Creato da alex.canu il 28/01/2012

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STORIA DEL DECIMO FIGLIO figlio nono

Post n°72 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

Figlio nono

Itthòriu Chnua

 

 

     Aisentha approfittò della pausa del pranzo per allontanarsi dall’oliveto dove Anzichu metteva carponi tutta la famiglia a raccogliere le olive nere. Se ne allontanò abbastanza da non scorgerne più che le pietre bianche ammucchiate in mesi e mesi di lavoro estivo dai suoi figli maggiori. Formavano delle piccole montagne coniche che sarebbero servite a costruire o a riparare i muretti a secco che circondavano il loro terreno. Camminava guardando per terra e rovistando nei cespugli alla ricerca di erbe che avrebbe utilizzato per i suoi minestroni tanto apprezzati dal marito. Frugava in mezzo alle pietre alla ricerca di lumache e si allontanò abbastanza  da sentirsi felice di trovarsi da sola in mezzo al bosco di querce e di lecci antichi, senz’altra compagnia che quella rassicurante degli alberi. Assaporava intensamente quei momenti in cui non aveva nessuno che controllasse quel che faceva, come da ragazza, quando scopriva da sola le cose che la facevano stare bene. Era Dicembre, pensò che avrebbe dovuto portare una scatola di cartone vuota per metterci il muschio che i suoi figli avrebbero utilizzato per il presepe. Questa idea la fece sorridere e tese l’orecchio per sentire le voci provenire dall’oliveto, i più piccoli giocavano e strillavano forte, rincorrendosi  da un albero all’altro. Aisentha in quei momenti sentiva una strana felicità impossessarsi di lei, la avvolgeva e la riempiva con tutti gli odori e i profumi intensi di cui la campagna umida dell'autunno inoltrato la sapeva circondare. Era una sensazione fisica, forte, intensa e lei se ne lasciava inebriare senza opporre alcuna resistenza. 

   Dopo che ebbe camminato per un bel tratto la macchia argentata dell’oliveto sparì dietro un costone di roccia e le voci dei bambini non la raggiunsero più. Iniziò a sentire la stanchezza che la prendeva sempre alle gambe e si lasciò andare su un muretto libero dai rovi. Riusciva a distinguere il precipitare gioioso e leggero delle acque gelide del rio Maschari, oltre la macchia dei gelsi e in lontananza udì lo sferragliare disordinato del treno che affrontava la discesa. Il fischio, secco e insistente, si perdeva fra le colline e precedeva la curva più stretta che doveva affrontare, prima di riprendere il piano e il rettilineo. Era appena al secondo mese di gravidanza e già sentiva di non poter compiere sforzi prolungati. Tirò un forte respiro e allentò il fazzoletto nero che legava sotto il mento, non c’era nessuno e poteva sentirsi libera. Stava bene ed era felice per quella piccola camminata. Aveva raccolto tante buone erbe e un bel po’ di lumache che aveva messo dentro il tascapane del marito che si era portata appresso. Stava così, appoggiata al muretto a riprendere fiato, quando si accorse della donna di fronte a lei che la osservava con attenzione e le sorrideva. Aisentha si riscosse spaventata e tentò di ricomporre il fazzoletto in testa, ma non riusciva ad alzarsi dal muretto e vi restò inchiodata, trattenuta da una forza che non comprendeva e che non era solo conseguente alla stanchezza per il cammino percorso. La sconosciuta attenuò il sorriso e lo compose in una increspatura di mite sofferenza, mentre rimaneva in silenzio senza accennare a parlare, eppure Aisentha non si sentiva in imbarazzo e non provava paura. Non somigliava a  nessuna donna di Issòghene, ma le sorrideva come se la conoscesse da sempre. La misteriosa donna ad un certo punto mosse lievemente il capo e le parlò, chiamandola confidenzialmente per nome. Accennò al bambino che portava in grembo dicendole che le era caro e che le avrebbe causato molto dolore. Le disse di cercarla dentro la chiesa di santa Itthòria a Issòghene, quando ne avesse avuto bisogno, che lei sarebbe stata sempre lì, pronta ad aiutarla, perchè quella nuova vita le apparteneva. Aisentha sentì improvvisamente uno strappo alla caviglia e se la afferrò per guardare cosa fosse successo. Forse un piccolo animale l’aveva morsa o delle spine l’avevano punta, aveva infatti una leggera ferita che la faceva sanguinare. Alzò la testa per cercare la donna, ma questa non c’era più, era sparita senza un saluto, senza fare nessun rumore. Istintivamente si portò la mano alla fronte e si fece il segno della croce. Rimase così ancora per un po’, confusa e inquieta, poi si fasciò la ferita con un fazzoletto e riprese il cammino del ritorno, decisa a non raccontare a nessuno di quel misterioso incontro. 

   Quella sera il suo minestrone non piacque a nessuno, dimenticò di metterci il sale e le verdure che aveva raccolto non vennero lavate con la stessa cura di sempre. - Sa di terra!- le disse il marito, con un tono aspro che la scosse dai suoi pensieri. - E`lo stesso minestrone di sempre-, replicò lei distratta. Tutti la guardarono con attenzione, Mihlùsa prese un pizzico di sale e lo mise nel piatto suo e di Benìha, imitata subito da tutti gli altri. Anche Anzichu ne prese un mucchietto, ma sbagliò quantità e il suo minestrone divenne troppo salato e si arrabbiò allontanando definitivamente il piatto.  Si alzò da tavola e andò a prendersi un pezzo di formaggio che tagliò a grosse fette, mettendo in ogni gesto un carico di rumore esagerato che aveva il solo scopo di rimprovero verso la moglie. Aisentha appariva stanca e lontana. La sera se ne andò a letto prima del solito, lasciando alle figlie il compito di sparecchiare e riordinare la tavola. Non controllò neppure che lavassero i piatti e quando sentì Epìhnea che frignava per qualche motivo non intervenne. Chiuse la porta a due battenti della stanza da letto e si svestì lentamente. Anzichu trovò la porta chiusa e non seppe che fare, non era consuetudine chiuderle e pensò che qualcosa di grave stava per accadere. Non ebbe coraggio di spingere la porta ed entrare e se ne tornò in cucina a leggere il giornale. Lo aprì, stropicciando violentemente le pagine, senza riuscire a fermare la sua attenzione su nessun articolo in particolare, finchè non trovò la notizia di un disastro accaduto a Londra.  

   La foto del parlamento inglese nascosto da una fitta nebbia nera lo colpì, come la premonizione di quello che sarebbe accaduto a lui e alla sua famiglia se sua moglie non si fosse alzata da quel letto.  -“Grande smog!”-, strillava il giornale. Tutti gli si fecero intorno, perchè quando il babbo leggeva ad alta voce le notizie, lo stavano ad ascoltare, come uno spettacolo radiofonico, come una finestra che si apriva sul mondo grande e misterioso. “Che cos’è lo smog?”, chiesero i più piccoli. Anzichu disse che non ne aveva la più pallida idea e i bambini si misero a ridere. - Una coltre di nebbia densa e maleodorante ha avvolto Londra- proseguiva l’articolo, - e, a causa del freddo eccessivo, è aumentato il consumo di carbone ricco di zolfo. La nebbia è così spessa da rendere la circolazione delle auto impossibile. Londra è paralizzata, la gente non vede a un palmo dal proprio naso e cammina lungo le strade appoggiandosi ai muri. Le autorità cittadine consigliano di non uscire di casa e di non portare i bambini a scuola per non correre  il rischio di perderli nella nebbia. Concerti, rappresentazioni teatrali, persino le sale cinematografiche, sono state chiuse, poichè la scena e lo schermo non erano visibili agli spettatori.-

L’articolo del giornale continuava dicendo che oltre 4000 persone erano decedute nella prima settimana a causa delle ostruzioni polmonari e che altre migliaia di persone sarebbero decedute nei giorni e mesi successivi per le complicazioni all’apparato respiratorio che sarebbero inevitabilmente sopraggiunte. Miràha, Epìhnea e Jàhnua rimasero molto impressionate dal fatto che i bambini londinesi non potessero respirare liberamente la loro aria e che corressero il rischio di morire per questo. Li stupì che non potessero uscire di casa per andare a scuola o giocare; Nughàvi disse che erano tutte bugie inventate dai giornali e che bisognava essere proprio degli allocchi per cascarci e Ghelànu replicò che i giornali non davano mai notizie false e che i giornalisti erano inviati in tutto il mondo proprio per dare notizie come quelle. Nughàvi gli rispose che era un ingenuo e Ghelànu se la prese a male e iniziarono a litigare. Mihlùsa intanto rideva perchè Benìha faceva delle facce strane per imitare i 4000 morti per infezioni all’apparato respiratorio e parlava in un finto inglese che la faceva morire dal ridere. Ma dopo un po’ in  tutta la casa calò un silenzio grave che Anzichu Chnua spezzò ordinando a tutti che era arrivata l’ora di andare a dormire. Mihlùsa preparò il latte per Tothòi e lo mise nella culla lasciando il padre presso il braciere ormai quasi spento, intento a rimestare la cenere con un vecchio cucchiaio di ottone. Era preoccupato, perchè sentiva che qualcosa era accaduto a Aisentha, l’aveva vista serena quella mattina, allontanarsi per una passeggiata e poi tornare mutata, sconvolta. Cercava nei pochi carboni rimasti ancora accesi qualche possibile risposta, ma tutto quello che gli venne in mente fu che quello poteva essere carbone inglese e istintivamente lo coprì con la cenere. Aspettò ancora dieci minuti, poi spense la luce e si diresse in camera da letto. Osservò, nella penombra della stanza, il volto della moglie e vide i suoi occhi aperti fissarlo freddi. Un brivido ghiacciato gli gelò la schiena e si ritrasse come se avesse visto un fantasma. - Che hai, Aisè? - le chiese, ma aveva paura della risposta e avrebbe preferito non averla fatta, o che lei fingesse di dormire. Certamente domani sarebbe passato tutto e lei sarebbe ritornata quella di sempre, quella che lavorava al telaio e che cantava canzoni che affascinavano tutti. Ma lei rispose alla domanda di Anzichu dopo un lungo silenzio, quando  pensava ormai che non avrebbe parlato più.

   - Oggi ho visto una donna- gli disse, - ma non una donna normale, era santa Itthòria, ne sono sicura, era uguale alla statua colorata che è in chiesa e mi ha parlato. - E cosa ti ha detto?- rispose Anzichu, mentre si levava le scarpe. - Niente mi ha detto, mi ha sorriso e mi ha chiamato per nome, poi ha parlato del bambino che deve nascere, ha detto che è suo, che le appartiene.

  - Cosa vuol dire che  “è suo?”-, - non lo so, mi sorrideva e mi ha detto così, che le appartiene. Io ero come paralizzata e non sapevo cosa dire, lei sorrideva, poi è sparita. Mi sono fatta il segno della croce e sono tornata giù all’oliveto, ma ora ho paura. Rivedo ancora il suo sorriso, ma si è si trasformato in una risata che mi angoscia. - Sei una scema, tutte le donne diventate matte quando siete gravide e vedete cose che non esistono-, disse Anzichu con fastidio, impotente di fronte alle mattane della moglie. 

   - L’ho vista con i miei occhi, ti dico, e ho udito la sua voce, non me la sono sognata. Pensavo di non dire niente, di non farne parola con nessuno, ma adesso...-, e qui si interruppe. Anzichu finì di spogliarsi e si infilò dentro il letto già caldo, -strano-, pensò, -di solito la mia parte è fredda-. Aisentha dormì profondamente quella notte, lui non la sentì respirare nè muoversi. La toccò, preso da una paura improvvisa e rimase a lungo con gli occhi aperti a fissare una macchia di umidità nel soffitto, gli parve di vedervi come un sorriso, si voltò dall’altra parte e si addormentò inquieto. 

   L'indomani mattina Aisentha si alzò di buon'ora e uscì di casa. Andò in chiesa a cercare la statua dipinta della Signora che aveva visto il giorno prima. Quando la trovò si accorse che non le aveva mai prestato attenzione, eppure era stata sempre li, come un oggetto che sparisce davanti ai nostri stessi occhi per troppa consuetudine, per quotidianità visiva. Solo la sua assenza avrebbe creato un vuoto che pochi avrebbero saputo colmare con la memoria. Come mai non ci aveva mai fatto caso? La scultura della santa era in gesso dipinto, non più alta di un metro e venti ed era stata relegata in una rientranza buia del corridoio che portava alla sacrestia. Si sarebbe detto che quella figura non avesse mai visto la luce del sole, tanto i colori della veste e dell’incarnato erano spenti. Gli occhi avevano perso la brillantezza del castano, il carminio delle labbra era coperto di polvere e le dita delle mani erano spezzate. Il naso, il panneggio, le gote erano scheggiate e offese in più parti, eppure le parve viva. La guardò a lungo, in attesa di un segno e, per un attimo, le sembrò di scorgere un sorriso appena accennato sulle labbra di gesso, o che muovesse leggermente il capo, ma naturalmente la statua non fece niente di tutto ciò. Prese una candela e la accese, fece colare un po' di cera e la piantò ai piedi del basamento sbreccato. La luce calda della candela ravvivò il colorito sulle guance della statua e gli occhi sembrarono riaccendersi. Aisentha fissò ancora i suoi in quelli della santa dimenticata e attese qualche istante, poi voltò le spalle e se ne andò, facendo risuonare il rumore dei suoi passi nella chiesa silenziosa. Mentre apriva il portale sentì come un respiro profondo e appenato, si voltò, la chiesa era vuota. - Mi sarò sbagliata- pensò e si chiuse dietro il pesante portone. 

   Quell'anno l'inverno fu più mite del solito, la ginestra e il mandorlo fiorirono precocemente e le pozzanghere lungo la strada non gelarono, la mimosa gonfiò i suoi fiori già a febbraio, formando dei piccoli soli gialli aggrappati ai rami dell'albero. Le giornate che si allungavano erano già una promessa di luce che allontanava il buio invernale. Il paese stesso sembrava che distendesse le sue case e le vie, come immense lucertole immobili, per riscaldarle e scioglierle dal morso del gelo che a Issòghene si faceva sentire in modo particolare. Dall'alto del monte si poteva scorgere la striscia lunga e azzurra del mare lontano, distendersi a perdita d'occhio da un capo all'altro. Gli agnelli nuovi si rincorrevano e belavano, ancora ignari del coltello che avrebbe preso le loro vite appena qualche mese dopo. Aisentha scordò la misteriosa donna e continuò a tessere i suoi tappeti e a cantare le sue canzoni. Ora la voce era più calda e profonda e aveva imparato a usare il diaframma e a tenere l'aria nei polmoni, dosandola in base ai colpi che dava col grande pettine del telaio. Per la quaresima cantò i gosos e la passione di Cristo, poi riprese i muttos d'amore e le corsicane tristi. La sua pancia cresceva e la portò con leggerezza fino al mese di Marzo quando, scendendo le scale ripide di casa di sua madre, scivolò e cadde. Gridò forte, non per se stessa, ma per il bambino. Rimase a terra per qualche tempo, non aveva la forza nè il coraggio di alzarsi e si teneva la pancia e la carezzava piano per rassicurare la sua creatura cantandole un'anninìa. Anzichu, avvertito da Benìah Isphra, corse a prenderla e la riportò a casa, la mise a letto e da quel momento il canto di Aisentha cessò. Nei due mesi successivi la pancia crebbe ancora e le prese un grande appetito. La primavera ruppe le nuvole tenaci dell’inverno  e si impossessò del cielo e degli alberi, mise maggiore dolcezza nel canto degli uccelli e per le strade si sentiva profumo di pane caldo tutti i giorni. Aisentha dimenticò la statua di gesso dipinto, ma una notte la donna venne ancora a trovarla nel sonno e le sorrise con rinnovata dolcezza. Le tenne la mano e le disse di non avere paura, che il momento era vicino. Aisentha ebbe la forza di rispondere che lei non aveva paura, che di figli ne aveva già avuti otto e che quello sarebbe stato il nono, sarebbe stato facile come per gli altri. La donna la guardò con maggiore intensità, fissandola nel fondo degli occhi e le ripetè ancora una volta che non doveva avere paura, ricordandole quello che le aveva detto la prima volta, quel figlio che  aspettava era suo. 

   Da quel sogno Aisentha si svegliò con un grido, le acque le si erano rotte, eppure mancavano ancora altri due mesi al compimento della gravidanza.  Svegliò il marito e Anzichu urlò a Nughavi di correre a casa di don Simàha, il vecchio medico di famiglia e spedì Ghelanu da Tia Lehana, la levatrice. Il tempo delle doglie fu brevissimo e la mattina stessa partorì un bambino che avrebbe avuto bisogno di cure immediate. Era giallo e non emise un grido, respirava con affanno, mettendo a dura prova i piccoli polmoni non ancora pienamente formati. Il battito del cuore era regolare, ma il bambino era soggetto a delle apnee che sembrava che lo volessero strozzare. Tìa Lehana e il dottore non seppero prendere delle decisioni rapide, rimasero impotenti di fronte a quel neonato prematuro, squassato da tremiti e sussulti di cui ignoravano le cause. A tarda sera il bambino morì, soffocato come i bambini di Londra per lo smog. Quando venne chiamato anche babai Esòhle, per il battesimo, chiese ai genitori che nome avrebbero voluto dargli, ma loro non seppero cosa rispondere. Allora babai guardò nel suo breviario e decise di chiamarlo Itthòriu, perchè quel giorno era il giorno di santa Itthòria, e si ricordò, anche lui con stupore, che in parrocchia c'era proprio la sua statua in un angolo buio. Ci riflettè su e pensò che le avrebbe potuto dare una migliore collocazione, decise anche che l'avrebbe fatta ridipingere, perchè ormai il suo colore originale era scrostato e pezzi della mano e del piede erano saltati. Come mai non ci aveva pensato prima, si domandò e si rispose che c'era voluto quel povero bambino perchè se ne accorgesse. D'altra parte Aisentha e Anzichu avevano già altri otto figli, tutti in buona salute, no?

- Dio prende e Dio da-, disse ad alta voce, riscuotendosi da quel suo nuovo pensiero. Chiamò in disparte Anzichu e gli disse qualcosa a proposito del funerale che si sarebbe svolto il giorno dopo. Gli disse come avrebbe dovuto fare per trovare una piccola bara bianca. Recitò frettolosamente due preghiere dal messale, unse gli occhi, il naso e la bocca del bambino che intanto era diventato di cera e guardò l'orologio. Si era fatto tardi, doveva affrettarsi se voleva essere a casa in tempo per l'ora di cena. 

   Qualche tempo dopo, ristabilitasi dal parto, ma non dal trauma per la morte del bambino, Aisentha ebbe la forza di varcare la porta della chiesa e andò dritta verso il corridoio della sacrestia, alla ricerca della statua di gesso. Non ve la trovò e si guardò attorno perplessa. La vide alfine, in una cappella tutta sua, con la luce del sole che, entrando da una finestra, le batteva in pieno petto, esaltandone i colori e le forme aggraziate. Sembrava ridipinta di recente, il manto blu, il rosso delle gote e delle labbra apparivano ora più vivaci e il collo era ornato da catene e gioielli d’oro che prima non portava. Le dita delle mani, un tempo spezzate, erano ricomparse come per miracolo e le scheggiature e le scrostature che lasciavano intravvedere il bianco del gesso erano state stuccate e reintegrate nel colore locale. I capelli apparivano di un rosso acceso, poco adatto ad una santa e una cinta, alta in vita, le metteva in risalto un seno degno di altre figure di donna. In testa, una corona a forma di nimbo, garantiva la natura divina della statuetta alta appena un metro e venti. Un bel lavoro, non c’era niente da dire. L’artista incaricato del restauro aveva forse ecceduto nella brillantezza dei colori e ora Itthòria, l’umile santa dimenticata per anni in un corridoietto buio, si era presa la sua rivincita. Il restauro aveva richiesto un mese intero, ma babai Eshòle era orgoglioso del risultato e al suo ritorno in chiesa era stata celebrata una messa solenne. Aisentha si sedette di fronte a quella magnificenza e stette in silenzio, a lungo, a fissarla negli occhi, in attesa di un cenno, di un qualche cosa che le facesse capire il perchè si era portata via  suo figlio. Non ricevendo nessuna risposta si alzò e le andò più vicino, le fece un lungo discorso, nella sua lingua e alla fine si lasciò andare ad un canto disperato di attitu. La chiesa era vuota e la sua voce riverberava nella volta a botte, dandole una corposità e una profondità che ne mettevano in evidenza il doloroso registro in minore. Finito il canto scosse con le mani la base della statua, la fece dondolare in qua e in la, poi la sollevò e la fece vacillare. Santa Itthòria si staccò dal piedistallo di legno e scivolò verso il pavimento di marmo. Un tonfo sordo di gesso rimbombò nella cappella e la statua si ruppe in mille frammenti, qua il naso, là la mano. La corona rotolò per qualche metro ancora, prima di fermarsi. Aisentha voltò le spalle e si incamminò verso l’uscita attraversando la navata centrale. Si fermò un attimo, come presa da un ripensamento, ma poi tuffò la mano dentro l’acquasantiera e si fece rapidamente il segno della croce prima di uscire per far ritorno a casa.  Si accorse, dopo tanto tempo, che l'aria si era fatta più tiepida, il suo inverno era finito.  

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