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"LA CICALA E LA VOLPE"

Post n°450 pubblicato il 23 Giugno 2007 da bargalla



Concerto per sole cicale all’ombra dei mandorli e degli ulivi.
Tutto il resto tace, sembra di essere nella cavea di un teatro all’aperto dove i suoni echeggiano nel vuoto di una cassa armonica senza pubblico né platea con il sole che picchia implacabile col sottofondo di una colonna sonora che di continuo replica lo stesso refrain. Seguo l’ideale spartito delle cicale, cerco di indovinarne gli accordi, hanno un certo che d’ipnotico, potrei andare in catalessi, qui all’aperto, evenienza più che certa dopo l’ennesimo turno lavorativo e, magari, sognare di essere in dolce compagnia, mentre all’orizzonte l’aria tremula e caliginosa scioglie i colori del paesaggio in lontananza e confonde i confini del cielo e del mare.
La casuale lettura di una massima greca mi ridesta però dal mio torpore post prandiale e mi suggerisce di rivalutare le qualità canore delle cicale sfatando la cattiva nomea di questi coleotteri “concertisti” e fannulloni che, a dispetto del prof “minchino” e del suo mentore luca cordon bleu di montezuma (noblesse obblige!) e delle operose, inconsapevoli, formiche operaie, che accumulano cibarie per la “regina”, non hanno bisogno di tessere e di tutele sindacali per svolgere le loro mansioni e trascorrono la loro vita cantando fino a morire sui rami degli alberi, dove, ahimè, non è raro trovarli rinsecchiti a stagione ultimata.
Rinsecchiti, mummificati, di sicuro felici di aver vissuto solo per riprodursi e cantare (e non so quanti fra il genere umano possano dire altrettanto) poiché l’esibizione canterina altro non è che un richiamo sessuale esercitato a gran voce dai soggetti maschi, quasi sempre provvisti di un organo stridulatore posto alla base dell’addome che viene fatto vibrare dalla contrazione di un’apposita muscolatura esercitando la funzione tipica di ogni attributo maschile.
Apro una parentesi: ho notato che ultimamente i “padroni” del vapore, termine quanto mai appropriato per richiamare la volatilità del flottante, carburante primo del loro falso perbenismo, definiscono “collaboratori” coloro i quali continuano invece ad essere dei semplici plebei e servi della gleba, giacché nulla porta a credere che per loro un operaio non continui invece ad essere quello che è sempre stato, un numero, una semplice unità lavorativa, un elemento della “forza lavoro” sottopagato, perché sottoposto, mal retribuito e sfruttato che difficilmente si sentirà così gratificato da considerarsi un “collaboratore” del datore di lavoro mettendo fine a quel conflitto di classe che ancora si combatte per la gioia di qualche bieco signore di troppo, che lo considera vinto e superato dalla menzogna del capitale.  
Se penso che per un certo berlusconi silvio “il figlio dell’operaio non potrà mai essere uguale al figlio del professionista” allora non posso che compatire quanti, pur essendo nate formiche, per una sorta di briatorizzazione genetica, si atteggiano a cicale “billionarie” o a volgari usignoli nostrani e canticchiano le lodi di un riccastro sfondato, ingordo e presuntuoso, che meriterebbe solo di fare lo spelacchiato spaventapasseri nelle sue piantagioni di cactus e di ibischi.
Chiudo la parentesi e ritorno al canto delle cicale per una riabilitazione in punta di penna che si accompagna al dolce far niente, il ricreante otium che non è mai fine a sé stesso considerando che presso gli antichi greci questo insetto ritenuto “canoro” per eccellenza, veniva associato addirittura a Platone definito: “dalla prosa armoniosa come quella di una cicala.”
Il canto delle cicale, tuttavia, non era topico solo perché melodioso, magari a quei tempi lo era, ma anche per la sua defatigante continuità.
Si narra, infatti, che San Girolamo imponeva ad un suo diacono poco pio di pregare per tutta la notte con questa similitudine: “Sii la cicala della notte”.
Da qui una valenza per così dire negativa, basata sul fatto che un canto incessante, a lungo andare, può sembrare opprimente, proprio come il frinire delle cicale, che nelle ore della canicola estiva diventa quasi insopportabile.
In realtà, fondamentale per il topos da sfatare è un passo del Fedro in cui Platone fa ricordare a Socrate che un tempo le cicale erano “uomini, di quelli che vissero prima che nascessero le Muse” tanto amanti del canto, da dimenticare per esso perfino il cibo e quindi morire di fame: da qui la stirpe delle cicale, che riescono a disinteressarsi del nutrimento, ma non possono fare a meno di cantare dalla nascita alla morte.  
In effetti, ci sono periodi nella vita del genere umano, in cui si vorrebbe soltanto “cantare” facendo vibrare un ben altro organo “stridulatore” e in quei frangenti una fame soppianta l’altra, anche il cibo passa in secondo piano e le qualità per così dire “canore” si manifestano in ben altre melodie che, pur non avendo la durata del canto delle cicale, sono pur sempre il risultato di una performance la cui esecuzione, se si trova lo “spartito” adatto diventa sicuramente memorabile e magistrale.  
Un canto stridulo che inizia con l’adagio e in un crescendo corale, diventa quasi allegro, nel silenzio della campagna evoca riflessioni sui generis, dettate più dal caldo e dal dolce far niente che dalla cantilenante cadenza della Lyristes Plebeius, alias la gracchiante cicala, effimero simbolo canterino di ogni “bella estate”.
A proposito di “bella estate” mi sembra di aver letto che l’anno prossimo si celebrerà una qualche ricorrenza che ha a che fare con Cesare Pavese, il quale oltre a scrivere “La bella estate” e tanti altri capolavori fra cui “La luna e i falò” ha lasciato un diario che non a caso si intitola “Il mestiere di vivere” in cui l’intimo tormento dello scrittore delle Langhe si manifesta in tutta la cruda inadeguatezza di un’esistenza che culminerà poi con il suicidio, scelta fra le più drammatiche, acuita dalla disperante solitudine di un uomo che proprio in un giorno d’estate mise fine ai suoi giorni.
Come non ricordare l’incipit di una sua poesia che dà anche il titolo ad una raccolta di versi: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Forse una premonizione o la premeditazione di un gesto che è sempre una sconfitta anche per chi, dopo lungo apprendistato, non riuscirà ad imparare “il mestiere di vivere”.
A volte apro il suo diario e lo faccio sempre con pudore, come se stessi violando, sapendo di essere osservato, qualcosa che per sua natura appartiene alla “storia di un’Anima” che è sopravvissuta ad un colpo di pistola, qualcosa reso eterno da semplici caratteri di stampa che a leggerli suscitano un’ondata di estrema pietà e di commozione.
Specie, se penso al suo (e al mio) tormentatissimo rapporto con le donne, argomento fra i più trattati del suo diario, a proposito delle quali, il 3 agosto del 1937 annota questo che sembra quasi un aforisma, un concentrato di saggezza che ben s’attanaglia al caso mio: “Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e prova a salvarlo. Qualche volta, ci riesce.
Ma, una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre!”
Una doppia verità nella quale, oltre ad esserci un pizzico di crudo cinismo, c’è la consapevole certezza di quanto grande sia l’ascendente esercitato da certe donne su degli uomini che, probabilmente, non sono mai cresciuti, forse perché non hanno pienamente vissuto un periodo della loro vita, l’adolescenza, che nel mio caso, si è consumata nel plagio rapinoso di un seminario dove si inneggiava agli ideali misogini e sessuofobici. Strano modo, davvero, di predicare la castità, soffocando la sessualità e la naturale inclinazione verso l’altro sesso con l’induzione a comportamenti che di “puro” avevano solo l’impura empietà di chi si ergeva a censore dei facili costumi, salvo poi dedicarsi alla più turpe delle nefandezze, distruggendo per sempre la vita di relazione delle loro vittime.
Io quella donna di cui parla Pavese, l’ho incontrata che ero un rottame, mi ha salvato da me stesso, dalle mie paure, mi ha redento; ma poi l’ho persa, e con lei ho perduto la voglia stessa di ricominciare. Come lei nessun’altra mai!
L’equazione “donna uguale peccato” è quanto di più innaturale i preti possano insegnare nei loro seminari, probabilmente lo fanno perché hanno la fobia del sesso, sono ossessionati dal sesso o, perlomeno, vorrebbero far passare l’idea che il celibato o la castità (io la definisco castrazione mentale) sia un atto d’amore (sic) che si consuma nella privazione dei piaceri della carne che alla lunga provoca più danni che benefici, predisponendo a quelle devianze che nel mondo dei preti sono “tollerate” combattute a parole, ma coperte con la consueta ipocrisia perchè “la chiesa è madre e non denuncerà mai i sui figli”.   
A questo punto, giusto per ricavare una morale da una digressione che forse mi ha portato fuori tema, copio e volentieri incollo, una favola poco nota di Esopo:  

                                    
“La cicala e la volpe”

“Una cicala cantava sulla cima di un albero e una volpe, che voleva mangiarsela, escogitò questo espediente. Ferma di fronte all’albero, si mise a magnificare la bellezza di quel canto e pregò la cicala di scendere, poiché voleva vedere quali fossero le dimensioni di un animale con una voce tanto potente.
Ma la cicala, che aveva subdorato l’inganno, strappò una foglia e la lasciò cadere: la volpe pensando si trattasse della sua presunta vittima, fu lesta a piombarvi sopra.
“Ti sei ingannata, cara mia” le disse allora la cicala “se credevi che sarei scesa. Io mi guardo da quelle della tua razza fin da quando, in un escremento di volpe, ho visto le ali di una cicala”.
Morale: le disgrazie e gli errori dei vicini rendono accorti gli uomini di buon senso”.

Morale della morale: qualche giorno fa si è svolto uno di quei periodici G8 che spesso passano alla storia solo per la bassa “macelleria messicana”.
Nell’ultimo si è parlato tra l’altro del rischio ambientale, della mancata attuazione del protocollo di Kyoto e dei danni irreparabili provocati alla Madre Terra da quel biblico “soggiogatela” che ne ha travisato il senso trasformando la Genesi dell’Eden che fu nell’Apocalisse dell’inferno che verrà. Si è lanciato l’allarme ambientale, senza proporre alcun rimedio valido e intanto il 20% della popolazione mondiale, la ricca, vorace espressione dei G8, continua a sfruttare l’80% delle risorse disponibili a discapito dell’equilibrio ambientale, della parte più povera del Pianeta e di uno sviluppo equo e sostenibile che penalizza i Paesi del Terzo e Quarto Mondo.

 
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