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Perchè tante menzogne sulla Siria?

Post n°932 pubblicato il 16 Settembre 2013 da VoceProletaria

Perchè tante menzogne sulla Siria?

Pisa,.  16.09.2013

All'indomani del loro rilascio dopo mesi di prigionia, alcuni giornalisti da sempre schierati contro il governo siriano hanno precisato che non esistono prove che dimostrino l'utilizzo delle armi chimiche da parte dell'esercito siriano; al contempo, quali testimoni sul campo vissuti 5 mesi nelle mani di vari gruppi della cosiddetta  "opposizione", hanno portato nuovi indizi che ad usare queste armi sarebbero state in realtà  le fazioni anti Assad sostenute da Usa, Francia, Unione Europea, e foraggiate da regimi totalitari come quello saudita.
Se l'intervento militare occidentale fosse veramente contro l'uso delle armi chimiche, questo intervento dovrebbe dunque avvenire contro quelle stesse milizie formate, addestrate e sovvenzionate dagli stessi paesi aggressori, che sono poi i responsabili principali della attuale situazione.
Veniamo da anni di disinformazione, con la manipolazione dell'opinione pubblica alla quale vengono raccontati fatti puntualmente smentiti dalla storia, ma a quel punto rimossi anche dalle cronache. E' triste pensare che si siano trasformati in complici di tali operazioni di disinformazione anche ONG o associazioni pacifiste; si dice di non volere la guerra ma se ne riprendono in realtà  tutte le false motivazioni, ripetendo i concetti di una propaganda che pervade ormai ogni spazio informativo.
La stessa presunta crociata contro Al Qaeda, la war on terrorism, si scioglie come neve al sole quando si scopre che per anni i gruppi di questa galassia di forze sedicenti islamiste sono stati sostenuti dagli Usa con lo scopo di destabilizzare i paesi poco graditi all'amministrazione nord-americana.
Le ragioni della guerra sono ben altre, riguardano la ricerca di un predominio nel controllo delle risorse energetiche e nella competizione con Russia e Cina. Come ha dichiarato il giornalista Quirico, peraltro inizialmente schierato dalla parte dell'opposizione siriana: in Siria oggi “non c'è nessuna rivoluzione, ma solo banditi...non c'è nessun progetto politico" alternativo al regime.
In Siria è ormai appurato che la cosiddetta opposizione si è resa responsabile di indicibili atrocità  contro la popolazione, vedi i villaggi cristiani distrutti e l'attacco contro le differenti fedi religiose da sempre integrate in quello che è ormai uno dei pochi stati laici della regione, vedi la sistematica uccisione tra atroci torture dei prigionieri di guerra o degli abitanti di città  e villaggi. I gruppi qaedisti che stanno dilaniando le basi stesse della civiltà  e della convivenza li ritroviamo a capo delle milizie locali, e i paesi occidentali sono dunque complici delle efferatezze e della barbarie di questi gruppi sanguinari, in gran numero composti da agenti stranieri in terra siriana; ciò è anche alla base di forti dissensi e opposizioni nelle stesse fila dell'esercito a stelle e strisce.

Pisa non è più una città  ospitale che può candidarsi a ospitare i profughi di guerra, basterebbe ricordare la maniera indegna in cui vivono i profughi libici o i finanziamenti sempre più risicati ai progetti di accoglienza (meno soldi, meno accoglienza, tagli ai posti di lavoro nel terzo settore).
Pisa, con la base di Camp Darby e con l'Hub militare nazionale utilizzato dai voli NATO, è una città  militarizzata, legata a doppio filo a un'economia di guerra che ci ha portati sull'orlo di un terzo conflitto mondiale.
Da qui il nostro appello affinché si torni ad agire contro la militarizzazione strisciante, per impedire che la nostra città  sia di nuovo una base d'attacco contro i popoli vicini (mettendo in pericolo peraltro la stessa popolazione locale).
Respingiamo quella subalternità  culturale che porta a sostenere acriticamente campagne mediatiche di guerra, offrendo una vergognosa legittimità a gruppi criminali o progetti di devastazione dei territori (come il mega radar Muos, o il progetto Tav) presentando come elementi di progresso ciò che in realtà è solo devastazione e barbarie. Ancora una volta urliamo forte il nostro NO ALLA GUERRA!
 
Manlio Dinucci (giornalista), Federico Giusti (delegato rsu, operaio comunale), Adriano Ascoli (operatore sociale), Filippo Niccolai “Pippo” (coll. Aula R, precario), Luigi Gastaldello (disoccupato), , Mario D'Acunto (ricercatore CNR), Donatella Petracchi (ex ricercatrice, biofisica CNR), Cesare Ascoli (fisico associato cnr), Fabio Corsi (consigliere comunale PRC San Miniato -PI-), Antonio Piro (operaio, delegato  Provincia di Pisa),Paolo Baschieri (ricercatore CNR Pisa), Guido Stori (pensionato), Francesco Talini (studente Scienze politiche -Pisa), Filippo Gerbino (Studente Ingegneria - Pisa) , Giovanni Bruno (docente di scuola superiore), Antonio Simonetti (studente Scienze Politiche, Pisa), Andrea Venturi (Cellula Comunista Rivoluzionaria).

 
 
 

La TTIP, ovvero come si prepara la guerra globale

Post n°931 pubblicato il 22 Luglio 2013 da VoceProletaria

La TTIP, ovvero come si prepara la guerra globale

Mimmo Porcaro,  16.07.2013

La Transatlantic Trade and Investment Partnership (meglio nota col brutto acronimo di TTIP), ossia l’accordo Usa-Ue per l’integrale liberalizzazione dei loro rispettivi mercati, è un importante punto di svolta (o, se si vuole, di accelerazione) nella storia sociale dell’Europa e quindi dell’Italia. E ciò per due ordini di motivi.
Prima di tutto perché l’accordo mira all’eliminazione delle barriere commerciali non tariffarie, ossia di tutte quelle norme di tutela ambientale, sanitaria e sociale che limitando il libero traffico dei prodotti nocivi, delle informazioni riservate e dei servizi equivalgono, secondo l’Economist, a dazi multipli rispetto a quelli attuali e, secondo noi, alla tenuta di un minimo di civiltà nella gestione dell’economia europea. Una volta conclusi i negoziati, la TTIP renderà più “accettabili” gli OGM e le emissioni inquinanti, sfalderà la tutela delle filiere agroalimentari (con grave danno per le produzioni italiane), ingloberà le nostre vite nei computer della CIA, limiterà seriamente il raggio d’azione delle imprese pubbliche, e quindi di ogni politica industriale. E molto probabilmente condurrà alla privatizzazione integrale dei servizi pubblici. In ogni caso la TTIP accentuerà, come tutti i processi di libero scambio, la concentrazione della potenza produttiva e tecnologica nei poli dominanti, la divaricazione fra nazioni dentro l’Unione Europea, e l’uso di questa divaricazione per approfondire le differenze di classe: ossia quello che è da tempo il “core business” dell’ Unione stessa. Tutto ciò renderà scarsamente rilevanti per le classi e per i Paesi deboli gli incrementi del PIL che (anche se non nella misura strombazzata dai gazzettieri pro-market) deriveranno dall’attuazione della TTIP: perché questi incrementi avverranno nel contesto di un peggioramento dei rapporti sociali e geopolitici e delle condizioni della stessa politica “spicciola”. Infatti chi proverà a contrastare questo andazzo verrà rimandato non solo da Roma a Bruxelles, ma anche da Bruxelles a Washington: con tanti saluti all’ Europa “sociale”.
Ma c’è di più: dopo il trattato di partnership transpacifica, che tenta di costruire una zona di libero mercato tra quasi tutti i Paesi dell’area, Cina esclusa, la TTIP è la seconda mossa della strategia di accerchiamento (oggi economico, domani militare) della Cina e dei Brics da parte degli Usa. Essa infatti sancisce la fine della globalizzazione perché registra il fallimento dei trattati multilaterali e punta sui trattati bilaterali, ossia sulla costruzione di poli economici ad egemonia occidentale che mentre liberalizzano gli scambi al proprio interno, ostacolano i flussi provenienti dall’esterno, ossia dai Brics. E perché, unita al rimpatrio di molti capitali ed alle continue svalutazioni competitive, riporta al centro della scena il conflitto tra poli economico-politici, mandando definitivamente in archivio, tra l’altro, la possibilità della “globalizzazione dal basso”. Quando scriveva che “non si fa una guerra senza acronimi” il grande romanziere Don De Lillo non pensava certo alla futura TTIP, ma noi siamo tenuti a capire che quest’ultimo acronimo è il primo passo di una guerra economica che tenderà a trasformarsi in un conflitto militare.
Come reagire a questa prospettiva? A mio parere bisogna schierarsi decisamente contro la costruzione di un polo anti-Brics, puntare ad un Europa che sia almeno “terza forza” tra Usa e Brics, e non agente dei primi, unire le esigenze di sopravvivenza dei Paesi e delle classi deboli d’Europa alle esigenze generali della pace e della gestione razionale dei conflitti. Ma per farlo bisogna capire che un’Europa di pace nasce solo sulle ceneri dell’attuale Unione Europea, che quest’ultima è un vettore decisivo della TTIP e che non si può combattere contro questa accentuazione del neoliberismo se non si disarticola (come da tempo ci chiede Samir Amin) il sistema di potere di Bruxelles e Francoforte, iniziando col rivendicare la sovranità nazionale e costruendo, su questa base, una nuova Europa confederale. Questo è il punto decisivo del momento, e rispetto ad esso la stessa sacrosanta battaglia contro l’Euro appare come una questione tattica, di notevole importanza ma non certo risolutiva.
Come affrontare tutto ciò è questione aperta, che può essere affrontata solo da una libera ed ampia discussione collettiva. Ma il presupposto di tale discussione è il riconoscere che la rottura dell’Unione Europea è il nostro problema storico: se non lo si affronta rischia di essere inutile tutta la discussione intorno al nuovo soggetto politico di sinistra e comunista: nella misera periferia italiana della zona transatlantica di libero scambio (ma forse nell’intera Europa) la politica diventerebbe inutile, e la costruzione di un partito equivarrebbe più o meno alla creazione di un meritorio ma innocuo movimento d’opinione.
P.S. Dimenticavo: i negoziati della TTIP dovrebbero concludersi nel novembre 2014. Per bene che ci vada, il tutto inizierà a marciare a metà del 2015, ossia dopodomani. Che si fa?

 

 

 
 
 

L’uomo che non c’era

Post n°930 pubblicato il 22 Luglio 2013 da VoceProletaria

L’uomo che non c’era

di Alessandra Daniele,  22.07.2013

Alfano assolto: non sapeva d’essere ministro dell’Interno.
Scoprirlo è stato uno shock. ”Perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?” s’è chiesto basito come il conterraneo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo.
Comunque resterà lì, al posto in cui è stato piazzato come un bullone, e il governo non cadrà, Napolitano l’ha ripetuto chiaro per l’ennesima volta agli irrequieti leaderini di partito che cercano di farlo traballare: voi non contate più un cazzo. Le vostre beghe, le vostre manovre, le vostre meschine ambizioni non spostano più un cazzo, non siete più voi a decidere. Non l’avete ancora capito? Avete tutti il cranio sfitto come Calderoli? Toc toc, c’è nessuno là dentro? Il vostro parere ormai conta più o meno quanto quello di quei poveri coglioni dei vostri rispettivi elettori. Cioè un cazzo.
Il governo Letta è intoccabile.
La democrazia in Italia ha chiuso per debiti. Al suo posto c’è un curatore fallimentare, ed è intoccabile.
Invece di criticare Alfano, voi e i vostri elettori dovreste prenderlo a esempio: lui c’è, ma è come se non ci fosse. Guarda, ma non vede. Come i gigli dei campi non fila, non tesse, non rompe i coglioni. È solo un tramite. Riceve le richieste dei client e le inoltra ai server.
È un proxy.
Siatelo anche voi per vostri rispettivi proprietari, i vostri finanziatori palesi e occulti, i vostri referenti economici, è questo il vostro unico compito. Il governo Letta è stato deciso da loro, e confezionato dai loro consulenti d’immagine. Ci hanno messo dentro anche una persona decente come la Kyenge per fare da parafulmine alle stronzate legaiole, così utili per sputtanare non solo l’opposizione, ma anche il concetto stesso di opposizione.
Siate proxy, non potete più aspirare a essere nient’altro: questa non è una tesi complottista, è il vostro presidente a ripetervelo chiaro e tondo a ogni occasione, Napolitano, He who must not be named.
Siete i pezzi d’una macchina che non potete fermare, né guidare, né capire, siete i bulloni d’un drone, un cacciabombardiere col pilota automatico.
Nessun cambio di rotta è possibile. L’Italia può solo continuare così.
O esplodere in volo.

 
 
 

La follia dell’Euro e la sinistra europea

Post n°929 pubblicato il 28 Giugno 2013 da VoceProletaria

La follia dell’Euro e la sinistra europea

di Andrea Ricci*,  21.06.2013

Nell’ultimo semestre i mercati finanziari europei hanno vissuto una situazione di tranquilla bonaccia. Gli spreads tra i titoli di Stato dei PIIGS e quelli della Germania, pur se storicamente elevati, si sono assestati su valori ben inferiori a quelli registrati nel biennio 2011-12. Per l’Italia il differenziale tra BTP e Bund decennali ha oscillato intorno a quota 270, circa la metà del livello toccato nei momenti più acuti della crisi. Gli indici azionari sono ovunque aumentati nel continente, con la Borsa italiana in testa al gruppo, avendo incrementato la propria capitalizzazione di oltre il 30% nel corso dell’ultimo anno. Di fronte a queste rassicuranti notizie si è via via smorzato nei media l’allarme per un imminente crollo dell’euro. Rimane alta la preoccupazione per il debito pubblico, ma come dato strutturale di lungo periodo, destinato comunque a condizionare le politiche economiche dei prossimi anni.
Stridente è la contraddizione con l’andamento dell’economia reale, che invece ha visto peggiorare tutti gli indicatori, primi fra tutti quelli relativi al tasso di disoccupazione e al tasso di crescita della produzione. In Italia gli ultimi dati sul calo delle esportazioni, dopo mesi d’incremento della domanda estera che aveva generato incauti ottimismi, appaiono particolarmente preoccupanti. Segnali drammatici di una precipitazione della crisi sociale si colgono quotidianamente nelle notizie di cronaca. In tale situazione, non solo attenti osservatori, ma ormai anche autorevoli responsabili delle politiche economiche europee, come ad esempio il ministro dell’Economia italiano ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Saccomanni, hanno parlato esplicitamente negli ultimi giorni del rischio di una nuova bolla finanziaria. In questo scenario, pensare che la questione del crollo dell’euro sia ormai alle nostre spalle è quantomeno imprudente e questa convinzione deriva da un’errata comprensione delle cause strutturali che stanno dietro alla crisi monetaria europea.
La divaricazione tra gli andamenti finanziari e gli andamenti reali dell’economia europea (e italiana in particolare) sono il frutto delle politiche monetarie fortemente espansive condotte, attraverso strumenti non convenzionali, dalle principali banche centrali. BCE, Fed, Bank of Japan e Bank of England hanno inondato nell’ultimo anno i mercati finanziari con un’enorme massa di liquidità che, in assenza di prospettive di profitto nel settore industriale, si è riversata nell’acquisto da parte degli operatori bancari e istituzionali di titoli obbligazionari e azionari. Di nuovo, e in forma ancor più gigantesca rispetto alle politiche monetarie accomodanti dell’era Greenspan, è con la costruzione di una piramide di debiti che si stanno sostenendo i mercati finanziari e le grandi banche globali.
Questa enorme massa liquida fluttuante può in qualsiasi momento prendere direzioni opposte a quelle finora intraprese e scatenare di nuovo, e con una violenza ancor più devastante, un attacco speculativo contro l’euro. Le probabilità che ciò accada, in assenza di cambiamenti strutturali nella politica economica europea, non sono trascurabili, perché ne esistono le condizioni oggettive. Quando ciò accadrà dipende invece dalle decisioni soggettive di un numero ristretto di operatori finanziari globali. Certamente, l’approssimarsi delle elezioni tedesche, previste per il prossimo 22 settembre, rappresenta un momento particolarmente critico, perché può essere forte il desiderio di condizionarne i risultati attraverso manovre finanziarie, in un senso o nell’altro, a seconda delle rispettive convenienze strategiche dei capitali finanziari in concorrenza.
Un eventuale nuovo attacco speculativo contro l’euro sarebbe stavolta ben più difficile da respingere perché la BCE ha già utilizzato gran parte del proprio arsenale a disposizione. Soltanto una radicale modifica dei compiti istituzionali della BCE che, in completa rottura con il suo atto costitutivo e la sua storia, consentisse il finanziamento monetario diretto dei deficit e dei debiti pubblici dei Paesi membri potrebbe forse essere efficace, se accompagnato da concrete e immediate misure d’integrazione fiscale europea. Questo passaggio, tuttavia, potrebbe essere compiuto soltanto in seguito a un accordo politico dei Governi e dei Parlamenti europei di ridisegno complessivo dell’architettura istituzionale e dei compiti dell’Unione Monetaria Europea nel senso della costituzione di uno Stato federale. Una tale prospettiva appare, però, assolutamente irrealistica, dato il prevalere e, addirittura, l’approfondirsi degli egoismi nazionali, non solo nelle classi dirigenti, ma nei popoli europei.
Le cause profonde della crisi dell’euro sono insite nella sua stessa costruzione iniziale. L’idea di dotare 11 Paesi, poi divenuti addirittura 17, di una moneta unica in presenza di enormi divergenze nella struttura delle loro economie reali, senza contemplare meccanismi automatici di integrazione e redistribuzione fiscale, come avviene per qualunque altra moneta, è risultata folle. D’altra parte non era questo il progetto iniziale dichiarato per una parte delle classi dirigenti europee, come quella italiana. L’euro doveva rappresentare soltanto il primo passo verso gli Stati Uniti d’Europa. L’oltranzismo europeista, illusorio e velleitario, è stato la principale fonte di legittimazione delle corrotte e decadenti classi dirigenti italiane nella ricerca di un consenso politico e sociale dopo il crollo della Prima Repubblica e la fine della divisione del mondo in blocchi. Infatti, accanto a corposi interessi materiali di una parte della borghesia italiana, la retorica dell’euro ha funto da collante politico-culturale per tenere insieme un Paese sempre più alla deriva, in preda alla frammentazione territoriale, sociale e politica e alla devastazione culturale e morale delle sue classi dirigenti.
I passi successivi alla nascita dell’euro non si sono però realizzati perché è apparso evidente che la Germania, e il blocco di stati satelliti che ruotano intorno ad essa, non perseguivano lo stesso obiettivo. Con l’euro la Germania ha ottenuto due risultati storici: il via libera politico e diplomatico alla propria unificazione e l’eliminazione di due strumenti fondamentali, tra loro interconnessi, di politica economica per i Paesi mediterranei (Italia e Francia in particolare), come la politica monetaria e la manovra sul tasso di cambio.
Nelle discussioni intorno all’euro, capita spesso di assistere al levarsi di alti strali da parte dei coriacei difensori della moneta unica contro lo spettro della svalutazione, ricorrente negli ultimi venti anni di vita della lira. Si dimentica, però, che il tasso di cambio non è altro che un prezzo, più o meno amministrato dalle autorità di politica economica, pienamente rispondente al normale funzionamento di un’economia di mercato. Le sue fluttuazioni, spontanee o prodotte, servono per riallineare andamenti divergenti di fondamentali variabili economiche tra diversi Paesi. La fissazione irrevocabile di un tasso di cambio richiede necessariamente meccanismi alternativi che svolgano la stessa funzione. L’alternativa liberista al tasso di cambio, utopica e mai realmente esistita in nessuna epoca e in nessun posto, è la completa e istantanea flessibilità dei prezzi di tutti i beni e servizi, a cominciare dai salari. L’altra alternativa è quella seguita da tutte le monete esistenti ed esistite in passato, cioè la piena integrazione fiscale all’interno di uno Stato unitario, in cui operano meccanismi di redistribuzione sociale e territoriale delle risorse.
Con l’euro si è scelta, contro ogni logica, una “terza via”, quella di “una moneta senza Stato”. Ciò che ne è risultato è stato l’affermarsi dell’egemonia politica ed economica dello Stato più forte, la Germania, sul resto d’Europa, spazzando via in un colpo solo e senza spargimenti di sangue, il precario equilibrio che, dalla Pace di Westfalia (1648) in poi, aveva costituito il sacro principio delle diplomazie europee. Dapprima esercitata in forme morbide, con lo scoppio della crisi finanziaria l’egemonia tedesca è andata assumendo forme sempre più brutali, sino a sfociare in manifestazioni esplicite di neocolonialismo come nel caso greco, non dissimili da quelle esercitate dall’imperialismo USA nel Paesi dell’America Latina.
Di fronte a questa situazione, sempre più instabile, il problema dell’euro non può più essere eluso da parte delle forze della sinistra europea e italiana. Da questo punto di vista, non appare di buon auspicio la sconfitta all’interno della Linke tedesca di Oskar Lafontaine, che recentemente aveva sostenuto il superamento dell’euro e la necessità di un nuovo sistema monetario europeo.
Non è più adeguato all’evolversi della situazione reale affermare la necessità di una svolta nelle politiche europee, abbandonando la logica dell’austerità e del rigore finanziario e le sovrastrutture istituzionali che all’interno dell’Unione Europea la sorreggono, senza affrontare la questione euro. Questa della svolta di politica economica è stata una partita aperta fino allo scoppio della crisi finanziaria globale del 2008. La partita si è chiusa con una sconfitta, perché le forze della sinistra europea, nelle diverse collocazioni di volta in volta assunte, non sono riuscite ad imporre l’abbandono delle politiche neoliberiste in Europa né ad impedirne il rincrudimento.
Oggi il paradosso di questa posizione è che essa può realizzarsi soltanto se prima salta l’euro, perché l’euro reale, non quello immaginato, è un impedimento strutturale per politiche economiche alternative. Di ciò, sia pure in forma rozza, sta crescendo una consapevolezza di massa in Grecia, come in Italia e in tutti i Paesi più duramente colpiti dalla crisi. La vecchia, consolidata posizione, un tempo espressa nello slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che anch’io personalmente, come responsabile economico nazionale di Rifondazione Comunista, per tanti anni ho contribuito a diffondere e ad articolare, non risulta più comprensibile, appare essa sì una scorciatoia velleitaria per sfuggire ai problemi e alle responsabilità reali e concrete.
Per usare categorie gramsciane, quella linea era adatta a una fase di “guerra di posizione” e non ad una fase di “guerra di movimento”, come quella in cui la crisi sistemica del capitalismo ci ha condotti.
Una valuta non è mai semplicemente uno strumento neutro che può essere indifferentemente utilizzato per servire da sfondo a diversi modelli sociali. Nel sistema capitalistico la moneta è la sintesi finale, la più astratta e quindi la più complessa, di un ordine sociale storicamente determinato, frutto di sedimentazioni successive che costituiscono la concreta configurazione di classe realmente esistente. È ovvio che il crollo dell’euro (perché questo avverrebbe se un Paese delle dimensioni dell’Italia decidesse di uscirne) non equivale alla “vittoria finale”, né essa produrrà sicuramente immediati effetti positivi per le classi popolari. È ovvio che molto dipenderà da come avverrà e da quali saranno le forze trainanti di questo processo. Ciò che è certo è che la fine dell’euro ridislocherebbe le forze su scala europea e mondiale e aprirebbe nuovi scenari in cui svolgere il conflitto politico e sociale, che oggi in Europa appare chiuso a ogni ipotesi progressiva.
Il crollo dell’euro è oggi nell’ordine delle cose possibili, perché ne sono date le condizioni oggettive. La sinistra europea, e paradossalmente la sua componente oggi più disastrata, quella italiana, si trova di fronte ad un passaggio strategico cruciale. Essa, indipendentemente dalle sue volontà, deve decidere come collocarsi in questo scenario potenziale se vuole continuare ad esistere come forza attiva e non solo come scoria di un passato glorioso.
Il nodo dell’euro è posto dalla storia, non dalle nostre elucubrazioni.
Non rimane più molto tempo per scioglierlo.

* Docente di Economia internazionale all’Università di Urbino

 
 
 

Referendum Art.33 Bologna. Davide ha sconfitto Golia.

Post n°928 pubblicato il 27 Maggio 2013 da VoceProletaria

Referendum consultivo di Bologna.

 “Quale, fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali, indicate in euro 955.500 + 100.000 per l’anno scolastico 2011-2012 nella deliberazione di Consiglio Comunale PG. N. 203732/2011 approvata il 27/09/2011 secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia ?

a) utilizzarle per le scuole comunali e statali

b) utilizzarle per le scuole paritarie private

Davide ha sconfitto Golia.

di ProletariaVox,  27.05.2013

Ha vinto la A di scuolA pubblicA.

A Bologna la Scuola Pubblica ha vinto il Referendum Consultivo col 60% di consensi, contro un 40%  che intendeva preservare il privilegio di denari pubblici per scuole private e confessionali.

Nonostante le parrocchie avessero infestato i seggi di migliaia dei loro burdigoni*, nonostante le frotte di anziani automi del PD convinti di salvare il loro socialismo cittadino, nonostante le agguerrite schiere cisline e cielline (l’unica differenza in una lettera, per il resto indistinguibili…), il referendum bolognese in cui ci si doveva pronunciare a chi destinare il milione e passa di euro di fondi pubblici, se alle scuole private o alle scuole pubbliche, ha visto la netta vittoria di queste ultime.
Poiché non sono bastate le mobilitazioni delle armate scudocrociate tentano ora di esorcizzare la loro sconfitta con la storiella della bassa affluenza, il 30% degli elettori bolognesi.
Gli zelanti scriba di Repubblica, Unità, Resto del Carlino, Corsera (giusto per citare i soli quotidiani locali) dimenticano di riportare, tuttavia, le condizioni a dir poco farsesche per ppoter esercitare il diritto di voto, dalla caparbietà che bisognava impiegare per raggiungere la sede del proprio seggio (centri sociali, anziché le consuete scuole) e dall’altrettanto impegno che si doveva spendere per avere una corretta informazione anziché la propaganda subliminale tra le omelie delle parrocchie e le “interviste” dei giornalisti.
Idem su scala nazionale, gli stessi giornali che sostengono il governo più clericale dell’intera Repubblica, continuano a recitare lo stesso mantra.
Esorcisti di quart’ordine.

Ma, proprio loro che sono credenti, non hanno ancora imparato che Dio acceca chi vuol perdere…?

*i burdigoni, in dialetto bolognese, sono gli scarafaggi. La loro livrea nera è molto simile agli abiti talari di preti e suore...

 
 
 

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