aMaricalatinaUN ALTRO MONDO è IN COSTRUZIONE..... questo è un blog libero, non liberista ma libertario e schierato contro ogni guerra, contro ogni totalitarismo ed ogni ingiustizia, anche la più piccola... è una voce dalla parte dei popoli che soffrono, degli imarginati per idee o per natura.... dedico questo blog agli oppressi del mondo e a tutti coloro che sognano e combattono per la libertà e per un futuro diverso. |
MI CONSENTANO DI PRESENTARMI...
brevi
cenni confusamente biografico-emozionali
ringrazio il destino per l'avere il sud nelle vene, la mia mamma e il mio papà per avermi cresciuta serena, libera, capace di critica e sorridente.. mio fratello per la complicità ed il conforto, e i miei nonni per i vizi e le carezze.
Dopo una laurea in Giurisprudenza ed una specializzazione in Relazioni Internazionali, ho scelto finalmente di impiegare tempo energie e cuore nel magnifico-emozionante-precario mondo dell'attivismo. Dopo aver lavorato lungo un indimenticabile ed indimenticato anno come consulente giuridica per i richiedenti asilo ed i rifugiati colombiani sulla frontiera nord ecuadoriana, ora sono di istanza a Roma parte della famiglia di A Sud. Nonostante il tempo sia il rpimo dei tiranni da combattere, continuo a coltivare la mia passione per il giornalismo e la fotografia, che considero strumenti indispensabili e doverosi, dei quali si può e ci si deve servire, al fine di partecipare fattivamente ad una sfida ben più ardua: quella di contribuire a creare nei Nord del mondo una coscienza differente delle problematiche politiche e sociali, preludio ineludibile alla vittoria della coscienza solidaria umana sulla legge del più forte.
Interessi: innumerevoli, viaggi innanzitutto, invariabilmente verso Sud.. ed inevitabilmente fotografia. Lettura sempre, ultimamente circo. Musica molta - meglio se popolare o da suonare con la mia chitarrina. E poi il mondo, i suoi angoli orgogliosi e maleodoranti, la sua umanità struggente. E gli amici, il vino e l'amore e i sorriso a colorare tutto.
Amo: il Sud, i sorrisi, viaggiare
Odio: le ingiustizie, la prepotenza, la noia
LETTERA APERTA AI NAVIGANTI
eccomi qua....
difficile presentarsi in due righe,
ci vorrebbe un libro e poi una mappa per leggerlo
e allora che dire?
la verita' e' che questo intervento augura a se stesso di aprire una serie di riflessioni,
che non pretendono d'essere continue ne' esaustive:
si trattera' di qualche intrusione in un territorio complesso, troppo grande..
...il mondo, visto da me.
Il mio sogno sarebbe un lavoro di lungo respiro,
capace di correggersi man mano che si sviluppa,
aperto alle reazioni che suscita,
alle congiunture che gli capitera' di incontrare,
e forse ad ipotesi nuove.
Lo vorrei un lavoro disperso e mutevole,
che segue una sottile linea di pensieri
per lanciarsi come un neofita nell'universo visibile,
prendendo forma, per me e per voi,
nei brevi o lunghi deliri che spero riempiano presto questo spazio magico.
ed allora ecco fatto... ho iniziato!
buon viaggio e occhio alla stella polare
m.
Maggio 2007
MONTAGGI QUASI VIDEO
"LA SPERANZA" - montaggio video - 1 min.
autore: aMaricalatina
Immagini, primi piani scattati al centro per i migranti oltre la frontiera ecuadoriana, un centro - l'unico - creato per accogliere i profughi colombiani in continuo afflusso.
La paura..e la speranza.
DEL BENE E DEL MALE
di: Eduardo Galeano
da "il Manifesto" del 20.11.2001
Nella lotta del Bene contro il Male è sempre il popolo a metterci i morti. I terroristi hanno ucciso lavoratori di cinquanta paesi, a New York e a Washington, nel nome del Bene contro il Male. E nel nome del Bene contro il Male, il presidente Bush giura vendetta: "Eliminaremo il Male da questo mondo", annuncia.
Eliminare il Male? Che cosa sarebbe il Bene senza il Male? Non solo i fanatici religiosi hanno bisogno di nemici per giustificare la loro follia. Anche l'industria degli armamenti e il gigantesco apparato militare degli Stati Uniti hanno bisogno di nemici per giustificare la loro esistenza. [...]
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DOSSIER PLAN COLOMBIA (2005-2006)
-
Dossier:
le conseguenze del Plan Colombia sulla frontiera con l'Ecuador - I
Parte (su Selvas.org - dicembre 2005)
- Dossier:
le conseguenze del Plan Colombia sulla frontiera con l'Ecuador - II
Parte (su Selvas.org - gennaio 2006)
Post n°16 pubblicato il 15 Novembre 2008 da aMaricalatina
[pubblicato su Carta il 28 Aprile 2008] Il Premio Goldman per l’America centrale e meridionale è stato assegnato quest’anno a Luis Lanza e Pablo Fajardo, attivisti ecuadoriani dell’Assemblea delle vittime della Texaco. I due attivisti hanno ottenuto quello che probabilmente è il più importante riconoscimento internazionale per l’impegno in difesa dell’ambiente per aver lavorato lungo anni all’instaurazione del giudizio che la popolazione amazzonica delle province di Orellana e Sucumbíos hanno presentato contro la Texaco chiedendo la bonifica delle zone contaminate e una giusta compensazione per i danni subiti. Luis Yanza è cofondatore del Fronte di Difesa dell’Amazzonia, l’organizzazione che fu creata per raccogliere i 30 mila abitanti danneggiati dalla Texaco. Pablo Fajardo, residente in una delle comunità danneggiate, è invece a capo dell’equipe di avvocati incaricati della causa ed è divenuto nel tempo la voce pubblica delle comunità in lotta. Quello compiuto dalla Texaco nell’Amazzonia dell’Ecuador è stato definito il peggiore disastro ambientale mai causato da una multinazionale del petrolio. Tra il 1964 e il 1993 la compagnia ha operato in Amazzonia ricevendo dai governi un milione e mezzo di ettari di selva in concessione. Selva vergine, dove vivevano numerose comunità indigene. La Texaco è colpevole di aver scaricato 17 milioni di galloni di petrolio e 20 milioni di galloni di rifiuti tossici e di acque residuali di lavorazioni nei corsi d’acqua usati da oltre 30 mila persone. Durante i decenni di attività la multinazionale, per aumentare i guadagni, scelse infatti di non usare le tecnologie di rispetto ambientale. Ancora oggi molte comunità continuano ad pagare le conseguenze della contaminazione sia sulla salute sia sul territorio e sulle forme di vita e di sussistenza tradizionale. L’incidenza dei casi di disturbi fisici, tumore e nascite difettose è cresciuta a ritmo esponenziale negli ultimi 30 anni. Nel 1993, Yanza e un equipe di avvocati presentarono una denuncia collettiva contro la Texaco [acquisita dalla Chevron del 2001] in una Corte del distretto di New York non lontana dalla sede dell’impresa. Tra i denuncianti, oltre ai coloni, appaiono cinque popoli indigeni: siona, secoya, cofán, huaorani e kichwa, divisi in 80 comunità per un totale di 30 mila persone. Nel 1996 la Corte rigettò il caso, ma l’appello proposto dai denuncianti ribaltò la decisione. Nel 2002 la Corte federale d’appello statunitense accettò la richiesta dell’impresa di trasferire il caso in Ecuador. Dopo 10 anni di stallo presso le corti di giustizia degli Usa, il giudizio è stato quindi istaurato nel 2003 in Ecuador nella città amazzonica di Lago Agrio, nel cuore dell’eldorado petrolifero amazzonico. La richiesta di riparazione oggetto del giudizio comprende la rimozione di tutte le acque di formazione, dei rifiuti tossici e dei macchinari abbandonati, la bonifica delle acque e dei terreni contaminati, il recupero della flora e della fauna terrestri ed acquatiche, il monitoraggio, l’assistenza sanitaria e il miglioramento della salute per le comunità di abitanti. La bonifica costerebbe secondo le stime attorno ai 6 miliardi di dollari. Il lavoro di Yanza e Fajardo è stato costellato di minacce ed intimidazioni tanto che nel 2005 la Commissione interamericana dei diritti umani ha predisposto misure per difenderne l’incolumità. La scelta di premiare la lotta delle popolazioni amazzoniche contro i disastri causati dalle attività estrattive è un segnale importante e dipende da vari fattori. Anzitutto, la causa in corso contro la Texaco rappresenterà per i futuri casi di danno ambientale un precedente di straordinaria importanza. Ma il premio è anche – come si legge nel comunicato – un riconoscimento per l’aver mostrato chiaramente le conseguenze a lungo termine dell’industria petrolifera per l’ambiente e per gli abitanti, portando il governo ecuadoriano a promulgare leggi più intransigenti sulla protezione dell’ambiente. |
Post n°15 pubblicato il 15 Novembre 2008 da aMaricalatina
Si è tenuta a Washington nei giorni scorsi la riunione di primavera delle principali istituzioni finanziarie internazionali: Fondo Monetario e Banca Mondiale. L’incontro ha affrontato varie tematiche: prima di tutto la proposta di riforma del FMI – ovvero la modifica di meccanismi di rappresentanza e potere di voto – ma anche il rischio di un lungo periodo di instabilità alle porte e le misure per fronteggiare il rapido aumento del costo degli alimenti. Durante i due giorni di riunioni numerosi attivisti hanno manifestato fuori dall’edificio del FMI contro le politiche portate avanti dalle due istituzioni finanziarie, colpevoli di mettere in ginocchio le economie emergenti imponendo riforme strutturali e politiche di privatizzazione che si traducono spesso nella violazione dei diritti umani dei cittadini. Secondo i movimenti sociali latinoamericani, africani e del sud est asiatico le riforme proposte alla struttura del FMI non sarebbero tali da modificare, come affermato dai rappresentanti dell’organismo, il modello decisionale sbilanciato a favore delle economie occidentali. I paesi in via di sviluppo, presi insieme, avranno secondo la nuova formula una partecipazione dell’1,6% superiore a prima dell’accordo, mentre i paesi industrializzati considerati cumulativamente continueranno ad avere il 60% del potere decisionale all’interno dell’FMI. Fino ad ora la proporzione dei voti nell’FMI si è stabilito in base ad una maggioranza doppia che prende in considerazione il denominato “principio westfálico” di “ogni paese un voto”, combinato con il principio di mercato “un dollaro un voto”. Ogni paese membro ha 250 voti di base ai quali si aggiungono voti addizionali, secondo la quantità di capitale che viene apportata nel Fondo. In questo modo gli Stati Uniti possono contare su un totale di 371.743 voti (16,79% del totale) mentre l’Honduras su 1,545 voti (0.07% del totale). Al momento della fondazione dell’FMI, la proporzione dei voti base era maggiore. Con l’aumento del capitale e della partecipazione dei paesi industrializzati, la bilancia si è orientata verso il principio di “un dollaro un voto”. L’altra disparità, non meno grave, ha a che vedere con la rappresentanza negli organismi decisionali. Le operazioni quotidiane dell’FMI si realizzano nella sede di Washington e sono a carico della Direzione Esecutiva, composta da 24 membri. Gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e l’Inghilterra non hanno bisogno di essere eletti dentro il Direttivo, al contrario vengono nominati. Se è vero che la nuova riforma da una maggiore influenza a paesi come Cina, India, Messico, Brasile e Corea del Sud e permette all’Africa di contare su un vicepresidente nel Direttivo Esecutivo, non cambia nulla nel gioco di forze all’interno dell’istituzione, consolidando invece lo “status quo” e con questo l’asimmetria di forze. L’FMI ha perso negli ultimi anni moltissimi clienti. Il suo capitale si è ridotto da 80 mila milioni di dollari a 20 milioni. Per questa ragione l’organismo ha già annunciato di voler operare dei tagli che comprometterebbero l’impiego di metà del personale e di voler mettere in vendita le riserve di oro (per circa 11.000 milioni di dollari). Secondo Cheikh Tidiane Dieye, dell’ENDA – Africa “la ragione di queste manovre è chiara. In Senegal ad esempio, l’FMI ha operato pesanti tagli ai finanziamenti già da alcuni anni, il che ha causato gravi carenze delle risorse investite in salute, educazione e altri servizi di base. Ciò comporta che se questa perdita di potere finanziario del FMI si accompagnerà ad una perdita di potere politico, sarà una grande notizia per tutta l’Africa”. Norma Maldonado, della Rete Internazionale di genere e commercio – Guatemala, spiega che “in America Latina le istituzioni finanziarie hanno sempre provocato disastri economici per decine di anni. Se la ristrutturazione di cui si discute significa preservare il FMI, noi ci opponiamo. La vendita delle riserve di oro deve essere utilizzata come restituzione e compensazione per i danni anteriormente provocati, in particolare per la cancellazione del debito illegittimo e la riparazione dei danni ecologici e sociali”. Oltre che di riforme, all’incontro si è discusso del problema rappresentato dall’aumento di prezzo degli alimenti, che – secondo un indice generale dei prezzi elaborato dalla Banca Mondiale – sarebbero cresciuti dell’80% negli ultimi due anni. Questo aumento impazzito è relazionato alla domanda di cereali per produrre agro combustibili. L’intero incremento della produzione mondiale di mais nel periodo compreso tra il 2004 e il 2007 è stato destinato alla produzione di combustibili negli Stati Uniti, mentre le riserve di grano sono diminuite gradualmente a causa della maggiore richiesta del bene per altri usi (principalmente foraggio per gli allevamenti destinati alla sempre maggiore domanda di carni in Asia). Di fronte a questa situazione sussistono gravissimi rischi per l’alimentazione della popolazione in particolare nei paesi del Sud del mondo. Come se questo dato non bastasse, uno dei direttori del FMI, Anoop Singh ha affermato a Washington che in un contesto di inflazione crescente, come quello attuale, “la priorità è evitare le negoziazioni al rialzo dei salari, che potrebbero influire su ulteriori aumenti dei prezzi”. Secondo il funzionario, la soluzione migliore sarebbe la distribuzione di di alimenti o denaro attraverso piani sociali. Decisa la risposta dei movimenti sociali, secondo cui “la scelta di ostacolare le negoziazioni dei salari nel contesto attuale non sarebbe tanto dannoso per i potere di acquisto delle classi medie quanto per le classi meno agiate, che sarebbero spinte inevitabilmente fin sotto la soglia di povertà.” |
Post n°14 pubblicato il 15 Novembre 2008 da aMaricalatina
[pubblicato su Carta.org il 9 Aprile 2008] Il colosso mondiale delle bevande gassate non sta vivendo tempi facili in India. L’opposizione delle comunità allo sfruttamento massiccio delle fonti di acqua dolce per l’imbottigliamento della Coca-cola e delle altre bibite della multinazionale di Atlanta, ha infatti dato il via a una campagna che in pochi anni si è diffusa a macchia d’olio in tutto il paese, e che è riuscita a ottenere alcune vittorie importanti. Uno degli stabilimenti principali della Coca-cola, a Plachimada nello stato meridionale del Kerala è rimasto chiuso dal 2004 a causa delle proteste delle comunità. Partita dalla dura opposizione delle donne delle comunità colpite dalla mancanza d’acqua, molte delle quali adivasi [indigene, ndr], il movimento indiano contro la Coca-cola è divenuto una presenza radicata che coinvolge centinaia di migliaia di persone. In India, il 70 per cento degli abitanti basa la propria sussistenza sull’agricoltura e quindi sull’acqua. Le comunità che vivono accanto agli stabilimenti di imbottigliamento della multinazionale hanno subito in pochi decenni la graduale contaminazione del territorio e una progressiva mancanza d’acqua causata dalle ingenti quantità di acqua dolce necessarie alla lavorazione delle bevande. L’incidenza di questi fattori ha colpito principalmente le comunità più vulnerabili: popoli originari, donne, classi sociali disagiate, piccoli agricoltori, mezzadri senza terra propria, che hanno subito la perdita dei mezzi di sussistenza tradizionali delle comunità e della sicurezza alimentare per migliaia di persone. Le forme di impoverimento delle riserve di acqua locale hanno messo in serio pericolo intere comunità: gli stabilimenti del Kerala sono stati responsabili della drastica diminuzione quantitativa e qualitativa dell’acqua disponibile con un prelievo di 1,5 milioni di litri di acqua al giorno. Oltre al problema della voracità degli stabilimenti, la Coca-cola è accusata di aver distribuito residui tossici come fertilizzanti ai contadini residenti accanto agli stabilimenti. La questione è divenuta un caso di salute pubblica: le conseguenze di lungo termine della esposizione ai residui tossici non sono ancora calcolabili, tuttavia Coca-cola è sicuramente colpevole di aver contaminato i terreni e le acque sotterranee e superficiali, oltre che di aver messo in vendita bevande con elevati gradi di tossicità. In seguito ad uno studio condotto dal Centre for science and environment [Cse, Centro per la scienza e l’ambiente] infatti, che rivelò la presenza nella Coca-cola di residui di pericolosi pesticidi in concentrazioni fino a 30 volte superiori dei limiti consentiti, il 7 dicembre 2004 la suprema corte dell’India ha imposto alle multinazionali l’obbligo di apporre su ogni confezione una etichetta recante l’attestazione di pericolo per i consumatori. La multinazionale si è difesa dicendo che le concentrazioni di sostanze pericolose sono secondo la legge, ma la legge indiana, notevolmente più permissiva delle corrispondenti leggi europee o statunitensi. Una difesa che non ha convinto né le autorità, né i cittadini, che anzi si sono sentiti trattati come «consumatori di serie B». L’impresa è divenuta un esempio di malagestione delle risorse, e ha dimostrato di operare in totale violazione dei criteri di responsabilità sociale ed ambientale. La messa in rete dei conflitti territoriali di cui è costellata l’India per la difesa delle risorse idriche e rurali ha dato slancio alle rivendicazioni delle comunità, e ha creato legami di solidarietà e mutuo soccorso. Negli ultimi tempi, dopo la vittoria ottenuta nel Kerala, sono sorte altre due forti vertenze territoriali a Kala Dera e Mehdiganj: due comunità in mobilitazione per difendere i propri diritti e ottenere le chiusura di altri due stabilimenti che come gli altri rubano l’acqua causando povertà, contaminazioni e malattie. |
Post n°13 pubblicato il 15 Novembre 2008 da aMaricalatina
[Pubblicato su Carta.org il 25 Marzo 2008] Nella provincia argentina di Santa Cruz, vicino alla frontiera con il Cile a circa 150 chilometri a ovest di San Julian, da oltre venticinque anni si studia la possibilità di estrarre oro e argento. Dopo aver perforato circa 500 pozzi, gli studi tecnici riportano che le riserve ammonterebbero a più di quattro milioni di tonnellate di minerali preziosi. L’impresa che porta avanti il progetto è la Minera Triton, una joint venture costituita tra la PanAmerican Silver e la Silver Standard Resources, entrambe canadesi e già coinvolte i numerose attività analoghe in Perù, Bolivia e Messico. Purtroppo per loro in Argentina, come in tutta l’America Latina, la reazione della popolazione locale non si è fatta attendere. Anche in questo caso i cittadini si sono organizzati in comitati spontanei di difesa del territorio e dei beni comuni. Come sempre accade in questi casi, le comunità locali vengono a conoscenza di un accordo già firmato tra rappresentanti politici e multinazionali, il tutto ovviamente senza che nessuno sia mai stato consultato, né che vi siano stati studi indipendenti sull’impatto ambientale, sociale ed economico che megaprogetti estrattivi avrebbero sulla popolazione ed il territorio nel suo complesso. A metà del 2006 nel momento in cui viene annunciata l’apertura della miniera di San José Huevos Verdes, a pochi chilometri dal ghiacciaio Perito Moreno, i cittadini si sono autoconvocati in assemblea permanente e hanno iniziato una lotta contro il tempo per fermare il progetto. La miniera infatti inizia il suo funzionamento utilizzando cianuro per l’estrazione di oro e argento e circa 180 mila litri di acqua all’ora. E questo nonostante gli studi di impatto ambientale ordinati successivamente dall’ex governatore della regione, in seguito alle pressioni dei cittadini, dimostrino chiaramente come la miniera sia in contatto con le acque del fiume Pinturas, e provochi conseguenze devastanti sul piano ecologico. Poche settimane fa, attraverso la stampa, i cittadini sono venuti a conoscenza di un preaccordo firmato tra il governo di Santa Cruz e l’impresa mineraria canadese per la realizzazione di altri progetti minerari. La risposta dei cittadini insieme all’Assemblea ambientalista cittadina è stata questa volta una proposta per un progetto di legge da presentare alla Camera dei Deputati in cui si proibisce l’uso di cianuro nello sfruttamento minerario. Una iniziativa che lo scorso 10 marzo ha coinvolto circa 4.500 cittadini della provincia di Santa Cruz che hanno sottoscritto l’iniziativa di legge popolare. In molti luoghi dell’Argentina ormai i comitati e le assemblee cittadine hanno seguito l’esempio vincente di Esquel, di cui ricorre proprio il prossimo 23 marzo il quinto anniversario della consulta popolare indetta grazie alle lotte dei cittadini. Esquel è stato infatti il primo territorio in cui i movimenti sono riusciti ad ottenere una vittoria schiacciante con oltre l’81 per cento della popolazione che rifiutava il progetto minerario di oro e argento, proprio nel Cordon Esquel, nel territorio del Chubut. Per questa data i cittadini di Esquel realizzeranno molte attività per ricordare che nonostante la multinazionale Meridian Gold abbia sospeso le sue attività grazie alla lotta della popolazione locale, il progetto comunque gode ancora della concessione legale per il giacimento minerario. Saranno celebrazioni che tendono anche a mantenere vigile l’attenzione di tutti quegli altri territori sui quali gli interessi estrattivi delle multinazionali si sono concentrati. Ormai sono circa un centinaio le località, in oltre 13 province argentine, che si sono mobilitate opponendosi o resistendo all’attività estrattiva mineraria delle grandi compagnie. Esquel ha fatto scuola e le classi si sono moltiplicate. La partita non è dunque così scontata. |
Post n°12 pubblicato il 15 Novembre 2008 da aMaricalatina
di Marica Di Pierri - Associazione A Sud [pubblicato su carta-org il 11.03.2008] Dal 10 al 14 marzo sono riuniti a Vienna i delegati di 53 governi che compongono la Cnd, la – Commissione internazionale sugli stupefacenti, per discutere dei «progressi» fatti nella ultradecennale lotta globale alle droghe. Giusto dieci anni fa, nel 1998, si celebrava a New York la Sessione speciale sulle droghe dell’Assemblea generale dell’Onu per valutare l’impatto delle politiche di lotta agli stupefacenti in vigore dal 1961. In quell’occasione il governo statunitense era riuscito a imporre la propria volontà di prolungare la strategia di «guerra mondiale alla droga» per altri 10 anni, con l’esplicito obiettivo di «eliminare o ridurre sensibilmente produzione, commercio e traffico di sostanze psicotrope nel mondo». Il vero appuntamento di verifica dei dieci anni di azioni globali contro la droga è stato tuttavia rimandato al 2009, quando si decideranno criteri e modalità di valutazione dei risultati raggiunti nell’ultimo decennio, oltre che la linea politica in materia di controllo internazionale del fenomeno delle droghe. Politica le cui attività costano 70 miliardi di euro l’anno di soldi pubblici. A ben guardare, le cifre dei report annuali sulla produzione e consumo di droghe, comprese quelle dell’ultimo World drugs report 2007 confermano il fallimento della strategia di lotta portata avanti dalle Nazioni unite e appoggiata da Washington. Dal 1998 la produzione globale di droghe [cannabis, cocaina, anfetaminici] è cresciuta, mentre quella di oppio ha addirittura raggiunto livelli record dopo l’invasione dell’Afghanistan e la fine del potere talebano nel paese, in particolare nelle province meridionali. Allo stesso modo, la maggior parte della coltivazione globale di coca si è concentrata in Colombia, Bolivia e Perù. La strategia applicata è stata in tutti i casi quella di tentare con la forza l’eradicazione delle coltivazioni attraverso misure repressive e militari. Questi tentativi hanno portato a risultati limitati, e comportano serie conseguenze per lo sviluppo economico e sociale legittimo, nonché per i diritti umani delle comunità colpite. La maggior parte degli agricoltori coltivano piante usate nella produzione di droghe illegali come mezzo di sostentamento primario. Il fallimento delle strategie applicate hanno portato l’Unodc – Ufficio delle Nazioni unite per le droghe e il crimine – a rivedere la terminologia, passando ora a porsi come obiettivo per i prossimi anni il «contenimento» del fenomeno droghe al posto della «significativa riduzione» immaginata nel 1998. Questo cambio di obiettivo in corso d’opera è alla base delle dichiarazioni trionfalistiche del direttore dell’Unodc Antonio Costa, che difende l’operato dell’agenzia «vantando» una sostanziale stabilità nella produzione e nel consumo, stabilità anch’essa posta in discussione dalle conclusioni presentate da numerosi enti indipendenti. In tal senso vanno i dati contenuti nella relazione dell’Osservatorio europeo sulle Droghe, che nel Report 2007 lancia un preciso allarme: i consumi aumentano in maniera costante e le morti per overdose sono cresciute sensibilmente nell’ultimo anno. Anche l’Idcp – International drug policy consortium, ha criticato duramente la politica scelta dall’Onu, e ha pubblicato un documento per far conoscere alle associazioni ed alla società civile i dettagli strategici e per invitare al dibattito e all’azione «dal basso» sul tema del consumo di droga. Da più parti è stata avanzata la tematica della Riduzione del danno, espressione associata principalmente alla adozione di misure di salute pubblica per i consumatori, che li aiutino a non contrarre infezioni, ma anche ad evitare overdose ed altre conseguenze sanitarie negative che possono derivare loro dal consumo di droghe. In tal modo, molti stati stanno mettendo in discussione l’approccio penale dominante e la centralità della riduzione dell’offerta nella soluzione dei problemi droga correlati, e stanno invece puntando molto su politiche e approcci che mettano al centro la salute e le conseguenze sociali del mercato illegale e del consumo delle droghe. Il documento pubblicato dall’Idcp valuta tale scelta come «la più chiara e diffusa presa di distanza da una politica di tolleranza zero che mira unicamente a ridurre al minimo o sradicare il consumo e il commercio di sostanze». Sintomo di una presa di coscienza dell’inefficacia della strategia di «guerra» alla droga, in particolare in Europa e in America Latina, dal 7 al 9 marzo scorsi numerose organizzazioni tra cui l’europea Encod, [European coalition for just and effective drug policies] hanno scelto di organizzare eventi paralleli al vertice ufficiale del CND. Lo slogan delle giornate, durante le quali si è discusso di politiche globali, di proibizionismo, di misure sociali e di come arrivare ad un approccio altro alla problematica è stato «La guerra alle droghe deve finire. Aiutateci a dichiarare le pace». |
Se le statistiche non sbagliano, tempo un mese da oggi saranno sparite per sempre almeno altre due lingue. E’ quello che emerge da un recente studio firmato da Survival international, secondo cui in media ogni due settimane muore una lingua indigena. In totale si stima che esistano nel mondo oltre 6 mila lingue madri, ben 5 mila delle quali indigene. Le Nazioni unite hanno proclamato il 2008 Anno internazionale delle lingue, lanciando un allerta alla comunità internazionale: la metà degli idiomi esistenti sono a rischio d’estinzione. Se la perdita di diversità linguistica seguirà questi ritmi, entro la fine del secolo saranno sparite per sempre 2.500 lingue, dimezzando il patrimonio linguistico dell’umanità. In generale, la morte di una lingua è un fenomeno complesso, spesso relazionato all’irruzione di lingue dominanti, come l’inglese, l’arabo o lo spagnolo, che costituiscono, secondo il linguista Michael Krauss «un autentico gas nervino culturale». In pratica, poche lingue dominanti hanno causato l’estinzione della gran parte delle lingue mai esistite. Le 6 mila lingue attuali sono solo una minima parte delle 140 mila esistite sulla terra. Oggi, il 96 per cento della popolazione parla solo il 4 per cento delle lingue. Molte delle lingue a rischio di estinzione sono proprie dei popoli originari, alcuni dei quali vivono ancora in isolamento. La vulnerabilità di molti di questi gruppi sociali e le insufficienti misure di protezione previste, unite all’imposizione di politiche di sfruttamento che non rispettano i diritti delle popolazioni, lascia prevedere che nei prossimi venti anni, se non si predisporranno meccanismi di difesa idonei, più della metà dei popoli in isolamento sparirà. Solo in Colombia, per esempio, 18 popoli indigeni sono a rischio di estinzione. In Brasile nel corso del novencento sono sparite quasi 50 lingue. In Messico, dove ne resistono 290, rischiano l’estinzione imminente lo zapoteco, lo zoque, il kiliwa e il matlazinca. Ancora, all’inizio del 2008 è morta in Alaska Marie Smith Jones, una donna di 89 anni ultima a parlare la lingua eyak. E in Tasmania rimane solo una anziana donna, Fanny Cochrane Smith, a parlare la lingua aborigena. Molte proposte sono state avanzate per tutelare la diversità linguistica. Dal punto di vista legale, la stragrande maggioranza delle costituzioni moderne contengono un riferimento diretto alla lingua. Spagna, Russia, India e Sudafrica rappresentano alcuni esempi paradigmatici di riconoscimento e tutela della diversità linguistica. A livello internazionale, nel 2001 è stata firmata la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, che pone come obiettivo «tutelare il patrimonio linguistico dell’umanità e difendere le capacità espressive e la diffusione del maggior numero possibile di lingue; Incoraggiare la diversità linguistica, nel rispetto della lingua madre e stimolare l’apprendimento del multilinguismo fin dalla tenera età». Anche la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni approvata dalle Nazioni unite alla fine del 2007 stabilisce che: «I popoli e gli individui indigeni hanno il diritto di non essere fatti oggetto di assimilazione forzata e di distruzione della loro cultura. […] hanno il diritto di utilizzare, sviluppare e trasmettere alle future generazioni la loro storia, lingue, tradizioni orali, filosofia. […] hanno il diritto di creare e gestire le proprie istituzioni scolastiche, di fornire istruzione nelle proprie lingue, nella maniera appropriata al loro metodi di insegnamento e apprendimento. Gli Stati, di concerto con i popoli indigeni, dovranno adottare misure per far sì che i singoli individui, soprattutto i bambini indigeni, anche se vivono fuori dalle loro comunità, abbiano accesso ad un’istruzione nella propria cultura e con l’utilizzo della loro lingua». Il varo di normative nazionali e internazionali a tutela della diversità linguistica non ha tuttavia avuto efficacia dal punto di vista pratico. Altre proposte arrivano dalle stesse popolazioni indigene che, per preservare la propria identità – ad esempio in Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù – portano avanti da decenni programmi di istruzione bilingue attraverso i quali proteggere le proprie lingue dall’oblio e aiutare i processi di rafforzamento dell’identità culturale. |
Post n°10 pubblicato il 22 Gennaio 2008 da aMaricalatina
da La Paz: Marica Di Pierri per selvas.org In Bolivia le giornate fuggono via in un paesaggio incredibile che vede il cielo baciare la terra rossa. Negli occhi delle donne e degli uomini che incontriamo brilla una luce strana che parla di una profonda dignità ribelle. La Paz, ma sopratutto El Alto, è una enorme distesa di mattoni dello stesso colore della terra, di costruzioni irregolari mai completate dove vivono e sopratutto sognano, realizzando quotidianamente i sogni collettivi, comunità che sperimentano l'autogestione e l'autonomia della resistenza. E sullo sfondo montagne sacre ed ancestrali ed un cielo che pesa così tanto sulle nostre teste che si ha la sensazione che alzando un dito lo si potrebbe sfiorare. Sorrisi, abbracci e parole di lotta e di speranza si incrociano in ogni luogo in cui siamo. Non e' mai semplicemente una visita, un passaggio temporaneo, è ogni volta un momento per porre un mattone in più nella casa comune. Una casa costruita di possibili e sembra nemmeno troppo lontane alternative. Le persone che incontriamo ci parlano di sogni e speranze che divengono via via realtà. Una realtà non in discesa, per la quale occorre continuare a lavorare, tutti assieme, con pazienza, perseveranza, lungimiranza. Qui in Bolivia non sono giorni facili. Negli ultimi mesi il governo ha dovuto resistere a feroci attacchi da parte della destra oligarchica, che ha tentato di ostacolare il lavoro del governo di Morales riaccendendo questioni mai realmente sopite, come le tendenze separatiste di Santa Cruz o la questione della capitale unica. L'opposizione della destra si è dimostrata tenace e ben organizzata. La sua forza economica enorme. Il controllo che esercita sulla stampa capillare. E tra pochi mesi tutta la popolazione sarà chiamata a votare per approvare il nuovo testo costituzionale. Si tratta del frutto di mesi di lavoro e di difficili trattative in seno all'assemblea costituente voluta dal governo. Una costituzione che, all'articolo 1, definisce la Bolivia come uno “Stato unitario, sociale, di Diritto Plurinazionale Comunitario, libero, indipendente, sovrano, democratico, interculturale, decentralizzato e basato sull'autonomia.” Un Paese fondato sulla “pluralità e sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico.” Un testo che di per sè - come ci racconta Raùl, un operaio di El Alto - “rappresenta una immensa novità ed una garanzia per il riconoscimento della diversità etnica e culturale del Paese”. Qui tutti, contadini, operai, studenti, casalinghe dimostrano una grande consapevolezza delle trasformazioni in atto. La partecipazione popolare che emana dai discorsi sugli autobus, per strada, nei piccoli bar è straordinaria. Ad Achacachi il sindaco Eugenio Rojas, fiero di fronte alla sua gente raccolta, parla di impegno, di visione del futuro, di perseveranza. E della necessità di stringere legami anche al di fuori della Bolivia, con realtà e movimenti sociali che possano aiutare concretamente a diffondere i contenuti della lotta di cui sono protagonisti, una lotta che li vede uniti nella difesa della democrazia, del futuro e dello stesso intangibile eppur tanto concreto concetto di speranza. Tutta la zona attorno alla capitale è piena di murales che difendono la nuova costituzione e il processo di cambiamento. Colori vivaci, caratteri cubitali ci scrutano dalle pareti delle case. Quasi tutti ammettono che il compito di questo governo è arduo, che una rivoluzione radicale dopo secoli di oppressione e decenni di governi neoliberali è difficile. Ma che vale la pena lottare, avere fiducia, apprezzare i passi avanti fatti in questi primi due anni. Nazionalizzare gli idrocarburi, garantire la possibilità di accesso all'istruzione primaria per tutti, creare una pensione vitalizia per i cittadini sopra i 60 anni, in un paese in cui, a causa della preponderanza dell'economia informale, quasi nessuno arriva a percepirla sono risultati tangibili per buona parte della popolazione. In Bolivia gran parte delle università sono private e l'accesso all'istruzione secondaria fino a pochi anni fa era un privilegio delle elite del Paese. Il processo di cambiamento in corso passa anche per le aule universitarie, con esperienze come quella della UPEA, l'Università Pubblica di El Alto, il cui rettore racconta come la conquista di questo spazio sia avvenuta nelle strade e nella piazze: “nata ufficialmente nel 2000 dopo decenni di lotte,la nostra università è organizzata secondo i principi dell'autonomia e della co-gestione, e prevede l'insegnamento e la difesa della cosmogonia indigena”. Una sfida non da poco, che ha portato in pochi anni al considerevole numero di 12.000 iscritti ed alla necessità di ampliare strutture e programmi didattici, grazie anche alla rivalorizzazione dell'identità indigena frutto delle politiche di governo di questi ultimi 2 anni. Processi analoghi sono evidenti anche nelle organizzazioni sindacali e nelle rappresentanze di lavoratori. Una lavoratrice aymara di El Alto, durante l'assemblea della Centrale Operaia Regionale, parla della necessità di unificare il linguaggio della lotta che portano avanti i lavoratori di tutto il mondo, contro una globalizzazione sempre più disumana che disconosce i diritti riconoscendo nel profitto il suo unico faro. E' per questo che assumono un valore sempre maggiore le alleanze tra i movimenti e le organizzazioni sociali che come A Sud lavorano e testimoniano con la loro presenza l'impegno a fianco dei popoli che lottano per costruire dal basso un mondo altro, di inclusione. E di pace. La sera scende su La Paz. Al calar del sole le centinaia di donne che popolano le strade con i loro variopinti banchetti raccolgono la poca merce sistemandola nei coloratissimi tessuti che annodano sulla schiena, come chiocciole meticolose. E continuando a camminare per le strade in sali scendi di La Paz, tinte dei colori del tramonto, continuano a scorrere davanti ai nostri occhi i visi scuri, sorridenti e pieni si speranza di questo popolo tenace - la pazienza millenaria disegnata sui volti - che ha deciso dopo secoli di dominazione, discriminazione ed oppressione, di riprendere in mano le redini del proprio futuro. E di non lasciarsele scappare. |
"Non credere alla possibilità di una pace permanente vuol dire non credere alla bontà della natura umana. I metodi adottati finora sono falliti perché è mancato un minimo di sincerità da parte di coloro che li hanno gestiti. La Pace non si ottiene con un parziale adempimento delle condizioni,così come una combinazione chimica è impossibile senza l'osservanza completa delle condizioni necessarie per ottenerla. Se i capi riconosciuti dell'Umanità che controllano gli strumenti di distruzione rinunciassero completamente al loro uso, con piena conoscenza delle relative implicazioni, si potrebbe ottenere la pace permanente. Questo è evidentemente impossibile, se le grandi potenze della terra non rinunciano al loro programma imperialistico. E questo sembra a sua volta impossibile, se le grandi nazioni non cessano di credere nella competizione che uccide l'anima e di desiderare la moltiplicazione dei bisogni e, quindi, l'accrescimento dei beni materiali." Mahatma Gandhi |
Post n°6 pubblicato il 02 Giugno 2007 da aMaricalatina
Il presidente Usa George Bush verrà in Italia il 9 giugno, su invito del governo Prodi per ribadire in questo modo la convinta alleanza militare e politica dell’Italia con gli Stati Uniti. Oggi il presidente Bush ha contro la maggioranza del popolo degli Stati Uniti ma mantiene l’appoggio delle lobbies militari, petrolifere e dell’industria delle armi. Bush è l’estremo interprete della volontà di egemonia mondiale delle classi dominanti statunitensi, volontà che porta da decenni gli USA, indipendentemente dall’alternanza dei governi, ad intervenire militarmente ovunque, con truppe, colpi di stato, stragi e attentati. Questa volontà di dominio, che fa della guerra una vera e propria strategia politica con la capacità di esportare conflitti dall’Africa all’Asia,dall’America latina alla stessa Europa (Balcani), produce sudditanza politica e culturale. In Italia la destra considera Bush il proprio punto di riferimento ma anche il governo Prodi, eletto grazie anche ai voti del movimento no-war "senza se e senza ma", è orgoglioso dell’alleanza con tale amministrazione e si prepara a ricevere in pompa magna il presidente Usa a Roma. Questa subordinazione caratterizza anche l’organica politica di intervento militare che il governo Prodi sta praticando,sia pure nella versione "multilaterale", cioè "concertata" con le altre potenze. Un approccio alla logica della guerra che spinge a mantenere le truppe in Afghanistan, che ha aumentato vistosamente le spese militari (+13%nella Finanziaria), che vuole imporre a popolazioni unite nell’opposizione, nuove basi militari come a Vicenza (ma anche a Cameri e in altri luoghi in via di ampliamento), che partecipa alla costruzione di micidiali armi come l’aereo da guerra F35 o lo Scudo missilistico, e conserva le bombe atomiche disseminate nel nostro territorio, come a Ghedi e Aviano. La guerra è guerra indipendentemente dalle bandiere usate per condurla e va ripudiata,come il militarismo governativo, che ha riconfermato o promosso le
Per questo ci prepariamo ad accogliere Bush come si accoglie un vero e proprio guerrafondaio. Lo facciamo per i torturati di Guantanamo, per i bruciati vivi di Falluja, per i deportati,per quelli rinchiusi nei campi di concentramento in mezzo mondo. Ma lo facciamo anche per dire che esiste un’altra Italia.
Il 9 giugno quindi è un giorno importante per la ripresa del cammino del movimento no war nel nostro paese. Vogliamo il ritiro delle truppe italiane da tutti i fronti di guerra, Afghanistan in primis,la chiusura delle basi militari USA e NATO, la restituzione di quei luoghi alle popolazioni per usi civili, per giungere all’uscita dell’Italia dalle alleanze militari. Esigiamo la rimozione dal territorio nazionale degli ordigni nucleari e delle armi di distruzione di massa. Diciamo basta alle spese militari, rifiutando lo Scudo missilistico e i nuovi aerei da guerra, affinchè le decine di miliardi di euro vengano usati per la scuola e la sanità pubblica, per i servizi sociali, per il miglioramento ambientale, per il lavoro e il sistema previdenziale pubblico. Pretendiamo che il governo Prodi ottenga l’immediata liberazione di Hanefi e restituisca ad Emergency il suo ruolo meritorio in Afghanistan. Proponiamo che la mobilitazione del movimento no-war culmini il 9 giugno una grande mobilitazione popolare a Roma che faccia sentire a Bush e Prodi l’avversione nei confronti delle guerre e delle corse agli armamenti, che dichiari il Presidente USA ospite non gradito e faccia sentire a Prodi il ripudio della guerra e del militarismo.Così come recita l’articolo 11 della Costituzione. Ci vediamo tutti a Roma! |
Post n°2 pubblicato il 20 Maggio 2007 da aMaricalatina
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Post n°1 pubblicato il 10 Maggio 2007 da aMaricalatina
eccomi qua....
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...quelle
che quando arrivi arrivi ti aspettano..
quelle che non ti vedono da
anni ed è come fosse stato ieri
...e ne mancano tantissimissimi di cui non ho foto ma immagini profumi e ricordi vivissimi dentro
agli
amichetti di allumiere/tolfa, ancona, fiesole, tulcàn, quito,
bogotà, lima, del messico tutto..
a tutti gli amici di 10 anni di roma, a quelli
che ho lasciato al liceo, nell’incantata valle dell’agri, a
tutti quelli incontrati per caso o per destino, a tutti quelli che mi hanno sorriso per strada e
al magico collettivo di A Sud
i miei baci e la mia gratitudine
per la magia
indimenticabile
di certi momenti.........
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