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« quando andrò di làha la mascella grande »

sono l'unica finestra da cui posso guardare il mio mondo

Post n°118 pubblicato il 12 Ottobre 2013 da andrea_firenze
 

sono l'unica finestra da cui posso guardare il mio mondo; mi sporgo senza paura ed è come avere le grandi orecchie ed il cappello da aviatore del topino Desperaux, come possedere il suo coraggio, che è sempre innato, come una malformazione. Da qua riesco a vedere buona parte di viale Marconi, dove, per due settimane l'anno, Victor tiene lo spettacolo delle meraviglie, fatto di squali, orche assassine e cartelloni. È posizionato appena sotto l'argine; i grandi pesci gironzolano in vasche coperte da un tendone da circo, a strisce blu e bianche; circondato da tanti piccoli orti sociali, curati, dove i pensionati passano il tempo dando occasionali quanto casuali colpi di vanga. Quando mi affaccio da questa finestra, la televisione non va mai in distorsione, come fa di solito. La luce che mi raggiunge è una specie di stimolazione magnetica per la depressione, mi serve a riattivare le aree spente del cervello. E me ne sto ad osservare Ivan, poeta d'asfalto, in piazza della Repubblica, che sta sistemando cinquanta fogli di pvc: ha intenzione di coprire trenta metri quadri di quelle antiche pietre; afferma che su ogni superficie bianca ci sia una poesia nascosta. Sorrido e penso che ne dovrà per forza uscire una bella poesia; immagino che la reciteranno con gioia gli estintori a bocca aperta, nel campo di maggese, stesi come struzzi morti: sarà il loro canto del cigno. Alla fermata dell'autobus, di fronte alla casa di cura Villa Fiorita, seduto col gran sedere su due delle seggioline di plastica, sotto il tetto della pensilina d'aspetto, c'è il solito barbone con le enormi verruche sul naso, più rosse del solito. Quaggiù, forse per il gran sole, non c'è nessuno: non credo siano andati tutti alla discarica a sparare ai topi o se ne stiano lungo la ferrovia, sul cofano delle auto, con una chitarra in mano, a veder passare i treni. E non conosco nessuno, ed è l'unica cosa che importi: mi piacerebbe una vita da albergo, alla David Sedaris, dove il resto ed il superfluo fossero sempre provvisori; belli proprio perché provvisori. Non voglio un'esistenza tradizionale, passata in calzoni corti all'autolavaggio, preparando la cena, con il cellulare sempre sveglio come un grillo all'interno di una scatola appesa alla cintura; in un camerino di un negozio del centro, provando una camicia Tommy Hilfiger, ostentando vanità di fronte alla falsa ammirazione delle commesse; invidiando la linea moderna delle auto altrui, macchine modeste, guadagnate con lavori di fatica o d'intelletto: la Lancia Y o la Cinquecento. Voglio potermi alzare di notte, senza dovermi giustificare, e trovare un posto dove si possa respirare, vedere le facce delle gente, di chi non conosce il mio nome; sedere al tavolino di un locale vuoto con tutto il tempo per potersi sbronzare e non aver voglia di scopare. Un posto dove le lucertole scivolino in continuazione sui prati come i sassi sul pelo dell'acqua e mi capiti qualche volta di percepire la sensazione di essere soffiati via come il riso; e poi perdersi in qualche paesino poco conosciuto, a mezzogiorno, in sella ad una bicicletta, e fermarsi a guardare il tabernacolo con sant'Anna metterza e la madonna del latte di Agnolo Gaddi e bottega, affrescata lungo la via vecchia di Cantagallo a Figline, fra le cave di serpentino, ed ammirare la tetta dell'immacolata, tirata via con forza dalla veste e spremuta fino a vederle il dolore sul viso, e concentrare lo sguardo sul suo capezzolo rosso di bacca in bocca ai dentini del tiranno bambin gesù, impassibile al cospetto dei ventinove martiri che verranno. È da questo balcone che l'indecifrabile si fa decifrabile. Da qui non mi preoccupo se mi sembra di avere le spalle non allineate, se mi sento rigido come un triangolo isoscele; non mi crea ansia il fatto che una clavicola sia più bassa dell'altra, e che non si possa cambiare. Le possibilità e le occasioni sono le maglie di una rete in una trappola troppo grande perché la possiamo vedere; e così entriamo in questo mondo come pesci nella tremaglia: all'inizio penetriamo con facilità attraverso delle pezze larghe, ma presto finiamo ammagliati in un presente che stringe sempre più ciò che rimane del passato in una diminuzione dove la propria individualità è così vera e immobile che credi fermamente di possedere un corpo, indossare un vestito, abitare una casa che hai scelto; mentre quello che sei viene escluso da dove pensi di dover respirare come l'epiglottide impedisce che il cibo entri nella trachea. Ed è quel ricordo pericoloso che il corpo cerca di evacuare, la merda che supera il limite della sopravvivenza, inaccettabile perchè troppo viva. Le persone non si posseggono, neppure si appartengono, soprattutto non si conoscono, mai; ed è inutile che pensi che qualcuno possa sentirti davvero; desideri essere esclusivo e bello, ma sei solo un'altro po' di acqua sotto ai ponti e gli altri sono lo stesso per te. Forse dirai che per fortuna siamo distratti dalla verità, come l'occhio dalla casetta dell'oculista, e che, se non fosse così, scopriremmo un grande vuoto. Hai ragione. Ma non mi va di lasciarmi infinocchiare dai falsi positivi, dagli infiniti artefatti, dai simulacri d'oggetti persistenti; dalle croci russe d'ottone, come quella che ti hanno venduto ad una bancarella del mercato; la croce d'ottone che ti hanno spacciata per russa, approfittando della tua miopia, e che porta inciso sul retro un versetto dal Vangelo di Giovanni, in italiano, che recita "che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato, nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici". E infatti è per questo che non esiste l'amore e non ci sono amici. E a volte vorrei restare qua, e tenere i paraocchi, come un puledro. Perchè così il mondo mi sputerebbe continuamente in faccia la verità, e non tornerei mai a Grover's Corners, ma resterei immobile, sul pavimento, come un bimbo fra i giocattoli, a invecchiare come Matusalemme nella matassa di rovi di quella volta che mi hai insegnato a mangiarne le cime; cincischiando con i cioccolatini della copertina delle swing guitars di Django Reinhardt, fra accordi e disaccordi; immerso nell'odore piacevole di quando ti sei lamentato dei problemi d'intestino, non sapendo che di lì a pochi giorni saresti morto; ritirando le mani dal pane bagnato, divertito all'idea del tuo dentista malato di Parkinson che sorride con le gote rosse di bottiglie di vino e la barba rada mentre ti dice che ti dondolano tutti i denti; guardando sfrecciare come una lumaca l'utilitaria verde da vecchietto cui strombazzano con rabbia i giovani impazienti, cosa che faccio anch'io se non si tratta di te, e che mi fa imbestialire. Ma non è vero che la vita è l'infanzia della nostra immortalità. L'infanzia è già passata ed ormai ho solo tempo per passeggiare fra le macerie, in vie strette dove ho stipato cianfrusaglie, in un iperspazio pieno di cose poco importanti da scialacquare, infastidito, con la barba tagliata male sotto le narici, appena più lunga agli angoli della bocca e sopra il mento, pur di non ricordare; nella speranza che la tua mano piccola mi allunghi un giorno il beverone, che non finisca tutto in preda alla malversazione, che non smettiamo la farsa e la simulazione, che la decrepitezza sia una benedizione. Tutto organizzato solo per una bella e vuota rima. Ed infondo lo so. Solo nella morte si è liberi o poco prima.

 
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