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STORIA DEL DECIMO FIGLIO i due genitori

Post n°78 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da alex.canu

I genitori

Anzichu Chnua-Munchoni e Aisentha Isphra  

 

 

     Anzichu era l'ultimo di quattro figli, tre maschi e una femmina, ma la sua famiglia durò poco. La madre morì che aveva cinque anni appena, senza nessuna spiegazione apparente. I due fratelli maggiori si sposarono presto e si dimenticarono di lui e la sua unica sorella morì di talassemia. La composero su un letto e le aprirono gli occhi per farla sembrare viva, le scattarono una foto, le richiusero gli occhi e la seppellirono. Anzichu conservava gelosamente fra le cose più care quella immagine e la teneva dentro un bauletto di legno, chiuso da un lucchetto che nascondeva sotto il letto. Quando la madre morì il padre lo diede come "figlio d'anima" a sua zia, che figli non ne aveva e lei lo allevò come se fosse suo, dandogli anche il suo secondo cognome, Munchoni.

   Aisentha era la seconda di ben sette figlie femmine e un solo maschio, detto Dindhia come il tacchino, di cui non si trovarono mai tracce di giocattoli degni del suo sesso. Aisentha non era bella, era taciturna e modesta e ubbidiva agli ordini di suo padre, Benìah Isphra, con docilità sorprendente, ma sapeva cantare con una voce così calda e profonda che la gente si fermava per la strada quando lei infilava la spoletta tra i fili tesi di lana e intonava i suoi gosos. Già a sette anni venne avviata al lavoro del telaio che svolse con regolarità fino alla vecchiaia, tirando colpi di pettine sui fili che intrecciava uno dopo l'altro, accompagnandoli con quelle canzoni che tutto il vicinato ascoltava.

   Anzichu, quando compì sette anni, e li compì a Giugno in tempo per la trebbiatura, venne portato da suo padre in campagna a far la guardia al raccolto e ve lo lasciò anche per la notte, da solo. Prima di andare via gli accese un fuoco sull'aia, intimandogli di non lasciarlo spegnere mai, perchè sarebbero arrivati i ladri e s'untuzhu. Anzichu vegliò sul fuoco per tutta la notte e non permise che si spegnesse e nè i ladri, nè s'untuzhu, per quella notte vennero a spaventarlo. durante l'estate Benìah, il padre di Aisentha, portava le sue sette figlie, Mihlusa sua moglie e l'unico maschio ai bagni al mare. Caricava tutto su un carro tirato da due robusti cavalli da soma e alle tre di notte partivano. Il viaggio era lungo e alle otto del mattino iniziavano a sentire il profumo delle alghe marce tipico di Salighèra. Alle nove avevano i piedi in acqua e camminavano scalze, sulla sabbia bianca dura e compatta del lido. Benìah, liberati i cavalli, tirava su le stanghe del carro e vi issava un grande telone a righe che fungeva da riparo contro il sole. All'età di sedici anni anche il padre di Anzichu morì, ma lui finse di non accorgersene, lo pianse molti anni più tardi, quando gli venne la velleità di scrivere poesie. Ne compose una in rima, arenandosi alla terza strofa. Non aveva la più pallida idea di come concluderla, ma lui sosteneva sempre che era stata l'emozione del ricordo ad averlo vinto. Partì soldato in guerra e quando ritornò era cambiato, aveva adesso un paio di baffi corti e duri. Parlava poco e si irritava facilmente. Continuò il suo lavoro di agricoltore e quando sua zia morì fu solo per davvero.

    Una sera si fece coraggio e andò a bussare alla porta di babbo Benìah. Gli chiese Manthoi, la quarta figlia, la più carina di tutte, ma Benìah gli spiegò che non poteva dargliela perchè era troppo piccola per lui. Allora gli propose Aisentha, ma Anzichu la rifiutò. Dopo qualche giorno bussò ancora alla porta di Benìah e accettò la secondogenita, aveva trentatre anni, disse e gli serviva una donna. Una settimana dopo venne invitato a prendere il caffè e fu così che Aisentha conobbe il suo futuro sposo, ci rimase male però, perchè se lo aspettava più giovane. Lui le regalò degli amaretti e il fidanzamento fu reso ufficiale. Aisentha aveva allora ventun'anni. Tre mesi dopo si sposarono. Era consuetudine che, come viaggio di nozze, lo sposo portasse la sposa in città per mangiare le paste con la crema, ma Anzichu non lo fece. Il giorno dopo la celebrazione del matrimonio era giorno di trebbiatura e lo sposo si dimenticò del suo primo dovere di marito. Aisentha tornò al suo telaio e per quel giorno picchiò così forte col pettine che pensarono che volesse spiantare la casa. Non cantò i gosos, ma strillò forte una corsicana che inquietò non poco il vicinato. Fra i due sposi si capì subito che le cose non sarebbero andate bene.

   Anzichu interpretava la modestia e la docilità di Aisentha come segni di scarsa intelligenza e presto prese a maltrattarla. Avrebbe voluto Manthoi, più prosperosa e allegra, questa che babbo Benìah gli aveva dato sembrava stupida. La prima volta che la picchiò lo fece quasi per gioco, era incinta di Ghelanu e Nughavi vide la mano del padre arrestarsi sul volto della madre. Lei non si difese e da allora prese a disprezzare anche la madre. Si convinse che aveva ragione il padre e che faceva bene ogni tanto a dargliele. Quella volta non disse niente, sgranò gli occhi e fu tutto. Aisentha si pulì il sangue dal labbro inferiore, sorrise al figlio e se lo tirò su in braccio. Ogni volta che Anzichu la prendeva ne aveva paura, voltava la faccia dall'altra parte e si irrigidiva in un canto silenzioso che mandava in bestia il marito. Aisentha non conosceva ancora un'altra maniera per vendicarsi di lui, non aveva ancora intuito la forza del suo canto.

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