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alessandro canu

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FRAGILE Volo

Post n°92 pubblicato il 27 Aprile 2012 da alex.canu

 

 

 

   Il mio vicino di casa è sempre uscito in silenzio dal suo appartamento. Se sentiva la nostra porta che si apriva aspettava muto, dietro il suo uscio, tenendo la maniglia, in attesa che noi scendessimo le scale, dopo, con passo di granchio, tenendosi al muro scendeva  anche lui. Tre piani fatti con una mano in tasca, gli occhiali scuri e una tosse che rimbombava secca e cocciuta. Salutava con evidente impaccio, portando leggermente indietro la spalla per non lasciarsi toccare. Guadagnava il portone e sgattaiolava fuori, all'aperto, dove aveva sempre vissuto, in compagnia di ogni sorta di animale selvatico, mimetizzandosi con l'asfalto della strada, con la terra e le foglie secche sotto gli alberi, con le panchine scrostate, coperte di scritte e disegni osceni, nelle quali scompariva, solo. Portava occhiali scuri, troppo grandi per il suo volto affilato, così simile a quello dei poeti stanchi. Non se li toglieva neppure durante le fredde giornate invernali, quando usciva con la pioggia e rimaneva sotto qualche albero in attesa che spiovesse.  Ieri come al solito è uscito, mentre eravamo tutti presi dal pranzo di una pasquetta troppo ventosa per trascorrerla all'aperto. Ma ieri non è uscito dalla porta, come al solito, ha scavalcato la sua finestra a tre metri dal nostro pranzo e si è lasciato cadere, nove metri in silenzio, l'ultimo suo viaggio di appena tre secondi, nel luogo più lontano dalla sua vita, dove non era mai stato. Ha messo in ordine due chiavi sul tavolino, come testamento, come estremo insulto a tutti noi. Immagino la fatica del suo ultimo sguardo, le dita impazzite ancora aggrappate alla finestra, avrà pensato che è solo la mente che si vuole uccidere, ma che i piedi, le gambe o i polmoni sono ancora avidi di vita. Avrà tirato l'ultimo respiro e avrà pensato che non ha mai imparato a tuffarsi con eleganza. Mi dispiace che l'ultima cosa che ha sentito del mondo siano state le nostre risate, i consigli di cucina del nostro televisore lasciato acceso, gli amici ospiti al nostro pranzo che sceglievano una musica e il rumore di posate a lui estranee. Si chiamava Guerriero e per due ore è rimasto buttato per terra a pochi metri dalla nostra piccola festa familiare, nell'unico spazio lasciato vuoto tra le nostre autovetture proprio sotto la sua finestra. La macchina del figlio in campagna a mangiare con gli amici, il sangue coagulato sui suoi capelli bianchi, un filo sulla bocca e altro ancora raggrumato nell'orecchio, come un tappo, nient'altro. Anche il suo sangue si è rifiutato di abbandonarlo. L'abbiamo trovato così, con gli occhi ancora aperti che guardavano verso la ruota del nostro vicino, come se non ne capisse il senso e tutto quanto, come la vita, gli sfuggisse. L'abbiamo coperto con un lenzuolo e qualcuno ha allontanato i nostri bambini, deviando la loro incredulità, con risposte rapide, non richieste. Dopo, le grida, i pianti, i carabinieri con i loro verbali sgrammaticati, la morte, quella vera. Ora una macchia irregolare resiste testarda sotto le ruote delle macchine parcheggiate, un pezzo d'asfalto appena più scuro, una cartina geografica strappata, mio figlio ha detto, guarda sembra l'Australia. Nessuno ha pensato di posarvi un fiore, neppure io, nessuno ha applaudito al suo funerale, alla riunione di condominio nessuno ha proposto un minuto di silenzio. Guerriero, chi?

 
 
 
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