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I RACCONTI DEL LABBRO LEPORINO Psycho (Il volto della vita) parte I.

Post n°90 pubblicato il 18 Febbraio 2012 da alex.canu
 

 

Psycho

(Il volto della vita)

Parte I.

 

 

     E`inutile che vi dica il mio nome, quì dove mi trovo ora non serve. Un numero, scritto su un foglio di carta è sufficiente per darci un’identità. La stanza che occupo non ha niente a che vedere con l’ufficio elegante e luminoso, dove mi sedevo comodamente nella poltrona di pelle. Le pareti della cella sono bianche, ma non è la stessa cosa. Lo spioncino sulla porta si apre tre volte al giorno e due occhi azzurri mi osservano. Questa è la mia storia, per chi ha voglia di sentirla. L’agenzia immobiliare, dove ho lavorato per tanti anni, non la troverete certamente sulle pagine gialle o sull’elenco del telefono. Non ha uffici che danno sulla strada, tra un negozio di abbigliamento e una pizzeria al taglio. I nostri uffici si trovano al terzo piano di un elegante palazzo e non c’è nessuna porta in legno massiccio che chiuda le otto stanze che danno direttamente sul corridoio dove un comodo e ampio ascensore va sempre su e giù senza fermarsi mai. Una lastra di cristallo scorrevole vi accoglie, producendosi discretamente in un impercettibile ronzio. Non si tratta di una semplice agenzia immobiliare, la nostra si occupa esclusivamente di intermediazione tra chi vende e chi compra edifici molto particolari. Grandi palazzi adatti ad uffici o per ministeri, oppure di dimore nobiliari d’epoca o grandi strutture alberghiere. Abbiamo acquistato un intero quartiere nel centro storico di una città sul baltico mentre il muro di Berlino crollava. Quando tutti cantavano mano nella mano, noi eravamo già operativi sul posto, conoscendo palmo a palmo le strade giuste e i palazzi che potevamo acquistare a prezzi più che stracciati. Avevamo una visione, per così dire, catastale dei grandi sconvolgimenti che, in quegli anni, ridisegnavano la cartina politica dell’Europa. I meravigliosi palazzi in puro stile liberty, progettati e costruiti dal padre architetto del grande regista russo Eizenstein. Ce li aggiudicammo per niente, dopo trattative frettolose condotte con amministratori locali compiacenti. Sfrattammo la povera gente che ci aveva vissuto dentro rovinando stucchi, vetrate, corrimani in legno di ciliegio, ringhiere di scale in ferro battuto e pavimenti, con ancora i disegni e i mattoni originali. Restaurammo tutto e vendemmo interi quartieri a prestanome di uomini d’affari, sulla cui integrità morale non ci ponemmo eccessive domande. 

   Il mio ufficio si trovava dentro una stanza luminosa, le cui ampie vetrate davano su di un piccolo spazio verde, incassato tra due alti palazzi interamente adibiti ad uffici. Quando aprivo la finestra, nelle belle giornate di sole o quando l’aria era spazzata dal vento freddo di tramontana, si respirava un’aria leggera e frizzante che mi dava gusto. Fissavo i pochi alberi del giardino e respiravo a pieni polmoni, come se mi trovassi in villeggiatura in una stazione di montagna. Poco oltre potevo intravedere la città allargarsi come una enorme macchia fatta di cemento, vetro e luce, spezzata a tratti da sprazzi di verde scuro e dalla lucente sinuosità delle rotaie dei tram cittadini. Occupavo una scrivania in metallo, con un ampio piano fatto di cristallo, perennemente ingombra di carte, atti notarili, rogiti, perizie. Allegati con fotografie di palazzi meravigliosi e lontani, da restaurare o già pronti per essere consegnati a società finanziarie, banche o grandi compagnie assicurative e multinazionali. Dividevo l’ufficio con un collega che occupava una scrivania identica alla mia. Stesse carte ammucchiate sul piano, stesso produttivo disordine, con in più un personal computer su cui memorizzava perizie tecniche e conti complicatissimi. Lui si occupava dei progetti di ristrutturazione degli immobili e io quantificavo i costi e pianificavo la tempistica dei lavori. Lui si interessava, per così dire, dell’involucro esterno ed interno degli immobili e io bandivo le gare d’appalto per le ditte che avrebbero eseguito materialmente i lavori. Il mio collega di lavoro era più alto e robusto di me, si muoveva lentamente e con una indolenza che ne aumentava la capacità di concentrazione sui delicati calcoli che doveva eseguire. Portava degli occhiali da vista con una montatura leggerissima che quasi scomparivano sul suo faccione bonario. Perdeva vistosamente i capelli e gli pendeva un doppio mento che tentava di nascondere lasciandosi crescere una barbetta ispida che gli copriva per metà il nodo della cravatta. Aveva un nome comune, che non vale certo qui la pena di ricordare, era apprezzato per essere un tipo silenzioso ed efficiente. Le lenti degli occhiali riflettevano lo schermo del suo computer, sempre in azione e sul tavolo allineava, secondo un suo disegno imperscrutabile, pile di dischetti numerati con ordine estremo e maniacale. Era sposato e sul tavolo in mezzo a tutta quella montagna di fogli riusciva a guadagnare un angolino anche per un paio di foto in cornice della sua famiglia, tra le quali spiccava una ritratto di sua figlia ancora adolescente.

   Io invece non sono sposato, ma ritengo di essere ugualmente una persona affidabile e moralmente irreprensibile. I miei princìpi sono solidi e ho ricevuto una educazione severa, ma giusta. Tengo molto alla cura della mia forma fisica e frequentavo con regolarità, per due volte alla settimana, una palestra convenzionata con la nostra azienda. La domenica mattina mi concedevo una lunga nuotata in piscina, sciogliendo così le tensioni accumulate nei giorni di lavoro, diluendole nell’acqua che sa di cloro. Posso dire di avere un aspetto gradevole, ma ho una doppia cicatrice sul labbro superiore, risultato di una complessa e articolata serie di operazioni che feci da bambino per una labiopalatoschisi bilaterale. Si tratta di una malformazione congenita causata, pare, dal fatto che mia madre durante la gravidanza non tenne nel dovuto conto la corretta assunzione dell’acido folico. Lei si aspettava un bel bambolotto, visto che tutto era filato liscio, era giovane e io ero il suo primo figlio. Si aspettava grandi cose dalla sua prima esperienza di maternità. Erano tutti eccitati e felici quando lei entrò in ospedale. Mio padre trasportò la piccola valigia che era già pronta da diverse settimane con i suoi effetti personali e il mio primo corredino. Di li a qualche giorno iniziò il travaglio e lei affrontò con determinazione anche questo momento. Si aggrappò ad una maniglia lucida di alluminio e soffiò forte con la bocca e le narici dilatate, strappandosi dei lamenti che voleva contenere mentre guardava giù verso le sue pantofole, soffrendo e gioendo contemporaneamente. Il travaglio sembrava non dover finire più, lei era stremata e io ancora non mi decidevo a mettermi nella giusta posizione per uscire fuori di li. Quando finalmente giunse anche per me l’ora x e si decisero a tirarmi fuori, mia madre udì nettamente la voce dell’infermiera che mi teneva fra le sue mani, dire al ginecologo responsabile del parto: - Guardi dottore, ne abbiamo un altro con la bocca spaccata! Mia madre ebbe la forza di tirarsi su appena un poco e con un filo di voce che le raschiava in gola disse qualcosa all’infermiera. Questa si avvicinò e le disse di non preoccuparsi, che tutto era andato bene, che era stata bravissima e che il bambino stava benone. Era un maschietto, ma... A quel ma mia madre si allarmò aggrappandosi al letto e, con la voce strozzata dalla stanchezza, disse: - Che ha il bambino, non sta bene? -Ma si- disse l’infermiera, -non ti preoccupare, solo che il bambino è nato con una leggera malformazione al palato e al labbro superiore. Cercò di mettere in questa breve informazione quanto più tatto e umanità possibile, ma questo servì ad allarmarla ancora di più. L’infermiera le chiese se voleva vedere il bambino, lei esitò e venne scambiato per un assenso. Quando ebbero tagliato il cordone ombelicale, il dottore stesso mi portò in braccio e mi presentò a lei con uno spacco tale sulla bocca che la povera donna gridò così forte che la sentirono per tutto l’ospedale. Per qualche giorno si rifiutò di guardarmi e mio padre dovette tenersela stretta e carezzarle a lungo i capelli, per convincerla a riaccogliermi. Aggredivo con rabbia impotente i suoi capezzoli che profumavano di latte, ma niente o quasi riuscivo a prenderne perchè rigurgitava fuori dal naso. Il grosso taglio che avevo sul palato non mi permetteva di succhiare il latte, come fanno tutti gli altri bambini e mandarlo giù. Allora strillavo per quella fame disperata che non riuscivo ad appagare. Dovettero prendere l’impronta del mio palato e applicarmi una placca che chiudeva la fessura comunicante con il naso per impedire al latte di uscirne fuori. Era come succhiare da una cannuccia con tanti buchi. Quando compii quattro mesi mi operarono per la prima volta al palato molle e a otto subii il secondo intervento chirurgico per la chiusura totale del labbro superiore. Grazie a questa seconda operazione il mio volto perse il suo aspetto di piccola bestia ferita e divenne più armonioso. Iniziai a nutrirmi con più facilità e iniziai anche a reagire agli stimoli esterni con il sorriso. Rimasero quelle due cicatrici sul labbro però a ricordare a mia madre quel periodo di disperazione, il chirurgo non fu bravissimo. Crebbi, per il resto come qualunque altro bambino e, quando compii un anno e mezzo, il terzo intervento servì a chiudere definitivamente il palato duro e a restituirmi ad una vita normale. Naturalmente di tutto ciò io non conservo memoria alcuna, fu mio padre a raccontarmi tutto, con infinita pazienza e a più riprese, tra l’adolescenza e la mia prima gioventù. Poi pensò bene di morire e mia madre seppellì, con il corpo, anche il suo ricordo, semplicemente non accennando più a niente che potesse riguardarlo in prima persona. Fece sparire perfino le foto che lo ritraevano e si chiuse in un mutismo ostinato e rancoroso. Non gli perdonò mai di essere morto così presto lasciandola sola col mostro. Così mi chiamava. Per scherzo, diceva lei. 

   Sono stato figlio unico, dico sono stato perchè mia madre si rifiutò di mettere al mondo un secondo figlio. L’esperienza del primo fu giudicata sufficiente ad arginare qualsiasi altra ipotesi di maternità. Mio padre non seppe insistere o non volle, chissà, e si arrese con troppa facilità. Davanti alla muta ostinazione femminile gli uomini si sentono impotenti, come davanti ad un mistero di cui non se ne comprende il senso. Il no femminile in questi casi è cupo e categorico. Cercò gli altri figli che desiderava e che la moglie si rifiutava di dargli negli oltre due pacchetti di sigarette al giorno e se ne fumò così tante che finì con l’uccidersi. Le sigarette si fumarono lui e quando lo chiusero dentro la bara di legno laccato si intravedevano le sue dita intrecciate, ancora gialle di nicotina arrugginita. Quando lui morì io avevo appena compiuto diciassette anni. Una età adatta per incominciare a catalogare i propri ricordi o per seppellire quelli che non si desidera conservare. Mio padre apparteneva a questa seconda categoria, dico, a quelli che si desidera eliminare. Ecco come stanno le cose. Se ne andò mangiato da tutte quelle sigarette che si fumava ogni giorno e mi lasciò con quella madre che non seppe mai trovare il modo giusto per avvicinarsi a suo figlio. 

-Non dovette considerare vostro figlio come un bambino diverso dagli altri- diceva lo psicologo che mi aveva seguito fin dalla nascita. Io me ne stavo seduto sulla sedia di ferro smaltata di bianco, con le mani infilate sotto le cosce grassocce. Lasciavo penzolare le gambe agitandole avanti e indietro. Sentivo il cappottino stretto che mi tirava sui fianchi e intanto mi passavo la lingua sul palato e sulle due cicatrici sul labbro e mi dicevo che dalla vita avrei avuto tutto quello che avrei desiderato. Lo volevo fortemente. 

-Dategli la sicurezza di essere protetto, ma non viziatelo mai. Mettetelo subito a contatto con gli altri bambini suoi coetanei-, continuava a dire il dottore, -imparate ad essere pazienti, ma non arrendevoli. Sgridatelo come fareste con qualsiasi altro bambino e sappiategli dire di no. Siate animati da ottimismo e serenità. Immagino la faccia del medico e tutti gli sforzi che doveva sicuramente compiere per dire queste cose ovvie alla mamma e al babbo. Però immagino anche ciò che doveva pensare, dentro di se, nell’accorgersi della dolorosa assenza di amore in quella famiglia e, forse, lo comprendeva meglio dalle dita gialle di nicotina di mio padre. Quando uscivamo fuori dallo studio dello psicologo, la mamma mi prendeva per mano, strappandomi a quella sedia di metallo che nel frattempo avevo ben scaldato. Non diceva una parola, ma diventava più nervosa del solito e scaricava tutto il suo disappunto sulla mia mano che strattonava come un oggetto indesiderato, ma che bisognava recuperare. Il babbo rimaneva sempre leggermente indietro a frugarsi nelle tasche per cercare l’accendino di plastica e accendersi finalmente una sigaretta. Vedevo le scintille e poi la fiammella azzurrina, il primo sbuffo di fumo disperdersi nell’aria e la sua faccia cambiare espressione e rilassarsi lievemente. Ci seguiva rimanendo volutamente indietro di qualche passo, osservando sua moglie trascinarmi per la strada e, allora, tornava di nuovo scuro in volto, di nuovo solo e impotente. Vedevo il profilo duro di mia madre affrontare la strada e intuivo mio padre appena più dietro, li avrei uccisi entrambi in quel preciso momento, sapevo che avrei potuto farlo. 

   La prima volta che pensai seriamente a questa ipotesi fu all’uscita da una visita dallo psicologo. Tutta la famiglia era riunita al completo, mio padre era già in crisi d’astinenza dopo appena cinque minuti e dava segni di irrequietezza che faticava a reprimere. Quando ce ne andammo senza che io avessi aperto bocca, come al solito mia madre mi trascinò tirandomi per la mano. Camminando per strada incrociammo un gruppo di ragazzini che si fermarono a guardarci. Uno di loro diede di gomito agli altri e tutti si misero a ridere. Ridevano di me e sapevo che tutto dipendeva dal problema che avevo, da quelle strane cicatrici sul labbro che non piacevano a mia madre. Comunque sia, quando il babbo morì, lei si ostinò a curare la casa in modo maniacale. Sostituì le tende alle finestre e buttò via quelle vecchie che sapevano di anni e anni di fumo rappreso. Cambiò le federe e il rivestimento del grosso divano che avevamo in sala. Eliminò i tappeti e passò l’aspirapolvere con regolarità su ogni angolo della casa e sotto i grossi mobili sparsi dappertutto. Si ostinò a dare la cera ai pavimenti e mi costrinse ad usare quelle orrende pattine di feltro con le quali ci spostavamo nei corridoi e per le stanze, sembravamo affetti da una strana malattia che ci costringeva a strisciare in quel modo innaturale e goffo dentro casa nostra. Chiamò dei pittori a ritinteggiare le pareti e fece dare ad ogni stanza una tonalità pastello differente. Raramente chiedeva il mio parere sui cambiamenti che operava e decideva senza interpellarmi per qualsiasi questione e, a me tutto sommato, andava bene così. Quando iniziai questo nuovo lavoro trovai comodo che fosse la mamma ad occuparsi della casa e di tutto il resto. Qualsiasi decisione prendesse non opponevo la minima obiezione. La consideravo una bella fortuna, visto come andavano le cose a molti dei miei colleghi sposati. Li vedevo arrivare al lavoro con certe lune per traverso. Fregati, ecco quello che sembravano, dei fregati alla grande. Io me ne stavo al mio posto, non davo confidenza a nessuno e non ne chiedevo da nessuno, uomini o donne che fossero. La mia scrivania era sempre pulita, non dico ordinata, dico semplicemente pulita. Una spruzzatina di disinfettante ogni tanto, un panno morbido, via lo sporco. Dedico grande attenzione alla cura di ogni dettaglio del mio aspetto esteriore. Dobbiamo dare una sensazione di gradevolezza alle persone con cui abbiamo a che fare. Le relazioni di lavoro sono facilitate dall’aspetto piacevole di chi le conduce. La barba deve essere sempre ben rasata. Preferisco la schiuma gel a quella spray tradizionale e mai, mai usare la stessa lama per più di due volte. Attenzione alla lozione dopobarba, meglio neutra, che non contrasti col profumo scelto per il corpo. Adeguata attenzione deve essere prestata al taglio dei capelli che deve essere effettuato almeno una volta al mese e, se possibile, sempre dallo stesso barbiere. I pantaloni devono essere eleganti, ma non vistosi. E`la camicia però il particolare da cui si può veramente capire l’eleganza in un uomo. Deve essere di buona marca e fattura, avere colori tenui e rassicuranti. Meglio evitare camicie scure che mettono in crisi le cravatte. Il taglio del colletto è molto importante, non deve essere un’armatura che costringe il collo ad una rigidità innaturale, ma dovrebbe avvolgerlo discretamente. Se possibile evitarli di colore diverso dal resto della camicia. Le cravatte accompagnano ogni scelta dell’abbigliamento con discrezione, ma anche con quel pizzico di originalità e autoironia che deve sempre essere presente in ognuno di noi. Vanno abbinate con innocenza e vanità. E`dalla cravatta che si riconosce la profondità dell’animo di ogni uomo. Quando mi succede di conoscere persone nuove osservo, come prima cosa, la cravatta che portano e come la indossano. Fatelo anche voi, capirete molte più cose delle persone che avrete di fronte. Agli orologi non dedico eccessiva attenzione. Ritengo che siano un accessorio sopravvalutato, non servono assolutamente per controllare l’ora, sono dei bracciali al polso e, come tali, devono essere alternati, quanto più possibile, al polso e mai, comunque, indossare quelli in oro, suscitano diffidenza. Gli orologi si scelgono come le cravatte, con leggerezza, come un gioco e con un pizzico di ironia. Scarpe e cinture chiudono il percorso e su queste non si deve sbagliare, vale la pena di investire parte del proprio capitale. La scelta deve essere quanto più ampia possibile, diversificata a seconda del momento, della stagione, delle occasioni che la vita ci pone davanti. Per le occasioni di lavoro servono in pelle, sempre, calda e comoda. Non fumo, non ho mai fumato. La mamma non lo permetteva, per via del babbo, brutti ricordi, diceva lei. Fumava anche in camera da letto. Per questo motivo qualche volta rimaneva a dormire in camera con me dopo il bacio della buonanotte. Non amavo quei momenti, perchè con tono lamentoso mi sussurrava frasi all’orecchio del tipo: il mio bambino, il mio bambino sfortunato, convinta che io stessi dormendo. Non capivo ancora a cosa si riferisse, ma creava dentro di me un disagio e una rabbia sorda che ingoiavo dentro come un boccone avvelenato. Quando mi dava il bacio, come tutte le mamme, sarebbe dovuta uscire in silenzio dalla mia camera, lasciando intatta quella sensazione di tepore e protezione che fa scivolare qualsiasi bambino in un sonno profondo e appagatore. Dopo la spettacolarità del bacio mi sembrava più bello separarsi. Starsene li invece, stretti l’uno all’altro nel lettino era una caduta di stile che non apprezzavo. L’incarico che ricoprivo all’interno dell’azienda, mi portava talvolta a compiere dei viaggi in altre città, più spesso all’estero. I titolari avevano fiducia nelle mie capacità nelle intermediazioni più difficili. Ero discreto e pragmatico e portavo sempre indietro un risultato positivo. I dirigenti, due soci non più giovanissimi, piuttosto austeri e gravi d'aspetto, mi convocavano nel loro ufficio e mi mettevano al corrente dei dettagli e delle difficoltà di una particolare operazione che poteva riguardare un edificio il cui acquisto o vendita poneva dei problemi. Mi aggiornavano sulle ultime azioni compiute e, di solito, lasciavano carta bianca sul mio operato. Sceglievo io l’albergo dove alloggiare e, dovendomi trattenere per almeno cinque giorni, sceglievo il meglio che quella città potesse offrire. Si trattava per lo più di discutere le condizioni di acquisto o vendita di un immobile, per il quale i proprietari, o gli eredi, opponevano grane eccessive oppure avanzavano richieste esose. Si trattava di entrare dentro intricate questioni familiari che richiedevano tatto e molto intuito per poterle dipanare. Possedevo una innata capacità nel riconoscere immediatamente il nodo centrale delle dispute familiari fra gli eredi e di appianarle, senza mai perdere la calma e sempre con un sorriso fra le labbra. A proposito delle labbra, una volta uno dei due direttori mi chiese, mentre girava lo zucchero nella tazzina del caffè, se non avessi mai pensato di migliorarne l’aspetto con una operazione di chirurgia estetica. Cercò di metterci quanta più indifferenza possibile nel suo tono di voce, ma questa richiesta mi stupì. -Un leggero ritocco, suvvia, - mi disse. - Oggi con quei ferri in dieci minuti fanno miracoli.

 

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