Creato da giglio.alfredo il 31/03/2013
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« RECENSIONE A CURA DI ALF...COMMENTO A CURA DI ALFRE... »

RACCONTO DI ALFREDO GIGLIO

Post n°104 pubblicato il 24 Aprile 2013 da giglio.alfredo
Foto di giglio.alfredo

 

A DISCREZIONE DEL……..TIZIO

(da Una Velata Realtà)

di Alfredo Giglio

 

 

Una notte piovosa del mese di novembre, Cataldo Russano, che gestiva una pompa di benzina sulla statale, a metà strada fra due paesi, scarsamente abitati della Ionica, rientrava a casa, scortato dai carabinieri e con la testa fasciata.

Era visibilmente sconvolto e col volto tumefatto e graffiato. La moglie, che gli aveva aperto la porta di casa, l’abbracciava piangendo lacrime amare di disperazione: le avevano detto che il marito aveva avuto un incidente sul lavoro.

In realtà, era stato vittima di un’aggressione ad opera di due malviventi, che gli avevano sottratto tutto l’incasso della giornata, l’avevano malmenato e colpito col calcio di una pistola più volte alla testa, con tanta veemenza che avevano dovuto dargli, al pronto soccorso dell’ospedale civile, ben dieci punti di sutura.

I Carabinieri spiegavano alla povera signora sgomenta e sbigottita per l’accaduto, che avevano dovuto pure interrogarlo in caserma per avere maggiori informazioni, per la cattura dei due energumeni che l’avevano pestato e derubato, sotto la minaccia di un’arma da fuoco. Garantivano al malcapitato e a sua moglie che, in breve, avrebbero assicurato quei malviventi alla giustizia.

Quella notte Cataldo non aveva la voglia di cenare, così si faceva preparare una camomilla calda ed andava a letto. Durante tutta la notte non riusciva a chiudere occhio: si girava e rigirava nervosamente nel letto, come assalito da incubi profondi. Pensava a tutto l’incasso della giornata, che era stato cospicuo, perché si erano fermati a fare rifornimento di carburante diversi camionisti, provenienti dalla Sicilia e diretti a Nord. Pensava a quei due, entrambi armati di pistola: uno più basso dell’altro, col volto coperto da una calza maglia e con quella potente torcia puntata sugli occhi, che non gli faceva vedere niente, sotto la minaccia delle pistole, fino alla sua reazione disperata.

Poi, colpito più volte al viso e al capo, s’accasciava al suolo e restava lì, riverso, diversi minuti, prima di rendersi conto del sangue che sgorgava copioso dalla sua testa ferita.

Si rialzava a fatica e chiedeva aiuto sulla strada statale, fino a quando un’auto di passaggio, notando la situazione critica, si fermava e l’accompagnava in ospedale, dove giungevano i carabinieri, dopo pochissimi minuti.

Una volta medicato, veniva condotto in caserma per essere interrogato sull’accaduto.

Un mese prima, gli avevano tagliato le gomme dell’auto e lui aveva sporto regolare denuncia, che non aveva avuto alcun esito.

Si sentiva minacciato e voleva riacquistare fiducia nella vita, nelle sue capacità di difesa, fiducia nelle istituzioni che l’avrebbero forse aiutato. Così gli balenava nella testa di chiedere il porto di pistola: avere un’arma a portata di mano avrebbe scongiurato qualsiasi aggressione. L’arma avrebbe fatto da deterrente: i malviventi non sarebbero più stati così sicuri di farla franca.

Si recava dopo qualche giorno al locale Commissariato di Pubblica Sicurezza e chiedeva l’elenco dei documenti da produrre, nonché le tasse da pagare, per ottenere la licenza di porto di pistola.

Un poliziotto, gentilissimo, gli forniva l’elenco dei documenti da produrre e poi gli diceva che quella licenza era di competenza esclusiva del Prefetto, il quale non l’avrebbe concessa facilmente, perché occorrevano dei requisiti specifici, che motivassero validamente tale richiesta.

Il povero Cataldo chiedeva più chiarimenti e gli veniva spiegato che in genere questa autorizzazione, veniva concessa a chi trasportava ingenti somme di danaro, oppure gioielli. Si poteva concedere a chi era costretto a transitare di notte in rioni malfamati e quindi ad alto rischio di rapine, di liti per il malaffare; oppure si concedeva a chi dovesse espletare la funzione di Guardia Giurata, ai corpi di Vigilantes notturni o a cariche istituzionali ad alto rischio, come magistrati, avvocati o banchieri ed imprenditori, facenti capo all’alta finanza.

Cataldo invece, era solo un poveraccio, che aveva perduto poco più di tre milioni di lire, ma era sempre un soggetto a rischio, tanto che era stato malmenato e, se avesse avuto la forza di reagire, l’avrebbero pure ucciso.

Forte di questa ultima considerazione, inoltrava la domanda e pagava le tasse prescritte. I poliziotti che dovevano relazionare, facevano segno sulla loro nota informativa all’accaduto della rapina ed al rischio che il gestore della pompa di benzina, isolata nella campagna, correva tutte le sere, dovendo portare a casa l’incasso, che a volte era appetibile anche alla malavita locale. Aggiungevano che era persona tranquilla senza carichi pendenti e senza condanne, risultanti dal casellario giudiziale.

In attesa degli eventi, un giorno veniva a fare rifornimento di benzina un suo conoscente. Un ragazzo giovane, scapolo, impiegato postale, lontano parente del Boss locale, che sfoggiava, sotto la giacca, attaccato alla cintola , un grosso revolver Smith & Wesson calibro 38 special. Attratto dalla bellezza di un’arma potente, tutta in acciaio cromato, con le guancette in noce, Cataldo gli domandava se gliela faceva vedere meglio.

Il ragazzo, con fare disinvolto e con aria leggermente spavalda, estraeva dal fodero l’arma e gliela porgeva, dicendogli di fare attenzione perché era carica.

Gli occhi di Cataldo si illuminavano di una luce nuova: con un’arma simile, nessuno si sarebbe mai sognato di fargli del male o di sottrargli il pane dei propri figli. Teneva l’arma nelle mani, come se l’accarezzasse. Poi la restituiva e domandava all’amico se avesse il porto d’armi. Certo, rispondeva quello. Tirava dalla tasca il tesserino con la licenza firmata dal Prefetto e gliela porgeva, mentre riponeva il revolver nel fodero di pelle.

Cataldo, quasi incredulo che un giovane, scapolo, modesto impiegato avesse avuto la fortuna di andare armato, chiedeva come avesse fatto ad ottenere il rilascio della licenza, che, a dir dei poliziotti, era difficilissimo averla.

Il giovane rispondeva che si era interessato, per lui, il sottosegretario al Ministero degli Interni, il quale aveva telefonato direttamente al Prefetto.

Cataldo, non aveva questi mezzi: era un povero benzinaio di campagna. Non aveva Santi in Paradiso, però era soggetto a rischio.

I mesi trascorrevano veloci e si era nel mese di marzo, quando apprendeva da un carabiniere, suo cliente, che avevano arrestato per interrogarlo, quel suo conoscente del revolver, per spari in luogo pubblico e gli avevano ritirato la licenza di porto di rivoltella, nonché sequestrato l’arma stessa.

Aveva avuto una lite per futili motivi e, per intimorire il suo antagonista, gli aveva scaricato, di giorno ed in piazza, un intero caricatore di colpi fra i piedi, col rischio di ferirlo seriamente.

Peccato, pensava Cataldo, non gli daranno mai più la licenza e mai più quel magnifico revolver; anzi correva il rischio che venisse pure condannato a tre o quattro mesi di carcere.

Nel mese di aprile gli giungeva la notifica che la sua richiesta intesa ad ottenere il porto di pistola, era stata rigettata per insufficienza di motivazioni e perché il richiedente non dava sufficienti garanzie sull’uso corretto delle armi.

A Cataldo, onesto cittadino, veniva negata la possibilità di difendere la propria vita e i propri averi, perché il rilascio di quel prezioso documento non era  un diritto del cittadino onesto, ma era subordinato alla discrezione di un funzionario governativo, al quale nulla importava della vita o del rischio di un povero benzinaio.

Verso la metà di maggio, il giovane sparatore in luogo pubblico, tornava a fare benzina, sfoggiando sempre la sua bellissima Smith  & Wesson. Non era stato processato e gli era stata restituita l’arma e la licenza, per interessamento del sottosegretario.

La difesa di Cataldo era affidata alle forze dell’ordine, polizia di stato, carabinieri, guardie di finanza, guardie forestali e chi più ne ha, più ne metta. Ma quando ai primi di giugno, senza attendere nemmeno che giungesse la sera per chiudere la pompa, due scavezzacolli o picciotti malavitosi o due appartenenti alla feccia sociale, si presentavano davanti al povero Cataldo, indifeso, solo, senza scorta, senza armi, animato solo dalla voglia di vivere per portare a casa un tozzo di pane, che vedeva, in quel momento, come unico mezzo di salvezza solo la fuga, gli sparavano addosso tre colpi mortali, attingendolo in pieno petto, non c’era il Prefetto e nemmeno le forze di Polizia a difenderlo.

Doveva rendere l’anima a Dio, senza nessuna possibilità di difesa: la sua vita era dipesa dalla discrezione di Tizio o di Caio ed intanto i malfattori, gli assassini, che non avevano bisogno della licenza continuavano a colpire e a farla franca.

Alfredo Giglio

 

 

 
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