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COMMENTO A RIVERBERO DI MARZIA CAROCCI A CURA DI ALFREDO GIGLIO

Post n°369 pubblicato il 11 Ottobre 2015 da giglio.alfredo
Foto di giglio.alfredo

RIVERBERO

Di Marzia Carocci ©

 

Quando la notte mormora
respingo nelle viscere i silenzi,
palude stanca della mente
dove resta solo polvere del sogno
Cromato il mosaico del tempo
nell’ultimo frammento
d’eternità illusoria
che sfuma e che scorre
in dissipante luce .
Adagio sfoca e si consuma
l’istante eterno della vita
che ancora torna e si rinnova
colorandosi d’essenza e di vissuto.

 

 

COMMENTO A CURA

 di ALFREDO GIGLIO

alla lirica  “RIVERBERO”

di Marzia Carocci

 

 

Prima di passare al commento della bella poesia di Marzia Carocci, mi vorrei soffermare, un solo attimo, sul valore della poesia e dei poeti: osannati da una critica miope e mediocre, i meno bravi e quasi ignorati i più talentuosi e, a tal proposito, mi piace pensare ad una bella immagine del poeta genovese Piero Jahier, il quale, sulla rivista fiorentina “ La Voce “ dell’11 aprile 1912, diceva, riferendosi al valore gerarchico dei Poeti, che tutti siamo artisti, essendo nati dallo stesso seme, però alcuni sono come l’erba su cui striscia il passo ed altri, invece, sono come alberi altissimi, tremendamente immersi nel cielo. E fra quest’ultimi, mi piace annoverare il nome di Marzia Carocci.

Ora, il valore gerarchico della Poesia, si porta dietro, come ho avuto modo di ribadire in altre occasioni, il carattere di universalità dell’opera d’arte.

Lo stesso Croce, che ha riaffermato tale carattere di universalità, riprendendolo un po’ dalla poetica aristotelica, (non mi pare d’aver citato questo particolare in qualche mio precedente commento) dice chiaramente che il Poeta, nel suo sentimento individuale, coglie il respiro dell’Universo. Il sentimento contemplato dal Poeta “ si vede diffondersi per larghi giri in tutto il dominio dell’anima, che è il dominio del mondo, con infinite risonanze: gioia e affanno, piacere e dolore, forza e abbandono, serietà e levità…” (Aesthetica in Nuce).

E nel saggio pubblicato sulla rivista “La Critica” del maggio 1913, intitolato “ Il carattere di totalità dell’espressione artistica”, il Croce aggiunge: “ In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale che diviene, cresce in perpetuo in se stesso soffrendo e gioiendo.”

Da queste brevi considerazioni sull’universalità dell’arte e sulla gradualità dei valori poetici, da me condivise, balzano evidenti due punti: per prima cosa, se vogliamo fare una critica seria, dobbiamo tendere l’orecchio attento verso qualsiasi fenomeno poetico e avvicinarci ad esso con sentimento umile e con strumenti d’indagine molto discreti ed in secondo luogo, senza aver mai pregiudizi critici, cercare nella vera poesia note fresche e vibrazioni autentiche.

Fatta questa breve premessa sul valore dell’opera d’arte e sulla necessità di scrivere recensioni critiche con modestia, ma con la dovuta competenza, passo a spiegare in modo comprensibile a tutti, i versi di Marzia Carocci, coerenti con quanto detto sulle illusioni “dell’umano destino”, accennate in premessa.

 

In questa breve poesia, la Poetessa, consapevole della sua vitalità interiore, prende coscienza delle sua capacità espressive ed evocative, e, superando ogni tipo di individualismo, si è avviata da tempo ad una pienezza che denota la sua raggiunta maturità e prende in considerazione un tema universale, che riguarda la brevità dell’esistenza di fronte all’eternità del tempo.

Sono versi bellissimi, che nella loro fluida andatura, danno la misura di ciò che possa rendere sul piano poetico, una perfetta fusione di elementi simbolici e di motivi realistici, in cui non è difficile scorgere tutta l’ansia poetica dell’Autrice.

Consideriamo, in primis, il titolo: Riverbero, cioè un Bagliore, un lampo di luce riflessa, che parte dall’anima e si traduce in pensiero e quindi nel colore delle parole: è una pennellata superba, che esprime bene il nascere veloce dell’ispirazione.

 

Quando la notte giunge coi suoi rumori soffusi e soffocati, dice la Poetessa, ma dolci come un mormorio che sa quasi di nenia, preludio quindi a quel silenzio ovattato del buio più profondo, Lei, allontana da sé tale silenzio, relegandolo negli infimi recessi del suo io: recessi, che rappresentano la palude, ove ristagna la mente stanca e dove rimane solo la polvere del tempo, espressione felice per fare risaltare l’eternità del tempo stesso, che diviene, in senso figurato, una forza che riduce in polvere ogni cosa.

La Poetessa, come possiamo notare, accarezza le parole e le trasfigura nella magia delle immagini.

Balza così evidente la brevità delle cose, della vita stessa, che crea quell’ansia e quella angoscia del vivere, che permea i versi della Carocci dal principio alla fine. Ritroviamo nei suoi versi quasi lapidari, tutto quel “dramma intero del reale che diviene..”, espresso dal Croce nella sua Critica.

  Mi pare, quindi, di potere affermare che è  proprio questo “senso dell’umano”, il senso stesso della poesia di oggi. La sua poesia  coglie questo senso di smarrimento perché non nasce dal nulla, non è frutto solo di una ispirazione estemporanea, ma si nutre di letture, visioni, passioni… Si nutre, mi piace ripeterlo, innanzitutto di poesia.

Ed è per questo che i suoi versi sono capaci di toccare le corde più intime e, indipendentemente dalle vicende a volte biografiche che costituiscono solo un pretesto, sanno dare voce alle ansie della modernità e ci ricordano che il mondo ha bisogno della poesia per guarire dall’individualismo esasperato, che caratterizza appunto il nostro tempo.

Continuando, dice Marzia Carocci, che il “mosaico del tempo”, che corrisponde all’insieme delle vicende umane, rimane “cromato”, ( il termine cromato viene dal greco   χρμα,” che vuol dire"colore"), quindi possiamo ben dire “colorato”, appunto un mosaico di luci e di colori, come visto attraverso un luminoso caleidoscopio che, nell’ultimo istante, nell’ultimo frammento che rimane di quella illusoria eternità, in cui ci appare avvolta la vita, passa velocemente e sfuma in una luce sempre più fioca.

Versi stringati che esprimono una realtà cosmica che riguarda la fragilità umana e, ripeto, la brevità della vita: elementi che costituiscono, per l’arroganza del tempo, tutto il dramma del genere umano.

Mi sento di dire che la rappresentazione della fine della vita con la luce che diviene “dissipante” e quindi debole è originale e felice: tutto ciò che è destinato a finire è come il corso del sole, la cui intensità di luce passa da accecante a crepuscolare, proprio nell’approssimarsi del suo tramonto.

 

Lentamente perde luminosità e si consuma, quasi fosse una candela accesa, anche quell’istante della vita, che ci è apparsa eterna, la quale eterna non è, ma si perpetua (quel torna e si rinnova) “colorandosi d’essenza”, ossia di bellezza, (l’essenza è infatti l’anima della vita stessa e la parte più consistente e più bella), e “di vissuto”, ovvero di tutte quel cumulo di esperienze, negative o positive, che danno valore e gusto all’esistenza.

In sintesi, ci par di capire che, secondo la Poetessa,  la vita è breve se riferita alla singola persona o cosa, ma anche eterna quanto il tempo, perché il suo ciclo muore e si rinnova all’infinito. Trovo magnifico questo passaggio dal particolare all’universale.

Come possiamo vedere è una lirica breve, ma ricca di contenuti: una lirica che pone in risalto un elemento degno di nota della poesia della Carocci: quello di rendere infinito, senza tempo, l’istante più breve e che mi sembra racchiudere, nella sua apparente semplicità, tutto l’universo poetico della nostra Autrice.

Immaginiamo che così si snodi, con tutte le sue angosce, le inquietudini, le sconfitte contro cui ogni giorno resistiamo per far sì che non ci venga rubato altro tempo, il rapido fluire della vita, che nella poesia di Marzia Carocci, viene dilatato in un lungo istante da vivere fino in fondo, o da ricordare con sofferenza, quando, tragicamente, lo scorrere del tempo trascina con sé tutte le cose che amiamo.

 

Alfredo  Giglio

 

 

 
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