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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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« "NEL SENSO PIU' BANALE ...UN "FILIPPO" DI NOME SILVIO »

ATTUALITA' DI SIMONE WEIL

Post n°581 pubblicato il 01 Settembre 2009 da bargalla

                  



Nel rileggermi, noto che anche stavolta mi son fatto prendere la mano, il post che segue risente di una lunghezza inusuale per un blog, ma tant’è! D’altronde l’attualità offre così tanti spunti di riflessione da far passare ben presto in secondo piano ricorrenze e anniversari che comunque aiutano a capire meglio la brutta piega che hanno preso certi eventi determinati dall’uso aberrante di un potere “forte con i deboli e debole con i forti” il quale, per consolidare il suo dominio, spesso e volentieri applica l’unica legge che conosce: la legge della giungla, quanto di più malvagio e crudele possa fare un uomo nei riguardi di un suo simile colpevole soltanto di essere un disperato alla ricerca di una condizione di vita meno disumana.  

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Simone Weil, una delle più grandi e “incomprese” donne filosofe del secolo breve, fra le quali spiccano Edith Stein, Hanna Arendt, Etty Hillesum  e Maria Zambrano. Nomi di diversa ispirazione spirituale ma di eguale potenza intellettuale dinanzi ai quali non posso non provare la vertigine propria dei “classici”, nomi al cui confronto quelli più noti e attuali di donne  chiacchierate, inebriate dal potere e dedite a ben altro che non alla speculazione filosofica e all’impegno civile, suonano offensivi nei riguardi di un gentil sesso ridotto al rango di leccapiedi, per non dire altro. Dame di compagnia e cortigiane aduse a vendere la bella presenza, a concedere il proprio corpo a satrapi circondati da servi e manutengoli  in cambio di “nomine” che ben presto rivelano il sotteso meretricio e l’incapacità di svolgere al meglio compiti e funzioni proprie di chi si guarda bene dal farsi incantare dall’aspetto fescennino del potere.       
Personalità eminentissime, le prime, donne di eccelsa levatura intellettuale e morale vissute nei primi decenni del secolo breve che oggi avrebbero tanto da dire ad una società a dir poco distratta e obnubilata da un arsenale mediatico che dispiega la sua micidiale potenza di fuoco promuovendo il puttanesimo, la cultura dell’apparire, la denigrazione dell’avversario, la mistificazione della realtà oggettiva, il guadagno facile, attaccando l’unico baluardo rimasto a difesa dell’onestà intellettuale,  ovvero la facoltà di pensare in proprio senza essere influenzati da condizionamenti di chiese e omuncoli della loro provvidenza.
Purtroppo c’è chi ha delegato ad altri questa insopprimibile attitudine, propria del genere umano, sciaguratamente c’è chi si arroga il diritto di pensare per conto terzi; plagiando consapevolmente il pensiero altrui (e con quello il modus vivendi) si diventa homo homini lupus ed è proprio questa bestiale propensione a dominare un “territorio” segnato dal pensiero unico ad assoggettare al dominus-lupus, il volgus-pecus, un popolo sempre più spesso inteso e considerato come gregge da ammansire e tosare, forza lavoro e carne da voto, polli da spennare, sudditi impotenti e contribuenti da salassare ingabbiandoli in schemi lavorativi, sociali e fiscali che Altri chiamerebbero più propriamente alienazione.

Nell’ambito socio-culturale della soggettività umana ci si imbatte sempre più spesso in esseri alienati, resi estranei a loro stessi da un sistema, non solo lavorativo, che gradualmente li espropria della loro facoltà di agire (poiché dopo il pensiero, viene sempre l’azione) con la creazione di rapporti di lavoro e (di dopo-lavoro) alienanti che alla lunga invece di nobilitare, e ricreare, schiavizzano creando servile dipendenza.
Il rapporto di produzione capitalistica è inversamente proporzionale al reddito del lavoro dipendente, lo spossessamento del prodotto del proprio lavoro, apparentemente retribuito con uno stipendio che sarebbe meglio definire salario, con tutto quello che quest’etimo suggerisce, produce solo alienazione trasferendo e concentrando una ricchezza che invece di essere ridistribuita, si accumula nelle mani di quei pochi che poi riescono a trasformarla in potere esercitando il quale perpetuano se stessi, inducendo assuefazione in quelle masse intossicate dall’uso stupefacente di una realtà virtuale in cui i “consumatori” abituali, si comportano come api operaie che lavorano indefesse irretite dal panem et circenses elargito dal regime mentre il fuco, l’utilizzatore finale, se la spassa con l’ape regina.  
Rompere questo circolo vizioso è una finalità senza fine, impossibile da perseguire ben sapendo che il migliore dei mondi possibili appartiene alle grandi utopie, ostaggi di religioni e ideologie che trascendono l’uomo, poiché pur volendo tendere al bene assoluto, quel che poi possiamo effettivamente raggiungere è (solo) il bene correlativo del male.

Grande la tentazione di uscire fuori tema incalzato da un’attualità che mi porterebbe a scrivere di tutto, meno che dell’insegnamento di Simone Weil, seppure sollecitato dal pensiero della sua breve vita, interamente trascorsa alla ricerca di una giustizia sociale che riscattasse in primo luogo gli oppressi.
Per condividere le privazioni delle persone che pativano e morivano di fame a causa della guerra e nei campi di concentramento, si rifiutò di dormire su un letto e di nutrirsi correttamente lasciando che quest’amore così estremo e totalizzante la consumasse fino a morire all’età di trentaquattro anni.
Un comportamento stoico impossibile da emulare, lo riconosco, l’istinto di sopravvivenza avrebbe la meglio inducendo i più volenterosi a impegnarsi più concretamente in ogni campo del loro agire per migliorare la società annullando le coercitive condizioni di vita indotte da un sistema in cui, come diceva mia nonna, chi è nato con la camicia non si metterà mai nei panni di chi è nato senza.
Considerazione valida quanto mai al tempo degli arcana imperii con emigranti considerati briganti e cittadini retrocessi a sudditi da un sistema di potere abnorme che non si sa più come definire, infarcito com’è di anomalie e incongruenze difficilmente riconducibili al concetto di Democrazia, giacché si è cancellato il demos e potenziato il kratos a favore di un patologico egotismo chiaramente distruttivo che celebra il culto della sopraffazione e dell’inganno per la maggior gloria di un colosso dai piedi d’argilla.       

Ricordo l’emozione di quando, studente liceale appena “evaso” dal seminario, lessi “La Condizione Operaia” e lo stupore di trovarvi descritta la vita che pro tempore d’estate vivevo come operaio-contadino (salariato in nero, equiparato alle “fimmane” sottopagate, assunto a giornata per la raccolta delle angurie e la vendemmia); ovvero la situazione di insofferente subordinazione legata alla necessità di obbedire a ritmi e a ordini imposti da caporali, fattori e padroni che avevano sempre un occhio di riguardo per i “comunisti” come me, insofferente all’idea che qualcuno potesse giovarsi del lavoro di chi sta peggio per migliorare le condizioni di vita chi sta meglio e vive di rendita proprio a detrimento dei meno abbienti.
Il “mercato” del lavoro è il vizio capitale, poiché subordinato a rapporti di forza che favoriscono lo sfruttamento di una “classe operaia” che non è più solo quella propriamente detta, volendo includervi un ceto medio, impiegatizio e terziario, che si scopre sempre più vulnerabile dinanzi all’affermarsi di nuovi modelli discriminanti di consumo tendenti a livellare verso il basso una società dominata da gruppi di potere insofferenti all’idea di dover limitare la loro influenza in settori vitali dell’economia e dello Stato che, tanto per restare nell’ex belpaese, si apprestano a completare l’opera depauperando la Res Publica ed estendendo i loro già corposi interessi nel campo della scuola e della sanità, certi di trovare nell’esecutivo attuale la sponda ideale alle loro assurde richieste.  E tutto fa pensare che si vada in questa direzione. Con la scusa dei tagli imposti da una crisi finanziaria il cui prezzo viene interamente addebitato ai ceti più deboli, si tagliano indiscriminatamente beni e servizi che, tanto per restare in tema, pregiudicano l’assistenza sanitaria e la pubblica istruzione; quisquilie e pinzillacchere se si considera lo stato dell’arte di queste “passività” statali che per altri versi stuzzicano l’appetito di molti avvoltoi, filantropi di se stessi e dei loro interessi, i quali guardano con occhio di favore alla diminuzione dei posti letto, alla riduzione del budget, alla soppressione di scuole e sezioni, al blocco del turn over, al licenziamento dei precari; proprio perché poi saranno loro, i privati, con i finanziamenti elargiti dallo Stato, a fare da surrogato svolgendo compiti che per loro natura, non possono essere delegati ad altri.
L’anno scolastico sta per iniziare sotto i peggiori auspici, da una parte c’è la sindrome influenzale di tipo A con un ministro preoccupato di non generare allarme sociale a fronte di una prevedibile recrudescenza epidemica, dall’altro c’è sempre lo stesso ministro che taglia 18 mila posti di lavoro, il più grande licenziamento collettivo mai fatto, senza preoccuparsi più di tanto della portata di decisioni ispirate dalla macelleria sociale a conduzione padronale di un malgoverno più disposto a soddisfare i capricci di un dittatore che a garantire il Bene Pubblico di cittadini espropriati della loro sovranità.      

La Weil in quel “libello” denunciava, per aver volontariamente scelto di vivere la vita operaia, con estrema chiarezza l’inganno sotteso all’umiliante soggezione, tipica del lavoro dipendente, che espropria, aliena, le persone da se stesse e le costringe, per bisogno e necessità, a concentrarsi esclusivamente sul compito affidato.  Lucidamente metteva in risalto come “l’oppressione a partire da un certo grado di intensità, non genera una tendenza alla rivolta bensì una propensione quasi irresistibile alla più assoluta sottomissione”.       
Era quello che notavo sul campo, quasi incredulo di assistere a vere e proprie angherie senza che quasi nessuno osasse non dico ribellarsi, ma reclamare un trattamento per così dire più umano pur in presenza di un sindacalista fantoccio (non dico la sigla) che a mo’ di contentino, curava pratiche legate alla riscossione dell’indennità di disoccupazione fasulle e quant’altro (ricavandone una certa percentuale) di cui beneficiavano “contadini e contadine” che non si erano mai sporcate le mani di terra; un sindacalista, un sindacato doppiogiochista, chiaramente subordinato, finanziato e asservito alla proprietà.
L’unica cosa bella che ricordo di quel periodo sono gli sguardi bassi delle ragazze, gli ammiccamenti, gli sfottò rivolti al prete mancato e i canti dei contadini; canti di lavoro e sudore, tristi nenie dialettali che d’improvviso cambiavano cadenza assumendo il ritmo travolgente della pizzica. 
Paradossalmente il sindacato invece di difendere gli interessi dei lavoratori e degli iscritti, si schierava dalla parte padronale, facendo proprio il motto “se vuoi lavorare, questo è il prezzo da pagare”.
Un po’ come tuttora accade in una società in cui permanente è il rischio di essere subdolamente asserviti tramite un’insistente azione di persuasione occulta o palese, si chiami essa gabbia salariale o contratto decentrato da accettare e sottoscrivere obtorto collo: prendere o lasciare! 
Non per niente il ministro del welfare che non c’è, si è rivolto alla maggiore sigla sindacale dicendo che,  volenti o nolenti, bisogna adeguarsi ai nuovi modelli contrattuali, così come impone il diktat legaiolo.
Purtroppo giorno dopo giorno, le persone, i lavoratori, sono inconsciamente portati ad assumere gli stessi modi di pensare, di valutare e interpretare una realtà dominata dal pensiero unico. Il rischio di perdere la libertà di essere se stessi, incapaci di riconoscere ciò che è bene e ciò che è male per la propria promozione sociale, è sempre presente, al punto tale che la stessa dimensione etica sembra perdere ogni connotazione razionale finendo sciaguratamente per indirizzare i nostri comportamenti al criterio del “così fan tutti”. Di esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe, meglio non infierire: il buon nome di Simon Weil non merita di essere sporcato dall’accostamento con altri d’infima fama e bassissima lega.   

Il lavoro di per sé non è opprimente, ma la sua organizzazione può produrre costrizione e generare un senso di sradicamento e di separazione: vivere in un luogo in cui tutto è organizzato da altri per massimizzare l’altrui prestazione lavorativa (fabbrica del consenso compresa) genera un senso di frustrazione, di alienazione e, tante volte, di impotenza e rassegnazione poiché c’è sempre lo spettro del licenziamento (per non dire della mobilità e del mobbing) che incombe minaccioso, annunciato da quegli ammortizzatori sociali sovente considerati l’anticamera della disoccupazione che in certi casi diventa detonatore di un malessere sociale sul quale soffia il vento della protesta plateale fine a se stessa.
Quello che più mi colpì di Simone Weil fu l’invito a non rassegnarsi mai: “
Il problema, in questo momento, è quello di sapere se, si può far sì che nell’ambiente della fabbrica gli operai contino qualcosa ed abbiano coscienza di contare qualcosa.”
Purtroppo credo manchi proprio questa consapevolezza che trasformi gli operai, i precari, i licenziati, in atomi eccitati da una legge scritta nel dna del lavoro e scateni una reazione a catena che deflagri rivoluzionando il rapporto incancrenito dalla muta sottomissione alla razza predona.
Non siamo altro che “forza lavoro” cacciata dal “paradiso terrestre” del plus valore e del capitale, numeri inflazionati di un reddito da fame a fronte di compensi fortemente sperequativi, matricole abrase di armi abusivamente impiegate per uccidere la dignità del lavoro, ingranaggi di un meccanismo complesso e infernale che gira grazie alla fatica fisica, al lavoro intellettuale, senza che il prestatore d’opera abbia la minima possibilità di controllarne l’esito finale e di giovarsi dell’eventuale ridistribuzione del reddito.
Di più, alla cieca sottomissione viene attribuito un quantum, così che costrizione e guadagno diventano le facce della stessa medaglia, solo che in assenza di una gratificazione più totalizzante, di cui scrive Simone Weil nel capitolo dedicato alla Mistica del Lavoro inserito nel libro L’ombra e la grazia:
”La costrizione implica l’oppressione del popolo...Il guadagno implica la corruzione del popolo.”

Non a caso nel “Journal d’usine”, il diario della quotidianità nell’ambiente di fabbrica, Simone annota i momenti della gioia, della stanchezza, la durezza del vivere e la rabbia che sale in corpo, ma anche la gratuità e la solidarietà che si intravede in piccoli gesti e in qualche sorriso.
Sulla reale funzione morale del lavoro, ci sono in Simone Weil delle preveggenze che possono fornire lo spunto per capire e affrontare le sfide del nostro presente e del prossimo futuro, con buona pace del cazzeggio parolaio e bacchettone che si ascolta in certi forum degli amici degli amici, animati da spirito tutt’altro che costruttivo e solidaristico a fronte di interessi lobbistici poco interessati a coniugare il Bene di tutti con il benessere di pochissimi oligarchi infatuati dal dio denaro così prossimo a quell’altro dio di cui si liberano dopo essersi comunicati quasi fosse un lassativo da assumere dopo aver fatto indigestione di opere affatto pie.
Quasi mai, a dispetto di sconvolgimento sociale, siamo riusciti a cogliere come l’avvento di nuovi modelli industriali, economici e finanziari, insieme all’imposizione di nuovi modelli di consumo massificato, andassero a incidere sui modi di vivere senza tuttavia imprimere un nuovo impulso alle dinamiche lavorative e salariali rimaste ancorate ad un sistema capitalistico che penalizza proprio i meno abbienti.

Nella Condizione Operaia, Simone Weil ricordava che ”tutta la società deve essere anzitutto costruita in modo che il lavoro non tenda a degradare coloro che lo compiono”. Sembra un’ovvietà, ma non lo è.
La nostra società ha inseguito l’illusione della ricchezza facile e ha generato lo sradicamento dei popoli dalle loro culture, ha sconvolto l’habitat naturale, ha indebolito e mercificato il riferimento al lavoro, ha messo in discussione il principio di solidarietà. Per tacere di altri Principi Fondamentali quotidianamente negati ad un’Umanità negletta dal feroce egoismo di gentaglia priva di pietas, verso la quale sarebbe bene che Nemesi volgesse la sua vindice attenzione.
Lo spirito comunitario e sociale sembra essere scaduto e catturato dagli interessi particolari, corporativi, di gruppo, di territorio, dimentichi della dimensione planetaria data dalla globalizzazione al destino di uomini imbarcati tutti sulla stessa zattera di salvataggio.

Emerge quindi l’esigenza di lasciarsi interrogare profondamente dalle nuove istanze di libertà, di giustizia e di riscatto sociale promuovendo un nuovo radicamento (altro che piani Marshall), un new deal in  si riconoscano in primo luogo le persone, le comunità, le differenze, in modo tale che l’accoglienza e il dialogo siano la nuova cifra dello stare insieme.
Vorrei tanto che quelli che parlano di respingimenti, neologismo privo della benché minima humanitas, che costituisce pur sempre l’esistenza di un portato culturale razzista e xenofobo, vedessero “Come un uomo sulla terra” un docu-film che racconta l’esodo dei migranti attraverso il deserto libico, metafora di una desolazione spirituale e mentale, in cui è precipitata anche l’Italia che non trova niente di meglio che violare diritti umani, avallare la strage degli innocenti e stringere le mani sporche di sangue di un dittatore, evitando di guardare gli occhi di quei migranti respinti in mare, forse per non vedere quella Dignità ormai introvabile nei loro, offuscati come sono dal falso perbenismo e dall’ombra dell’egoismo più cieco e bestiale.       

Così scrive Simone Weil: “Il radicamento è forse l’esigenza più importante e più misconosciuta dell’anima umana. E’ tra le più difficili a definirsi. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè impostata automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. A ogni essere umano occorrono radici multiple.” 
Altro che radici cristiane e cattoliche! Anche perché è dal frutto che si riconosce l’albero.
Per questo occorre che si vada oltre la mera dimensione dell’interesse personale e riscoprire quella del bisogno collettivo, combattendo la subordinazione, per fare largo alla Libertà, alla partecipazione e al protagonismo sociale e politico dei meno abbienti e meno tutelati. E’ necessario che nessuno sia discriminato per quello che è, per la religione che professa, per il sesso, l’etnia e la cultura che esprime.
Esattamente il contrario di quello che accade in Italia dove ognuno è apparentemente libero di elevare il corpo e lo spirito come meglio crede sfiorando le vette eccelse dell’Uomo-Dio o infangandosi nei melmosi bassifondi di una politica da baciapile che se da un lato “promuove” l’uomo dall’altro lo crocifigge.  

 
                            

 
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