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« sono intrappolato in fon...c'è tanta gente alle no... »

la notte è stata breve nella terra dei Lestrigoni

Post n°124 pubblicato il 18 Ottobre 2013 da andrea_firenze
 

la notte è stata breve nella terra dei Lestrigoni, come in un sogno. Non sono riuscito a vedere il cristo nero segregato nella chiesa: ci volevo andare a tutti i costi, per nutrire la mia blasfemia. Al mattino mi hai preparato la colazione raccontandomi del Linus che leggevi da bambina. Poi siamo stati alla buca delle fate, schivando lo strappo selvaggio del cervo, disorientati dai nuvoli di terra sollevati dai trattori. C'era un setter scuro che faceva il bagno tuffandosi dallo scoglio; le inflessioni nell'aria erano tutte di ragazzi emiliani. Per arrivarci abbiamo percorso un viottolo polveroso e scosceso lungo il quale qualcuno si era arrischiato a piazzare la tenda nonostante la miriade di fazzoletti bianchi di carta pieni di merda dietro e davanti ai cespugli. Mentre scendevamo mi sono ricordato del capanno di tralci di vite non lontano da casa, quando ero bambino, dove mio cugino mi strusciava addosso i genitali. C'era lo stesso sole, la stessa sensazione di fare qualcosa di illecito. Adesso come allora non so perché sono qui; forse per dirti che un pettine serve a pettinarsi i capelli, un cucchiaio ad assaporare la minestra, una penna per gli appuntamenti importanti. Sono sicuro che tu mi sorriderai e sarai indulgente, ma, nonostante questo, ancora avverto una sensazione di colpevolezza dentro di me, e non riesco a capire se tradisco te o me stesso. Una sola strada ci è consentito di percorrere nella vita: abbandonare se stessi o gli altri; e può essere una scelta solo in qualche caso, di solito è necessità. Le altre possibilità sono soltanto compromessi e scorciatoie per la sconfitta. La vera libertà è degli orfani, dei derelitti, degli assassini, dei santi. La strada per casa è di sicuro la più lunga da percorrere da qualunque posto tu parta, ovunque creda di arrivare. Il sistema di regolazione smussa le asperità, uniforma le idee, appiattisce le sensazioni, ti inietta morfina nella vene. L'invarianza conduce inevitabilmente ad un fine, alla fine. Per me è già tardi, perchè la salvezza è non arrivare mai al bivio dove la strada si fa comunque più aspra e sei costretto a liberarti di una parte di te, come di un vestito troppo pesante. Ed anche adesso non credo di essere questo o quello, o chi scrive e cosa ha scritto. Fatico a riconoscermi se non fosse per i granelli di sabbia che si sono incastrati fra le dita dei piedi. I segnavento colorati girano su se stessi imperturbati. Le vespe ruotano ipnotizzate dall'acqua come lo scarabeo dal filo che ha legato alla zampa. Indietreggio verso il non spazio di cose raggiungibili; la traversata è profondo blu, lo stomaco è freddo. Ho paura per tutte le mie fragili cose, per i miei sigilli. Avrei voluto non imparare mai l'uso delle cose così da non finirne all'apice, disintossicarmi dalla pressione come il falco alto e nero sulla solitudine irreale del castello diroccato di Casteldoria, decentrato, al comando di se stesso, ed emettere solo il suo stridio. Le parole, un po' dure d'orecchi, fraintendono ciò che voglio dire. È un bene che, per lo più, non abbia niente da dire. Mi sono sempre pentito di aver parlato o scritto; una delle leggi di natura che l'uomo dovrebbe ricordare è che un animale deve fare di tutto pur di non svelarsi ferito; ed invece continuo a comunicare per non far sentire agli altri il diritto di annoiarsi o la paura di vedersi sorpresi a disinteressarsi; ed è l'unico espediente che mi permette di non essere altrove. L'espressione è ciò che non ti aspetti, il tentativo di cambiare ciò che era già perfettamente espresso affinché non si riconosca più. Ed è allo stesso tempo una metafora dell'intrattenimento, del lavoro, delle relazioni, della famiglia. La conservazione e la salvezza, e perfino quella che chiamiamo felicità non fanno parte dei gesti d'istinto. Ogni cosa è programmata e la finalità è il programma stesso. Un'ape affoga nel secchio bianco dell'acqua, una farfalla nel bicchiere di tè caldo. Le appoggio sul palmo della mano e mi fermo ad osservarle; un ingranaggio non ha importanza in quanto vivo o morto. Non c'è nessuna via rettilinea verso l'ignoto, ma essere arrivati qua è ciò che dev'essere compiuto, essere in ogni istante già a destinazione e alzare le mani affinché tu possa credere di sentirti sicuro e a posto come un auto nuova in vetrina, la tavola imbandita, le stanze senza un filo di polvere. Ed è la buca che copriamo, il salvadanaio riempito fino a scoppiare, gli strati di cera di cupra sul tuo viso; il di più che essere semplicemente ciò che siamo: luoghi spogli adatti alle idee, bisogni di cui è costituito l'universo, in giro come fantasmi, in cerca di un corpo da abitare; e sono tutto quello che c'è per ogni disegno e grafia, nella carne di ogni uccello in gabbia, nudo. La coscienza non è nient'altro che quella cosa che non si stende per l'arco di una vita, ma si ripiega su se stessa. La libertà della coscienza non può che essere ristretta in un assunto. L'anima è un indiano con l'orecchio poggiato al suolo in attesa della prossima carovana da assaltare, il corpo un lenzuolo appeso al filo, agitato dal vento. E non importa cosa rimanga di noi con gli anni o cosa facciamo di queste membra d'argilla. Non fa differenza chi compia questa o quella cosa e se sia compiuta, poiché il tempo è un contenitore d'infinita capacità e c'è sempre abbastanza spazio per caderci dentro. Eppure quanta affezione per chi mi sta vicino e quanto odio, e noia ed entusiasmo, rabbia e desiderio per tutte queste stronzate che cerco di decifrare, per le prove, gli abbozzi che facciamo continuamente del nostro passato, non diversi dagli scarabocchi a matita della mia infanzia sui fogli da disegno Fabriano, conservati in una cartellina verde, consumata, sotto qualche mobile della mia vecchia casa, dove c'era solo futuro. Li tengo in mano come talismani mentre il sangue infuria, mentre torno bambino e mi vedo fra gli altri adulti. Una sola cosa occupa le loro facce larghe e grasse, lunghe e strette: il desiderio carnale, la fabbrica dei luoghi e dei contenitori. E mi rendo conto che le nostre stupide e grette idee sociali, economiche e sessuali sono sostanzialmente identiche a quelle naturali, regolate dal principio dell'esclusività di desideri temporanei e morti ripetute che si svolge lungo un processo di digestione in cui ogni novità sovrascrive ogni certezza d'emozione, ogni io precedente, fagocitando tutto per attrazione e terminando ogni contingenza. Siamo spreconi quanto la natura. Qualunque cosa fai o vedi la puoi ridurre ad uno dei milioni di esperimenti, tutti andati male. E tutto ciò che è innumerevole e singolo si esaurisce senza consumarsi, come i miei passi incerti su questo pavimento liscio dove mi porti a fare la spesa. Chiaramente la fai tu, io mi limito a spingere il carrello, ad approvare con la testa alla confenzione di pan di stelle, al barattolo della nutella, perché in queste cose mi sento sempre molto stupido; perché al chiuso, in mezzo alla gente, mi prende l'ansia. Penso ci siano più possibilità che noi abbiamo generato l'universo piuttosto che il contrario, in noi c'è almeno una combinazione in più: poter creare ciò che è improbabile nel dominio del possibile, e non in quello dell'ignoto. E un supermercato ne è la prova. Un supermercato deve somigliare molto alla cella di un ospedale psichiatrico una volta che siano stati rimossi tutti gli scaffali su cui si espongono i prodotti. E un ospedale psichiatrico somiglia all'universo smascherato. Matte sono le persone che non sentono la necessità di ciò che fin dalla nascita ti hanno costretto o insegnato essere indispensabile. Giro in cerchio per le corsie e provo a respirare. E mi basta questo. È questa diversità a mezz'aria che mi rende felice come quando hai bevuto troppo o troppo poco e non hai alzato la mano dalla coscienza di te stesso. Il carrello della mia immaginazione è vuoto; mi hanno chiuso dentro e aspetto la prossima apertura. Ci si deve sentire come non essere ancora nati o già morti al freddo della macelleria. Ma tu mi chiami ed usciamo. Io cerco di venire giù, di riattivare la conduttività della mia pelle. Una cicala pulsante nell'erba è ciò che ho sentito più vicino oggi. Nulla fiorisce quassù. Nessuno parla fra cielo e terra da queste fauci pestilenziali. Non vedo la cascata originatasi dallo squarcio nella roccia del dio serpente. Ho paura di raggiungerti, di muovere le labbra. Il seme del terrore cresciuto nell'amigdala dell'universo è la paziente ingenuflessa costanza del nulla se io posso accendere la televisione. C'è del filo spinato attraverso al mare e neppure qua si può passare. Nuoto convulso, sempre sul punto di affogare; anche adesso, mentre mi passa vicino una coppia di giovani ciechi che corrono euforici nel sottopasso della stazione. Il treno sta arrivando. Muovono davanti a sé i bastoni di metallo. Oscillano a destra e a sinistra come la gonna gonfia di vento di una ragazza senza volto che dia le spalle ad un tramonto sulla cima di una scogliera. Cammino piano, senza respirare. È il mio stesso treno. Non lo perderemo. Salgo le scale. Corro. Mi aggrappo. Ti sento di nuovo. La nostra barca è l'unica che si è salvata. Sono ancora vivo.

 
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