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quando andrò di là

Post n°117 pubblicato il 11 Ottobre 2013 da andrea_firenze
 

quando andrò di là, se ci sarà davvero un angelo a leggere i miei peccati, sarò fregato. Di Dio non ho paura, neppure mi condannasse al più basso dei gironi. Ho più paura di te, di scoprire nei tuoi occhi la rivelazione di quanta miseria ci sia nell'odio di non dover soccombere che ci lega. Ma l'evidenza che si nega è la verità che conferma che non c'è alcuna entità oltre tutto questo, e perchè le persone si bacino e facciano sesso, mentre ti fanno male le tempie, resta un mistero. Non riusciremo a fare esperienza di noi stessi se non in sogno, dove spesso mi capita di scopare una cinesina dalla fica slabbrata e calda come l'interno di una pantofola; appena vengo, rido. L'altra notte attorno al pene avevo l'involucro rivestito di gelato del cono Sammontana; lo tenevo in alto con la mano, come per far volare un aquilone, come per sbandierarlo a tutti, preso dalla lebbra del protagonismo. Te l'ho raccontato perchè raccontare un sogno è un po' come partecipare al Carnevale, e tutto si può rovesciare per un giorno a patto di abiurare. L'irreale diventa reale solo dove non c'è ordine, in mezzo alla strazio, come la poesia nell'abiezione; e qui c'è abbondanza di strazio e di disordine e d'abiezione. Eppure mi piace passare e ripassare per le mie strade come uno sconosciuto e riconoscere Frankie, dalle mani lascive, che ripete sempre i trentacinque anni, e li festeggia ogni giorno, anche d'estate, con bomber, chierica e BMX; o Gino, con la camicia a quadri grossi, che sembra uscire dal campo, sano scommetteresti, con una cesta di cipolle, mentre invece prende il metadone non sa più neanche lui da quanti anni e per miracolo è ancora vivo; mi fa sorridere ed accigliare la chiesa con il tetto a guscio di tartaruga, dove, fra gli scherzi, quella sera un po' ti ho incalzato affinché mi facessi toccare le cosce ed i seni, seduta sul muretto di pietra, il muretto sul quale ogni mattina sosta il parroco per qualche minuto, accavallando le gambe bianche sotto la tonaca nera, sgranando lentamente il rosario ed addolcendo il sorriso. Mi chiedo se porti le mutande. Amo la piccola chiesa rotonda che è il mio personale castello errante di Howl: mi aspetto sempre che vedendomi si alzi in piedi all'improvviso su due alte zampe di gallina e se ne vada con i miei ricordi, balzellando scomposta, perdendo pezzi ed emettendo fumo dal naso. Sono pochi i miei ricordi, non più di due o tre per volta; non possiedo la dote di Jill, che soffre di sindrome ipertimestica, laggiù, in qualche paesino sperduto degli Stati Uniti, di non più di mille abitanti, e ricorda tutto. Non mi sorprende che l'abbiano chiamata sindrome: devono aver pensato che esserne affetti sia un dolore lancinante; ma non credo l'abbiano confessato alle loro mogli o a se stessi. Forse lei, eccezione fra gli umani, conosce tutta la sua storia, quella che io fatico a far quadrare; ma anche per lei, sono sicuro, è impossibile raccontarla. La vita e le cose che nulla sanno di noi finiranno ciò che abbiamo cominciato; una cassa che non abbiamo né visto né tanto meno ordinato saprà di noi più di quello che abbiamo saputo. In libreria, da qualche tempo, è uscito "Virginia Woolf. Diario di una scrittrice", edito da Minimum Fax con la prefazione di Ali Smith. È l'edizione completa dello stesso libro, in edizione parziale, che ho regalato a qualcuno che adesso chiamo qualcuno, forse per pudore o ipocrisia, quando quel qualcuno era ancora qualcuno per me. Che strana ironia: per fortuna certe cose hanno bisogno di un lasso di tempo più lungo per compiere il giro, o forse chissà, il nostro percorso equivale semplicemente al moto di rivoluzione di Plutone ed ancora non lo sappiamo ma torneremo a toccarci le mani. Ad Ali Smith voglio dire che a me Virginia Woolf piace pensarla nevrotica e col nasone, e non m'importa sapere se avesse un nasino all'insù o fosse una simpatica festaiola. Quando la leggo, perso fra le onde, ho radici profonde e nodose ed un gran nasone che m'impedisce di vedere sopra la terra e mi fa sbattere in ogni dove: le sono grato per questo. E ne sono consapevole: dopo la lettura, fra i terremoti al telegiornale e la crusca bagnata per le due piccole papere in giardino, dopo Ally McBeal alle nove e trenta del mattino e la cura per le zecche che fuggono panciute dalla testa del mio felino; nonostante abbia schivato i pensionati testimoni di Geova, ex agenti immobiliari a riposo, che mi fanno un po' tenerezza quando tiro dritto ad occhi bassi, il peggio deve ancora venire. E di fronte al degrado ed alle cose sputtanate ed ai rimasugli di sporco e fra i pensieri da scartare, tutto quello che so fare è concentrarmi su ogni culo che mi accenda il desiderio di scopare, ed ogni giorno, per passare le ore, prendere più caffé perché non c'è niente che sia più tranquillizzante di polverizzare chicchi d'oro dopo averli soppesati in mani inconsapevoli come fa il banchiere giocando in borsa con il denaro altrui o l'operaio trasportando le lamine d'amianto che gli causeranno un tumore. Tutte queste cose sono come spaventapasseri, frottole per puntellare; sono tanti delfini rosa che girano intorno alla mia zattera, un modo incantato dei morti per comunicare: i morti che non ho conosciuto o quelli che ho conosciuto o conosco e che non sapevano e non sanno parlare. Merci senza materia, sacchi vuoti: rapporti umani e rapporti sessuali, peggiori dei rapporti di denaro, dove ci si presta solo per essere riavuti indietro e non si regala mai; e se si compra è solo per poco. Tutto falso; e quanto è meno subdola questa forma di usucapione di tutto ciò che infondo è abbandonato come una scoperta scientifica, o il forno di casa o un cellulare. Cose senza fraintendimenti come un fiammifero che nasce per bruciare appena tirato fuori dalla scatola. Non come gli uomini che finiscono per imparare le vertigini e si credono furbi come gatti neri, impantanati nel letamaio dell'indeterminazione, dissotterati per rimangiare se stessi, sbalestrati a passeggiare sugli argini dei fiumi la domenica pomeriggio raccontando cazzate, con gli uccelli che via via si rattrappiscono, intirizziti dalla vecchiaia o dalla paura, come lombrichi sventrati, la cui unica fortuna è la sterilità che arriva sempre troppo tardi; riluttanti a confessare. Quando andrò di là, se ci sarà davvero un angelo a leggere i miei peccati, sarò salvato.

 
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