina, continua nel nuovo corso imboccato dall’America Latina e in mille altri processi e movimenti antimperialisti, pur di altri colori e di altre estrazioni ideologiche, che stanno cambiando i rapporti di forza su scala mondiale e il volto stesso della modernità. Continua nell’erosione della supremazia statunitense e occidentale, verso le quali, anche in tempi recenti, Mandela ebbe parole durissime.

Non è dunque frutto del caso l’alleanza strategica tra Mandela, l’ANC e i comunisti. Ed è un dato di fatto che fa onore tanto a Mandela e ai nazionalisti sudafricani che al movimento comunista nel suo complesso. Ma accettare questo fatto, comprenderlo, implicherebbe il ribaltamento della ideologia “liberal” e americanista fatta propria dal fogliaccio di Scalfari e da quella porzione del panorama politico e culturale che vi vede un riferimento. Allora crollerebbe il castello di colossali frottole costruite per l’immaginario della sinistra sinistrata negli ultimi decenni, immaginario propedeutico al disarmo totale e all’integrale accettazione nel sistema valoriale del pensiero unico e del suo blocco di interessi.

Mandela, proprio come i suoi compagni di lotta comunisti, non è stato tenero in un’epoca e contro un nemico con il quale teneri non si poteva essere. Non siamo solo noi a scegliere, a volte sono altri a spingerci verso determinate scelte, come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le reciprocità che caratterizzano un sistema di interazioni.

Allora andrebbe anche contestualizzato il regime dell’apartheid e il suo operato. Il suo battesimo nel 1948 e il patto d’acciaio “per la giustizia” con lo Stato d’Israele, suo eterno alleato. Un alleato che avrebbe fornito al Sudafrica tutti i sistemi d’arma di cui questi abbisognava3 (dai missili Jericho in poi) per condurre una spietata guerra contro i suoi vicini dell’Africa australe. Un particolare su cui i media, a partire da “Repubblica”, edizione italiana del “Jerusalem Post”, sorvolano volentieri.

Il Sudafrica razzista non fu feroce solo con la propria popolazione nera, fu feroce anche con i paesi limitrofi che aggredì e occupò a più riprese. La decomposizione dell’impero coloniale portoghese in Africa australe e l’affermarsi di movimenti di liberazione nazionale di ispirazione marxista in Angola e in Mozambico erano visti dal regime sudafricano come il fumo negli occhi. Le fiamme della lotta di liberazione stavano incendiando la prateria e il fuoco attizzava il risveglio della popolazione della Namibia (occupata dal Sudafrica dalla fine della prima guerra mondiale) e della stessa popolazione nera sudafricana in tumulto.

In quell’angolo di mondo la guerra fredda divenne calda, come ha scritto con dovizia di particolari Vladimir Shubin, in un saggio che ricostruisce quella guerra e che incredibilmente non ha ancora trovato un editore italiano4. Da una parte il regime sudafricano appoggiato da Israele, dagli Usa e dalla Gran Bretagna e affiancato sul terreno dalle contras costituite dalle bande armate controrivoluzionarie dell’UNITA e dalla RENAMO; dall’altro campo l’Angola, il Mozambico, i partigiani namibiani della SWAPO sostenuti dai volontari cubani e dagli aiuti diretti dell’Unione Sovietica, che inviò uomini e materiali in un gigantesco sforzo logistico.

E’ una guerra la cui storia meriterebbe ben altra trattazione. Una guerra in cui la divisione degli schieramenti già dice tutto, più di mille parole. Una guerra della quale non si parla volentieri.

Una guerra che finisce allorquando il Sudafrica subisce una disfatta militare irreparabile a seguito della battaglia di Cuito Cuanavale nei primi mesi del 1988, la più grande battaglia della storia africana dopo quelle del secondo conflitto mondiale. Determinante l’aiuto cubano all’Angola. Determinante la solidarietà internazionalista tra i movimenti di liberazione dell’Africa australe. Determinante, per il risvolto sudafricano della vicenda, il patriottismo con cui Mandela e l’ANC sono andati fino in fondo senza mai arrendersi alle avversità.

Dopo Cuito Cuanavale diviene chiaro che il regime razzista dell’apartheid non può vincere e che non ha più prospettive. Il compromesso che sta alla base della liberazione di Mandela e della nascita del nuovo Sudafrica è a quel punto un risultato strappato con le unghie e con i denti e accettato, per realpolitik, come il male minore dagli Usa, che però impongono al paese la rinuncia all’arma atomica, progettata in comunione con Israele.

Mandela ha riconosciuto il peso determinante avuto dagli eventi angolani e soprattutto dall’impegno cubano nel conflitto australe nell’avergli aperto le porte della prigione: “Cuito Cuanavale segna la virata nella lotta per la liberazione del continente africano e alla sferza dell’apartheid nel nostro paese […] La sconfitta dell’esercito razzista a Cuito Cuanavale diede la possibilità all’Angola di godersi la pace e consolidare la propria sovranità […] permise al popolo combattente della Namibia di conquistare finalmente la propria indipendenza […] e servì da ispirazione al popolo combattente del Sudafrica”5.

Il Sudafrica di oggi resta un paese attraversato da molte contraddizioni, che si trova nell’esigenza di approfondire il suo percorso di liberazione. Ma è un paese migliore. Saldamente ancorato nel fronte antimperialista anche tramite la scelta di aderire al gruppo BRICS con la Cina, il Brasile, l’India e con la Russia di Putin. Un altro elemento su cui molto ci sarebbe da riflettere, infierendo sulla visione astratta del mondo fatta propria da “Repubblica” e dalla sinistra sinistrata liberal e radical.

Oggi Mandela ci viene presentato come un santino senza storia. Lo si mette volentieri nel pantheon dei benpensanti e del politicamente corretto. Magari accanto a Gandhi e a quel predicatore visionario, generoso e un po’ fanatico di Martin Luther King. E’ fargli un torto. Accostarlo a Obama, che si era recato come un avvoltoio in Sudafrica già tempo fa per sfruttare mediaticamente l’evento della morte del grande rivoluzionario per lustrare un po’ la sua immagine, alquanto ammaccata nonostante la santificazione di cui è oggetto da parte della sinistra-destra occidentale, è fargliene due.

Sarebbe meglio ricordarlo con le sue parole:

“Se c'è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d'America. A loro non importano gli esseri umani […] l'atteggiamento degli Stati Uniti d'America è una minaccia per la pace nel mondo6."

Ma non pretendiamo che lo faccia “Repubblica”.

Forse dovremmo essere indulgenti con questi alfieri della sinistra che sta in fondo a destra e che più che sconfitte storiche e leader farlocchi non hanno contribuito a confezionare. Ma è più opportuno tenere a mente quanto diceva Gramsci quando ammoniva a non comprare i giornali antioperai, perché ogni soldo dato dal lavoratore per comprare il giornale del nemico di classe è una pallottola nel fucile della reazione puntato contro il movimento operaio:

“[…] l’operaio deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all’ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione.

Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell’opera di difesa spietata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi pagare …dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente.

Centinaia di migliaia di operai, danno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo così a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete nel tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: ‘perché ho bisogno di sapere cosa c’è di nuovo’. E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possono essere esposti con un’arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso. [...] E non parliamo dei fatti che il giornale borghese o tace, o travisa, o falsifica, per ingannare, illudere, e mantenere nell’ignoranza il pubblico dei lavoratori.

Malgrado ciò, l’acquiescenza colpevole dell’operaio verso il giornale borghese è senza limiti. Bisogna reagire contro di essa e richiamare l’operaio all’esatta valutazione della realtà. Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia”7.

Sono in molti a dare ancora credito alla “Repubblica” in quanto giornale di riferimento del centrosinistra (nonostante quello che è concretamente oggi il centrosinistra) o addirittura “di sinistra”. Un credito ampiamente immeritato, come mostrano gli articoli su quasi tutti i temi più importanti: dalla glorificazione di Monti prima e Napolitano poi, alle prese di posizione sulla politica estera nei riguardi della Russia, dei recenti avvenimenti golpisti in Ucraina, della tragedia libica e di quella siriana. Tutti argomenti sui quali “Repubblica” si è mostrata addirittura più retriva e reazionaria del “Giornale” di Berlusconi.

La sua magnificazione di Obama, del mito americano e di questa Unione europea avida e tirannica e del miraggio cosmopolita col quale far digerire un futuro di emigrazione e miseria per i nostri figli costituiscono ormai il suo distintivo. Anche in merito allo snaturamento dei riferimenti storici della sinistra svolge assai bene il suo ruolo e disgraziatamente la figura di Mandela non poteva sfuggire al trattamento.

NOTE

1 “La Repubblica”, 9 dicembre 2013
2 Per il comunicato del SACP si veda:

http://www.marx21.it/internazionale/africa/23245-i-comunisti-sudafricani-rendono-omaggio-a-nelson-mandela.html
3 http://www.medarabnews.com/2010/05/25/israele-e-l%E2%80%99apartheid-un-matrimonio-di-convenienza-e-di-potenza-militare/
4 V. Shubin, The Hot Cold War: the USSR in Southern Africa; London Pluto Press, 2008
5 http://www.granma.cu/italiano/esteri/25marz-Cuito.html
6 http://rt.com/news/mandela-sharp-quotes-media-860/
7 A. Gramsci, I giornali e gli operai; in: “Avanti!” ed. piemontese, 22 dicembre 1916

 
 
 

Le mistificazioni sulle foibe di Cristicchi.

Post n°934 pubblicato il 11 Dicembre 2013 da VoceProletaria

Cristicchi si presta alle mistificazioni sulle foibe

di Partito Socialista dei Lavoratori Croato,  11.12.2013

Qui di seguito un comunicato dal Partito Socialista dei Lavoratori Croato in merito allo spettacolo teatrale Magazzino 18 di Simone Cristicchi in programma in Croazia e Slovenia:

In questi giorni l'artista romano Simone Cristicchi presenterà in Istria il suo nuovo spettacolo teatrale "Magazzino 18". Temi: l'esodo "giuliano-dalmata" e le foibe. Lo spettacolo è stato oggetto di polemiche già dalle prime date a Trieste. Cristicchi afferma che le critiche gli sono state mosse "sia da destra che da sinistra", ma ha reagito eludendo gli appunti mossigli ed apostrofando sul suo profilo facebook i critici come "ottusi", senza d'altronde spiegare il perché. Cristicchi afferma di aver "voluto solamente raccontare la storia di persone dimenticate [in prevalenza gli esuli], di una tragedia taciuta [l'esodo e le foibe]". Non ci sembra l'esodo e le foibe siano vicende taciute visto che il governo italiano ha istituito addirittura una ricorrenza nazionale (Giorno del Ricordo), ma tant'è. Cristicchi assume il ruolo dell'ingenuo innocente, senza rendersi conto del danno alla verità storica che il suo spettacolo ha provocato.Chi ha criticato il suo spettacolo sono da una parte gli storici cosiddetti "negazionisti" (cioè quelli che rifiutano la manipolazione dei dati da parte degli storici di regime, e la lettura nazionalista e vittimistica che questi ne danno) i quali hanno fatto notare che il contenuto di Magazzino 18 è revisionismo storico; Cristicchi si è difeso affermando che il suo spettacolo vuole solo suscitare emozioni e non fare storia - anche se lo stesso tratta episodi storici molto concreti (ed è questo che l'autore non riesce proprio a capire – oppure fa finta di non capire - viste le posizioni testarde che ha continuato a mantenere), episodi che sono tutt'ora oggetto di acceso dibattito scientifico, lontani dall'assumere un consenso tra gli studiosi; dall'altra parte le associazioni degli esuli hanno criticato Cristicchi a causa della menzione dei crimini dello stato italiano (iniziati ancor prima dell'avvento del Partito Nazionale Fascista al potere) nei territori annessi dopo la I Guerra Mondiale (Istria e Fiume), che inclusero deportazioni, pulizia etnica, snazionalizzazione forzata, e poi pesanti massacri e altri crimini di guerra durante la II Guerra Mondiale nei territori occupati nel 1941 (la costa orientale dell'Adriatico, ma anche nella stessa Istria ed in Slovenia).Dove sta il problema di Magazzino 18? Di sicuro non nel voler "suscitare emozioni"; piuttosto nel voler suscitarle raccontando episodi drammatici del dopoguerra in modo pesantemente mistificatorio. La mistificazione principale sta nel presentare l'esodo degli italiani dalla Jugoslavia come progetto politico (ripeti mille volte una menzogna e diventerà realtà), in barba a qualsiasi documento ufficiale e non, e in barba alla serie di ostacoli che il governo jugoslavo presentava a chi voleva espatriare acciocché ci ripensi e rimanga a lavorare in Jugoslavia. Un'altra mistificazione racconta delle persecuzioni da parte delle autorità jugoslave nei confronti degli italiani "solo in quanto tali" (altra nota leggenda ormai assunta a pietra miliare dallo stato italiano e dai suoi storici lacchè), italiani che dunque "in quanto tali" finirono nelle famose foibe, che vennero costretti ad andarsene, e che venivano discriminati nella vita pubblica: falsità colossali.La verità storica è che i cittadini jugoslavi di nazionalità italiana ricoprirono cariche di non poco conto nella Jugoslavia di Tito; la verità è che nelle foibe, dei nemmeno mille cadaveri stimati dagli storici italiani seri (che includono quelli che danno una lettura vittimistica della componente italiana in Jugoslavia), non è ancora stato documentato quanti siano gli italiani, quanti i partigiani, quanti i tedeschi, quanti i morti in contesti differenti, ecc. E poi, degli italiani "infoibati" (termine generico per indicare chi è stato giustiziato o è scomparso per mano partigiana), quanti erano esponenti del regime, quanti i simpatizzanti, quanti gli "innocenti" (ovvero i bambini e quelli che non si schierano)? E' bene rilevare che una buona parte dei "martiri" premiati in occasione del Giorno del Ricordo erano stati a loro volta persecutori fascisti - i cui crimini sono ben documentati – condannati e giustiziati dalle autorità jugoslave (gli unici criminali di guerra italiani sottoposti a giudizio), dimostrando ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la continuità tra il regime capitalista versione fascista e quello in versione liberale o pseudo tale vigente oggi.Ma oltre alla mistificazione, "Magazzino 18" presenta anche pesanti strumentalizzazioni. Una di queste dipinge il cantautore polese Sergio Endrigo (anche lui emigrato in Italia subito dopo la guerra) come un irredentista anti-jugoslavo, mentre Endrigo è sempre rimasto un grande amico della Jugoslavia, come le sue canzoni nostalgiche dedicate alla sua città abbandonata (Pola) non erano minimamente polemiche verso il governo jugoslavo.Un'altra strumentalizzazione riguarda i mille operai monfalconesi che decisero di emigrare in Jugoslavia per convinzioni ideologiche, per la sicurezza di mantenere lì un impiego, e per il migliore trattamento riservato ai lavoratori nella Jugoslavia socialista, dove la classe operaia era classe dominante, a differenza dell'Italia capitalista, dove era classe subordinata e bistrattata. Questi monfalconesi vengono presi in giro per la loro scelta, perché molti di loro dopo la rottura con il Cominform nel '48 vennero detenuti nel campo di concentramento di Goli Otok (Isola Calva) come nemici politici (perché avevano supportato l'URSS di Stalin che si preparava ad aggredire la Jugoslavia). Di sicuro non vi finirono "perché italiani", visto anche che i pochi italiani finiti a Goli Otok furono un'esigua minoranza dei prigionieri. Ebbene, sia Endrigo che i monfalconesi si rivolterebbero nella tomba sapendo che i nazionalisti italiani (e Cristicchi) li vittimizzano come "italiani vittime dello slavocomunismo". E' veramente ironico che degli anticomunisti italiani annoverino tra i loro martiri dei comunisti staliniani.In tutto lo spettacolo l'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia viene presentata con disprezzo, senza nessun credito verso coloro che per 4 anni combatterono tra sofferenze tremende e a viso aperto il nazifascismo, e che contribuirono a creare una vera democrazia popolare nei territori liberati, riscattando la secolare sottomissione di lavoratori e contadini, dando loro finalmente il potere economico, e con questo la possibilità di decidere del proprio futuro.Ma da quali fonti ha attinto Cristicchi? Sarebbe meglio dire da quale fonte, visto che, incredibilmente, tutto lo spettacolo si basa su un'unica fonte (!), ovvero l'opera parastorica Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, scritta dallo storico improvvisato e parlamentare berlusconiano (e come tale nazionalista e anticomunista, il che equivale a dire antipartigiano) Jan Bernas; opera in continuità con il filone revisionista (e velatamente o apertamente neoirredentista), emerso in piena dopo lo smembramento della Jugoslavia.Magazzino 18 dunque è un altro tassello atto a calunniare la lotta partigiana, comunista e antifascista, che ha sacrificato i suoi migliori elementi per sconfiggere il fascismo voluto dai grandi industriali e banchieri (al fine di salvare il capitalismo dalla minaccia bolscevica, ma anche per incrementare i profitti dei monopoli) e portare l'umanità sulla strada del progresso, dell'emancipazione e della giustizia sociale. Nessuna Repubblica fondata sul lavoro sarebbe emersa, nessun stato sociale e nessun discorso di eguaglianza, senza la lotta partigiana e l'esperienza degli stati socialisti, dall'URSS alla Jugoslavia.Anche se il contenuto storico dello spettacolo non è farina del suo sacco, Cristicchi avrebbe almeno dovuto consultare anche altre fonti, meno politiche e più scientifiche. Ma in questo caso forse non avrebbe ottenuto la più che discreta diffusione che invece ha ottenuto.

 
 
 

ILVA DI TARANTO: VENDOLA AL SERVIZIO DI RIVA

Post n°933 pubblicato il 07 Novembre 2013 da VoceProletaria

ILVA DI TARANTO: VENDOLA AL SERVIZIO DI RIVA


Da Operai Contro
http://www.operaicontro.it

di Francesco Casula,  30 ottobre 2013


C'è anche il governatore della Puglia Nichi Vendola tra i 53 indagati nell'inchiesta sull' ILVA di Taranto.

Concussione ai danni del direttore generale dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato.
È questa l'ipotesi di reato contestata dal pool di inquirenti guidati dal procuratore Franco Sebastio, che ha notificato gli avvisi di conclusione dell'indagine, nella quale sono accusati del disastro ambientale e sanitario di Taranto Emilio, Nicola e Fabio Riva, i vertici della fabbrica e, con capi d'imputazione differenti, anche politici, funzionari ministeriali e locali, membri delle forze dell'ordine, un ex consulente della procura, un sacerdote e il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano.

Negli atti dell'inchiesta "Ambiente svenduto" condotta dalla Guardia di Finanza di Taranto, il governatore era stato indicato come protagonista di una "vicenda concussiva in danno del direttore regionale di Arpa Puglia Giorgio Assennato" e chiamato in causa per l'ipotesi di "mancato rinnovo nell'incarico, in scadenza nel febbraio 2011, per effetto delle sollecitazioni rivolte al governatore Vendola e ai suoi più stretti collaboratori (tra gli altri l'allora capo-segreteria, Manna) proprio dai vertici ILVA".

In sostanza Vendola avrebbe fatto pressioni su Assennato, su richiesta dei Riva, perché si ammorbidisse nei confronti del siderurgico tarantino. Nelle diverse informative i finanzieri, guidati dal colonnello Salvatore Paiano e dal maggiore Giuseppe Dinoi, hanno infatti spiegato che "all'esito di quella vicenda concussiva e per effetto di essa, in realtà il prof. Assennato ridimensionerà (nei confronti dell'ILVA) il proprio approccio, fino a quel momento improntato al più assoluto rigore scientifico".

Il suo intervento, secondo l'accusa, su richiesta dei Riva avrebbe permesso all'ILVA di neutralizzare le ostilità del direttore generale dell'Arpa che, secondo quanto riferito in un intercettazione captata dai militari, dopo l'intervento di Vendola "si è molto responsabilizzato”.

Una "responsabilizzazione" che spinge l'avvocato Franco Perli a suggerire a Fabio Riva di non intervenire oltre per la sua sostituzione perché "potremmo trovarcene anche uno molto peggio". Il nome di Vendola, secondo le indiscrezioni, era già finito nel registro degli indagati da tempo, ma era rimasto segreto perché il presidente della regione Puglia non era mai stato destinatario di alcuna misura cautelare. Ma il lungo elenco di indagati è un vero e proprio terremoto per l'intera Regione Puglia.

Nel registro degli indagati sono finiti infatti anche l'assessore regionale all'ambiente ex magistrato Lorenzo Nicastro, l'ex assessore alle politiche giovanili Nicola Fratoianni, accusati di favoreggiamento nei confronti nei confronti di Vendola.

Non solo. Dello stesso reato dovranno rispondere il direttore generale dell'Arpa Assennato e il direttore scientifico Massimo Blonda.

Secondo il pool di inquirenti, formato anche dal procuratore aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano (che ha coordinato le inchieste di due operai morti nell'ILVA, ora confluite nell'inchiesta per disastro ambientale) i vertici della Regione Puglia e dell'Arpa, nell'interrogatorio dinanzi ai finanzieri come persone informate sui fatti, avrebbero negato le pressioni del governatore tentando così di coprire l'operato di Vendola.

Ma non è tutto.

Perché nell'ultimo atto delle indagini preliminari spuntano anche i nomi di Donato Pentassuglia, consigliere regionale Pd accusato di favoreggiamento nei confronti di Archinà, e quelli del capo di Gabinetto Francesco Manna, del dirigente del settore Ambiente Antonello Antonicelli, dell'ex direttore dell'area Sviluppo economico della regione Puglia, Davide Filippo Pellegrino.

Per i PM, insomma, un intero apparato al servizio dell'ILVA che scende anche nelle amministrazioni provinciali e comunali.

Tornano infatti i nomi dell'ex presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, e l'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva arrestati entrambi a maggio scorso con l'accusa di aver fatto pressione su alcuni dirigenti perché concedessero all'ILVA l'autorizzazione all'utilizzo delle discariche interne (poi autorizzate con decreto del governo) e del sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, accusato di non aver messo in atto, come primo cittadino, le misure necessarie per bloccare i danni alla salute dei tarantini causati dall'azienda.

 
 
 

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