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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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PIZZICATE SUGGESTIONI

Post n°511 pubblicato il 29 Giugno 2008 da bargalla

     

C’è una retorica della passione e c’è una retorica dell’amore, l’una e l’altra in certi casi si intrecciano in modo indissolubile, si aggrovigliano fra loro fino a formare degli inestricabili nodi gordiani intessuti per legare fino allo spasimo brandelli di un passato inconsunto da una bruciante passione ad un tempo riarso e sospeso sull’immemore presente, nelle profondità del quale un certo pessimismo di maniera scorre inesorabile come un fiume carsico cercando un mare dove la ragione dia un senso anche alla delusione più cocente: eros e pathos disegnano la trama e tracciano da sempre la rotta delle anime lacerate dal destino, intessono di ruvide filacce romantiche nuove reti dalle maglie strettissime da cui quasi mai ci si riesce a liberare specie quando la marea dei ricordi sale improvvisa, scioglie le sartie dell’immaginazione e inonda la memoria ricacciandola nel gorgo del passato.
Vorrei tanto rifuggire dalla retorica dei sentimenti e dei risentimenti, ma una pesante zavorra mi porta a sfiorare l’alveo periglioso dei ricordi e a lasciare sul fondo sabbioso l’impronta di un passaggio subito cancellato dal gioco delle ricorrenti emozioni e dei malcelati rimpianti, nostalgie e mestizie che d’estate s’acuiscono, pizzicano e feriscono il cuore e la mente.
Ho trovato una vecchia cassetta e la tua voce quasi smagnetizzata è riemersa dal passato, l’ho riversata sull’ipod per ascoltarla con il mare in sottofondo: lu rusciu te lu mare, ricordi? Dolcissima nenia canticchiata quando ancora la pizzica era solo genuino folklore, tuttavia il rumore del mare continua a proporre gli accordi di sempre, lo sciabordio delle onde, la risacca fra gli scogli, un battito d’ali, gabbiani in volo, il respiro del vento, la tua voce restaurata in cuffia, dolcissima. E all’orizzonte, il silenzio gravido di inutili perché aleggia lieve nell’aria che sa di oleandri, di mirto e di gelsomini, e mi porta il suono e la presenza di una grande assenza.
Legare a questi suoni, a questi profumi, i ricordi e liberarli in riva al mare, messaggi intessuti fra le onde di un giorno d’estate vissuto nel fantastico irreale, immaginando quel che poteva essere e non è stato; tecnica del correlativo oggettivo, la chiamano, trovare degli oggetti, farne dei simboli e ricavare da questi un ancora di salvataggio per sfuggire sia all’astrazione concettuale, all’inevitabile idealizzazione del bello (non più ninfa ma solo musa, non più idea ma solo i…Dea), sia per eludere lo spontaneo riaffiorare del rimpianto mai del tutto rimosso e, con questo, la voglia impellente di venirti a cercare, quasi per ritrovare una parte di me che ho smarrito forse per sempre. Potrei farlo, ma temo di rovinare un idillio familiare, ti so madre e sposa felice e questo dovrebbe bastare a scuotermi dall’ignavia, dallo sconforto del disinganno, dall’assalto del dubbio; dovrei piuttosto “ringraziare il Cielo per averti conosciuta” e voltare pagina, senza indugio alcuno, cercando nuovi orizzonti di vita.
Facile a dirsi, difficile a farsi poiché appena il giorno diventa sera, l’orizzonte fatto di cento borghi si accende accanto al mare, me ne preclude ogni altro e mi costringe a domandarmi all’infinito quale fra quelle tremule luci possa indicarmi il tuo cuore.
“I ricordi, un inutile infinito”. Questo versicolo ungarettiano giunge a proposito e sembra chiudere il sipario sugli esterrefatti scenari che la memoria cristallizza nel sale prosciugato dal sole della solitudine: sono gesti, oggetti, situazioni, angosce, sguardi perduti nel vuoto che il tempo invece ritrova, dispiega e vivifica nell’ossessivo ricordo di sensazioni ed emozioni, mai più cancellate dagli eventi successivi e arricchite dallo scarto consolatorio dell’immaginazione.
In questo mare di silenzio, quando trovo un suono, una parola, un’immagine che mi parla di te, precipito nell’abisso della memoria e del dolore, la retorica della passione e dell’amore vorrebbero prendere il sopravvento, ma non sono più in vena di sentimentalismi adolescenziali e i “frammenti di un discorso amoroso” soggiacciono alla sterile incompiutezza dell’illusione.  
Non so se serve a qualcosa, eppure oggi, cara Nadia, è bastato veramente poco per ripiombare nell’enfasi di un ricordo setacciato dal mio amor proprio quasi a volerlo sfrondare dalle scorie di una relazione che ha prodotto rivoli d’incontaminata solitudine a malapena arginati da quel lavoro che pure fu causa dei nostri dissidi, i postumi di quell’esperienza atroce, eppure bella, restano nel segreto del mio cuore e del tuo che spero li serberà senza rancore.      
Potenza evocatrice delle immagini, la “madeleinette” di oggi, flash proustiano di drammatica attualità, mi è stata offerta da una foto pubblicata in questi giorni su tutti i giornali: una ragazza con i capelli lunghi come i tuoi e una fascia sulla fronte come la portavi anche tu. Mi sento un po’ sciacallo e chiedo scusa per questo, approfitto a malincuore di un dramma per seguire il filo dei ricordi che si dipana nel tempo e ritorno ad una sera d’estate di tanti anni fa.
Avevi la stessa età di Emanuela, la sfortunata ragazza della foto, io ti prendevo in giro per quella fascia, tu mi rispondevi sostenendo che anche le ragazze di Roma la indossavano, quindi potevano benissimo metterla anche quelle della provincia: le “ppoppite” come le chiamavi tu, abusando di un termine dialettale che rimandava per contrasto all’antico oppidum della lingua dei padri.
Mi manca tutto di te, mi mancano le interminabili discussioni e le amorevoli prese in giro, mi mancano le divergenze di opinione e le convergenze di giudizio; il mio Marx senza il tuo Nietzsche si annoia, mi resta Schopenahuer che per essere stato l’educatore di entrambi, rivendica il merito di averci fatto conoscere: “se stiamo insieme la colpa è di Arthur!” mi dicevi.
Salvo che nel frattempo tu non abbia cambiato idea, so cosa pensi del clericalume imperante e del fariseume trionfante, sarebbe però interessante sapere la tua opinione sugli inconfessabili interessi  e i torbidi retroscena che hanno fatto da sfondo al rapimento Orlandi, sul ruolo svolto dal vaticano, sui veri motivi che spinsero i gerarchi catto-vaticani a tumulare la salma di un boss in una delle loro basiliche.
Guarda caso la stessa frequentata da Emanuela.
Sarebbe interessante sapere il tuo giudizio sull’attuale governo a conduzione padronale e sul carattere manifestamente nazi-fascista più volte espresso dai componenti più illiberali, fanatici e razzisti del gran consilvio, i quali hanno anche l’ardire di definirsi democraticamente “cristiani”, mi riferisco ai vari maroni, ai sacconi, al prosseneta berlusca e ai berluscloni, penso schifato ai vari alfani, agli schifani, ai bondi alteri, ai fitto-tafani tremontani, penso ai la ruspa, ai frattini e alle frattaglie, ai rotondi fini e alle suine porcate di bossi e calderoli con al seguito un branco di scrofe e di maialini. 
Forse mi risponderesti citando il tuo Nietzsche e la teoria dell’eterno ritorno.
Forse mi risponderesti citando il suo Anticristo: “In fondo c’è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce”. Tutti gli altri, papi e papponi compresi, non hanno fatto che lucrare su quella morte. E concluderesti: “Come sempre Nietzsche batte Marx 2 a 0”.
Resto intrappolato nell’iperbole del pensiero nietzscheano, risento l’eco di Zarathustra, ascolto il canto della danza e rivedo i tuoi occhi di mare e di cielo e nei tuoi occhi mi sembra ancora di “sprofondare dove non si tocca il fondo” e tu di nuovo mi ripeschi “con un amo d’oro” e ridendo beffarda ripeti “ma io sono volubile e selvaggia e in tutto donna e non virtuosa”.    
Tento un ardito parallelismo: “pizzicato” dal calendario e da una festa patronale che apre la grande stagione della pizzica salentina, tralascio le “similitudini” nietzscheane che il salto comporta e dalle tarantole di Zarathustra il cui “veleno dà il capogiro all’anima” ricado più prosaicamente nella terra del rimorso, dove il veleno di altre tarantole, leggendari quanto improbabili ragni “esistenziali”, diventa anch’esso mito e metafora, simbolo e antidoto del male di vivere, una magica pozione che inebria, procura piacere e stordimento, possessione e sfinimento, vertigine e liberazione seguendo il ritmo travolgente di una danza che rappresenta pur sempre un rituale dionisiaco sul quale, almeno da queste parti, si è innestato il culto di San Pietro e Paolo con delle varianti che però non sono riuscite a cancellare uno dei più affascinanti e coinvolgenti riti pagani dalla chiara valenza iniziatica ed espiatoria.
Come non dare ragione al tuo Nietzsche che accusava il cristianesimo di aver distrutto la grande civiltà greca, senza riuscire però a soppiantarla del tutto, tanto che ancor oggi l’intero l’edificio della civiltà occidentale poggia su quelle fondamenta.
Tanto che Paolo di Tarso ha preso il posto di Dioniso e in una celebre pizzica viene invocato con degli epiteti che ricordano i baccanali, l’acme dionisiaca e lasciano ben poco spazio all’immaginazione: “santu paulu meu te le tarante, ca pizzichi le caruse a menzu l’anche…santu paulu meu te li scurzuni ca pizzichi li carusi alli cujuni…”
Penso in particolare all’Antigone di Sofocle e all’inno che il coro eleva a Dioniso chiamando a raccolta tutta una serie di ninfe consacrate a Bacco, “dio dai molti nomi…tu che l’inclita Italia proteggi…custode di notturne invocazioni” fra le quali ninfe oltre alle celebri Baccanti c’erano “le deliranti” Tiadi “che furenti l’intera notte in tuo onore danzano…con passo purificatore”.
Furenti la notte intera anche le tarantolate “pizzicate” da un mitico ragno, vestite di una bianca tunica e a piedi scalzi danzavano fino a cadere, sfinite, su di un bianco lenzuolo e anche distese continuavano a muoversi dibattendosi al suolo, fino a quando la sindrome della possessione e dell’esorcismo, danza e suono, mistero e magia, non ne suggellava l’avvenuta guarigione al ritmo vorticoso e incalzante di violini e tamburelli.
Non c’è spazio per la vuota retorica dell’amore, forse si coglie solo la sensualità e l’eros, il pathos e l’acme di una vertigine che rimanda al male di vivere, all’abbandono o all’intimità di un rapporto appena consumato o di là da venire, uno sfiorarsi e lasciarsi senza mai toccarsi al ritmo cadenzato dei violini e dei tamburelli, desiderio e illusione insieme, così come vuole la sensuale coreutica della pizzica.  
La pizzica continua a svolgere la sua antica funzione liberatoria ed esorcizzante, il sibilo lungo della taranta inocula il tuo dolce veleno nella mia mente e “perché un’immagine non rimanga solo un’immagine” ascolto lu rusciu te lu mare, la tua voce è più viva che mai, mi sfiora e si lascia sfiorare come un fiore sbocciato al di là del bene e del male che indugia prima di schiudersi per effondere un profumo che uccide e fa sognare.  

              

 
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