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« la fottuta, brutale veritàè incomunicabile ciò che... »

provo di nuovo a legare i giorni compiuti

Post n°127 pubblicato il 28 Ottobre 2013 da andrea_firenze
 

provo di nuovo a legare i giorni compiuti, quelli appesi ad ogni piccola cosa, ai libri che non posseggo più, regalati a persone cui non potrei chiederli indietro; alle maglie rubate come ricordi, ormai staccate dalle maglie della catena. Li rimescolo nelle mie frasi affollate di oggetti e nomi, con soggetto predicato e complemento, stipate strette, con i polsi legati con i lacci alla branda del letto, affinché non si possano masturbare; riducendole all'osso, finché non coincidano. Le parole latrano, ringhiano; inghiottono le frasi, se le mangiano; non si ritirano mai e se ne sbattono di un andamento obliquo. Le parole non eludono mai una domanda, né ne formulano di nuove: hanno solo risposte; e non passano il tempo ad elucubrare come te su come far passare delusioni per successi con l'unico scopo di coprirne altri; non hanno tempo per morire o vivere di disinteresse; si riconoscono già sopra e a dispetto della vastità. Devi solo fare attenzione che non consumino se stesse. Devi scriverle o nominarle tre volte, perché ogni cosa è padre e figlio e spirito santo, e nutrirle di pianti e sorrisi; gridarle e strattonarle ogni tanto se non vuoi che presto scompaiono in lontananza e vadano perdute come monete scivolate via dalle tasche. E io non dimentico mai di farlo nonostante non sia l'ultimo fra coloro che forgiano reticenze e le stendono come teli bianchi per la polvere sui mobili dei salotti; magari senza farmi notare, ripassando a memoria i gesti più insignificanti e le espressioni cullate nei ricordi; spulciando fra le inflessioni delle voci e i discorsi altrui alla ricerca di chi sono stato mentre ce ne stiamo rannicchiati come ghiri al buio sotto la fiamma tenue dei funghi calore. E scorro le cosce nere e le maglie calde di ogni calza nuda, barcollando fra lo spritz ed il negroni nel tentativo di non sentirmi più invischiate le mani nella patina di grasso di cui è rivestita ogni cosa; di arrivare là dove la pelle è liscia e gli odori sono forti; dove poter toccare le cose che hanno smesso di cambiare, impermutabili e primordiali come piramidi, invece di aggirarmi come un turista fra le barriere dei percorsi guidati. Quanto più sono liquido e comincio a perdere la sensazione di portare qualcosa addosso, tanto più mi sono familiari le facce degli amici pitecantropi in cerchio ai tavoli come nelle caverne intorno al fuoco, ominidi che circondano il palco dell'improvvisazione teatrale. La sala è piena. Stringo in mano il cartoncino bicolore, bianco e blu, per le votazioni, spiegazzandolo con nervosismo. Gli spettatori sono scalmanati con se stessi, desiderosi di essere qui per caso come buste mai a destinazione. Hanno le fronti piene di rughe, malamente cancellate, sempre reindirizzate. L'arbitro è simpatico e pelato, a strisce bianconere, d'acciaio come il fischio che porta alla bocca; ha un cazzo grosso e pigro sotto la calzamaglia. Non c'è coscienza adesso, ed è una di quelle rare volte in cui riconosco l'amore sotto i rami intricati delle relazioni dell'ontologia, sfilando a lato della singolarità e degli archi di tempo e della serie infinita dei movimenti ricombinabili e delle proprietà perse, sollevato come la polena della prua di una barca sulla verde immensa distesa dell'empatia schiumata. Gli attori si rispettano, non si danno mai sulla voce; quando inevitabilmente capita, per sbaglio, ne provo pena. Alcuni, i meno esperti, intervengono poco, rimangono in silenzio per qualche minuto, facendo smorfie, mimando qualche gesto semplice: tagliare il pane, stendere il bucato; e questo è quasi l'unica cosa che riesco a seguire dello spettacolo: ciò che state provando in quei momenti. Non m'interessa della storia; e se ridete, non vi capisco. Sono nel mezzo del ghiacciaio adesso, come un androide paranoide; la mente è un piccolo posto, un buco oscuro, su cui se ti concentri o se ci guardi dentro, non può che sembrarti un luogo largo e sconfinato. In realtà è senza verso e con un singolo univoco significato, come un palindromo. Lo puoi leggere o rileggere come qualunque routine, sogno, avvenimento della vita: le cose che riusciamo a rendere coese, non più grandi di un grumo di sangue. Pochi istanti sfocati e siamo di nuovo all'esito. Tutto va in disfacimento e riprende a frazionarsi: i personaggi corrono sfiatati; le luci annaspano, calano fino a scomparire, come un fiammifero che si spenga nel ventre di una balena sprizzando le ultime scintille. È ora di alzarsi dalle sedie di plastica, di tornare ciascuno a casa propria, alla solita affettazione. Le facce dai nasi eccitati, in erezione, sono tornate piatte e camuse. Raccolgo come uno spazzino i miei pezzi carta, con un po' di disappunto, scrollando le spalle. Hai una bella maglia rosa e i capelli lisci, di castagno. Avrei voglia di arrampicarmi sulle tue spalle e di graffiarti il dorso come un gatto, di fare una violenza qualunque, un unico atto che permetta di tirarsi fuori, di sbarazzarsi del resto. Ma indugio sul metatarso, l'effervescenza mi percorre le dita. Siamo tutti rigidi e incredibilmente distanti come la voce di un contralto, intenti a rassicurarsi. Ho il grugno di un maiale. Sono pieno di barzellette sconce che non saprei ridire. Non resta che il caldo dietro ad un parabrezza, e gongolarsi nei vestiti, sulle strade scavate dalle auto, e ripercorrere più e più volte gli stessi sette ponti finché qualcuno mi riconosca. Accendo la luce. Mi spoglio. Le gambe nude penzolano dal letto. Le pupille sfolgorano. Ho mal di testa e macchie di cibo e cocktails sono sparse sui vestiti. È l’ora della pace e del silenzio ma aspetto ancora un po' prima di dormire; un po' di tempo per sognare ad occhi aperti i canali e le isole di Königsberg, dove l’aria è fredda e cristallina; dove la pelle degli sconosciuti è bianca come quella dei bambini. Ancora un po’ per ammirare l'irrisolta bellezza del perdersi e dell'unicità.

 
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