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« la luce è grigia nella m...sono intrappolato in fon... »

non preoccuparti per me

Post n°122 pubblicato il 16 Ottobre 2013 da andrea_firenze
 

non preoccuparti per me, guarda la tua strada. Dammi solo il tempo di abbandonare il vuoto che ho dentro, la possibilità di cancellare i lineamenti del mio viso. Non ho un posto segreto. Lo sai; sanguino sul nulla, sanguino su di me. La vita è come un coltello affilato, ognuno la soffre a modo suo. Spero di farcela a sfidare il fato che mi hai destinato. Sogno che la mia anima sia una luce intensa. Non ho una faccia d'asino; lo sai che sanguino sul nulla, che mi sanguino addosso. Ogni giorno, appena sveglio, chiedimi da dove vengo, così che possa dipingermi dentro e sentirmi meno solo. Mentre cammino senza meta per le strade, bruciando piano fra le persone, è così chiaro come tu sia solo il segno del tuo passaggio, l'occasione mancata di sistemare la tessera mancante. Credi che tutto sia al suo posto e sbatti con forza la mano sulla carta con l'entusiasmo tradito del giocatore di tre sette truffato all'angolo della strada. Gli oggetti, e soprattutto i corpi, sono già i resti di ciò che sono stati; le conchiglie dei molluschi, dei ricordi, dei sogni; il prodotto del divenire che ci rende vivi e ci porta a compimento. Gli oggetti, e soprattutto i corpi, servono a ricordare le parole, che sono l'unico mezzo adatto a conservarli, a farne roba nostra; e ti risuonano in testa, prendendosi a gomitate, scalciando senza tregua e riguardo, sempre inopportune. Quando il tempo sembra infinito è difficile lasciar andare le redini, ma è inevitabile indebolirsi e sparire via come l'impronta del piede sulla sabbia, come un alito di vento, la coda di una serpe nella macchia. La crescita è un tropismo genetico e l'esistenza una mal celata adattabilità all'incoscienza del nulla, come la spina dorsale del drago su queste colline. Il cuore continua a battere dentro di me e non sa niente del ritmo. Certe strade sono troppo diritte perché ci sia spazio per una esitazione. Le vite semplici sono irreprensibili, inattaccabili, se sei fatto per la barba tagliata lasciata nei lavandini, i letti da rifare ed i pavimenti sporchi. Le vite semplici sono fatte di parole, soggette ad usura; sono vasche di gelato che trasudano di putrefazione; uomini nati nella goccia che si stacca, voltati verso infinite direzioni, tutte senza uscita. Ed anche da quaggiù, dopo che sono sceso nella camera iperbarica, nonostante abbia infilato i tappi nelle orecchie, ne sento lontane le risonanze. Anche qui, nel libro dell'inquietudine, mi piace descrivere la tua vita stretta e sinuosa d'anfora greca, perdermi fra i cedri grossi della limonaia di Palazzo Pitti, intrufolarmi nelle gallerie del castello crociato di Shawbak, sprofondando all'interno di me stesso prima di essere rioccupato. La morte non è poi così diversa da una battaglia persa, e tu ad una rocca espugnata. Ed intanto mangio cervello fritto nella rete al tavolo degli amici, circondato dalla bellezza di Trianon, e sogno Julia Florida che mi culla, e penso a te che te la sei presa quando ti ho detto che la melodia mi ricordava i passi di una persona morta perché tua sorella è morta davvero, anche se non si chiamava Giulia, e non lo puoi tollerare. Avevi ragione, perché questa è l'evidenza della rappresentazione. Osservo le persone e vedo tante bare sull'orlo di una fossa, e tutti pronti a dare una spinta: insegnanti, colleghi, amici, portieri d'albergo, impiegati; addetti al bowling sociale. Sono tutti qua attorno anche adesso. L'erba è gialla come il deserto ai piedi del castello dell'imperatore. Mi sdraio a terra. Si dice che Robespierre volle aggiungere fraternità alle parole uguaglianza e libertà coniate per la rivoluzione poiché queste ultime non sarebbero attuabili senza di essa: un'altra parola destinata a rimanere vuota, a ricordare solo una moneta; come questa, dimenticata fra i fili d'erba bruciata. C'è un sole accecante. Gli specchietti delle auto lanciano lampi da tutte le parti; squarci nella realtà, dove le persone si incrociano, e nei ricordi. All'improvviso avverto la mancanza acuta e lesiva, il desidero folle, confuso come un glaucoma, del tuo modo di occupare lo spazio. Le ruote girano, la vita imperversa. Qualcuno ha pestato una grossa ape. Muove le zampe con frenesia sopra all'enorme culo lucido schiacciato sul prato come lo stucco sulle cerbottane. Oltre la strada aquiloni sfuggono dalle mani di bambini, vagabondi prendono a calci lattine vuote. Le giostre sono silenziose. Alcuni cani randagi se ne stanno accucciati all'ombra, pigri. Mi sembra di essere stato soffiato via. Le parole scompaiono senza agonia. Infondo tutto ciò che riflette è inutile: vene d'alberi in cieli nuvolosi, escrementi ricoperti di mosche carnose, menzogne di tipi che una volta pregavo; ricordi, visioni e confusione che mi fanno sentire un naufrago. Sussurro. Trattieni il respiro e sarai un pesce. Abbandona le cose che sai che ti mancheranno. Non dire una parola e sarai un uomo. Costruisci ma, se ti resta tempo, comincia a demolire. E guardo le parole nell'aria che scompaiono senza agonia; infondo tutto ciò che riflette è inutile.

 
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