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la luce è grigia nella mia stanza

Post n°121 pubblicato il 15 Ottobre 2013 da andrea_firenze
 

la luce è grigia nella mia stanza. Le cose sono lisce ed in tensione come donne incinte che non partoriranno mai: le file dei libri e i mucchi di fogli, uno sull'altro come le pietre nei giardini giapponesi. Una sigaretta spenta giace nel portacenere argentato, a forma di conchiglia, come un bruco carbonizzato. Ogni sera, subito dopo le otto, si azionano gli annaffiatoi automatici in giardino. Poi si spengono e si riaccendono ad intermittenza come masticassero qualcosa senza farci caso. Non importa se non siamo a casa, se il pendolo dell'orologio si è fermato. Una chitarra è nella custodia, quella con il suono più caldo. Un'altra poggia la paletta alla parete. L'ultima sta sul pavimento, vicino al divano letto, dove è rimasto nascosto il primo fratello che conoscevo. L'altro, quello cresciuto, è da qualche anno che è andato via di casa. La realtà è qualcosa che non torna su due livelli, come gli elefanti che avvertono la propria morte ed intraprendono il viaggio; come un postulato matematico, evidente a se stesso. Non saprebbe che dire se sapesse parlare. Ciò che abbiamo sistemato nelle fantasie della nostra gravida immaginazione al massimo ci borbotta in testa. Perché c'è un'enormità di vita nascosta dietro le cose. Non so se siano mai nate o esistano semplicemente al di fuori della comprensione; non saprei dire se da qualche parte stia scritto che prima o poi possano tornare. È un sensazione che potrebbe somigliare alla perdita di un animale domestico cui sei affezionato, o alla consapevolezza di avere una malattia sempre in remissione. Guardo i muri, lo schermo; le linee precise del tavolo, le coste gialle dei libri. Non ci sono soluzioni orizzontali o verticali. La mia presenza sta sulle punte degli occhi. Sono costantemente in vantaggio sul mio corpo: me lo tiro dietro come un mulo o lo osservo da lontano. Credo che a noi tocchi la parte dell'assetato, di chi osserva la lava fumare nella caldera di un vulcano spento, pensando che sia acqua; lucido per la disperazione e sempre più dissoluto. Vaghiamo instabili sull'orlo, bianchi come l'eucarestia; pericolosi e in pericolo sulla terra fradicia che ribolle; punti dalle zanzare, con echimosi violacee su gambe e petto; sfiniti a furia di gettare sulla pira i pezzi delle statue di legno degli dei che abbiamo implorato ogni santo giorno, ma non ci hanno aiutato a fare elemosina d'uomini. Siamo soli al mondo ed è faticoso pure ricordare perché le immagini sono confuse e per ciò che riteniamo importante paghiamo un biglietto di un giorno solo. Non c'è un cosa nè una ragione, solo un indefinito desiderare. Ogni giorno ti metti vestiti attillati che lasciano scoperto il seno; mostri l'inizio ruvido dei capezzoli; tieni le mani giunte in grembo e inarchi le sopracciglia verso gli altri, in una espressione sbigottita di fronte ai fischi ed agli sguardi lascivi di chi ti passa vicino. Hai un bel vestito rosso. Io odio le cravatte; al mattino cerco di non dipingermi le labbra e di tenere un pesce in mano. Mi piacciono i capezzoli a punta con cui ferisci la gente, ma cerco di non darlo a vedere. Non perché me ne vergogni: infondo la domenica mattina non presenzio più a messa come quando ero bambino. Resto invischiato fra le coperte, inondato attraverso la finestra dalla polvere e dalla luce senza casa dell'alba. Non ho voglia di alzarmi quando suona la sveglia e sorge il sole. Oggi sembra andarsene in giro inquieto come Lady Macbeth col suo straccio insanguinato. Desidero rimanere radicato qua, poco importante come un prefisso nel dizionario; ermetico come ogni esigenza. E comunque è solo per poco. Purtroppo non siamo diversi da un conduttore qualunque che ad ogni occasione si attivi se solo qualcuno accenda la luce. Non siamo involontari e sinceri come la caduta di un peso. Camminare è una devianza, comunicare una disgregazione; respirare una lenta, terribile dissezione di se stessi. Il desiderio non circoscritto alla conservazione è quanto di più lontano dall'individuazione, è una morte celata per fusione; ed è questa voglia di non scrivere niente e non pensare, passata come paura di rischiare, di oltrepassare il fiume, di restare nel torpore e nello sfinimento, ciò che ruota senza asse, il bisogno inconscio di segnare un limite contro l'indifferenza. Passo di fronte alle vetrine ed ai monumenti antichi e mi chiedo dove stia la bellezza, e se tutto questo sia qualcosa che abbiamo appreso, e che cosa ci abbia insegnato. Al di là delle distinzioni, dei tanti vestiti e atteggiamenti, oltre la patina di sporco sui marmi, vedo sempre e solo uomini, sempre e solo carne; soggetti inconsapevoli che se ne vanno per le strade armati di teodolite, impacciati e goffi, a misurare gli angoli. E che cosa ho davvero imparato da tutti questi libri, dalle centinaia di storie che non ricordo; quelle storie che, ciascuna a suo modo, era così simile alla mia. Solo a mettere dei punti; a fermarsi un po', prima di andare avanti. Ma non è che di voi m'importi più di prima. So che un giorno potrei abbandonarti con facilità. Non è così per papà e mamma, e questo è dovuto solo al fatto che è naturale. Non possiamo che essere irrimediabilmente divisi perchè identici a noi stessi e agli altri, e l'indifferenza è il corollario alla banalità del comune non differenziato in quanto primo principio, radiazione di fondo. Se ti guardi intorno, dove tutto non fa che crescere in una frenesia di germinazione, percepisci l'incongruenza di ciò che esiste di fronte alla tua identità la cui sostanza è una concrezione dell'accessorio. Il nostro io è un santuario di solitudine; e la realtà annacqua tutto e ci diluisce in una forma di esistenza che non è nient'altro che una sintesi organica dei tanti umani codificati nell'imprecisione. Il mondo è polisemico solo per sbaglio, nella dispersione del seme. E la trascendenza, cui tanto aspiriamo, si rivelerà solo nel giorno in cui faremo conoscenza degli sconosciuti che siamo.

 
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