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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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"NEL SENSO PIU' BANALE E IRRIMEDIABILE"

Post n°580 pubblicato il 27 Agosto 2009 da bargalla




Qualche giorno fa se n’è andata Fernanda Pivano, allieva, intima amica, musa ispiratrice, confidente e poi collega di Cesare Pavese con la quale lo scrittore piemontese intrattenne anche un’intensa relazione epistolare “censurata” dalla stessa Pivano al tempo della pubblicazione dell’epistolario di Pavese poiché sembra che lei non gradisse il giudizio espresso dal suo mentore sulla sua altolocata famiglia.
Si dice che queste lettere siano le più belle scritte da Pavese nelle quali ci sarebbe la conferma dell’innamoramento dello scrittore per l’avvenente ragazza, nonché sua allieva nella scoperta della letteratura anglo-americana, che  seppe concedergli ammirazione e amicizia, ma non l’amore sperato.
Il rapporto tra i due si consumò nel giro di pochi anni lasciando comunque un’indelebile traccia in tre mirabili poesie a lei dedicate in Lavorare stanca. Così come restano insieme alla traduzione, da parte della Pivano, dell’Antologia di Spoon River, patrocinata da Pavese, con in più, per l’appunto, le sue lettere intrise di fervido e scanzonato corteggiamento.
Restano, soprattutto, i versi che ci consegnano il profilo ideale della donna inutilmente amata.
Non ci sono ricordi su questo viso. Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia di una cavità intatta, sotto il crepuscolo
”.

Il Destino ha voluto che Fernanda se ne andasse nello stesso mese e nei giorni in cui Cesare meditava di togliersi la vita, giungendo a compiere l’estremo gesto il 27 agosto di cinquantanove anni fa.
Nulla accade per caso e questa corrispondenza d’amorosi sensi che sfida il tempo e la morte, dandosi appuntamento in un dato momento che solo a loro due dirà qualcosa, forse suggella un’amicizia (stellare direbbe Nietzsche) più forte dell’amore.
Si dice che all’origine del suicidio ci sia l’ennesima delusione sentimentale avuta da Pavese che non resse alla fine della relazione con un’attrice americana alla quale dedicò gli ultimi versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, presago di una decisione comunque maturata in lunghi anni di “malessere esistenziale” aggravato da un rapporto con le donne definite “amare come la morte”.  
Una persona a me cara, una donna dolce come la vita quando la vita sembrò essere una rosa senza spine, mi regalò “Il mestiere di vivere” il diario tenuto da Cesare Pavese dal 1935 al 1950. L’ho letto tante volte, ho scritto tante di quelle annotazioni a piè di pagina da confonderle con il testo.
Non ho mai capito perché mi regalò quel libro in particolare, forse ne comprendo il motivo se leggo quanto scrive Pavese il 3 agosto del 1937: “Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre”.   

Rott…amato come sono, chiedo venia al buon Pavese e torno a scrivere di lui, a sfogliare il suo diario, a violarne l’intimo tormento sentendomi profondamente toccato e trascinato da un’onda di estrema pietà e di commozione dinanzi alla disperante solitudine di un uomo sopraffatto dall’idea del suicidio e ucciso dalla ricerca ossessiva di una felicità inscindibilmente legata alla presenza al proprio fianco di una donna.
Iniziò a scrivere il diario da esule, confinato a Brancaleone Calabro, perché antifascista, ed è proprio in quei primi quattro foglietti di quaderno a quadretti scritti il 10 aprile 1936 che si colgono tutti quegli aspetti che poi, quasi profeticamente, caratterizzeranno l’avventura umana e spirituale di Cesare Pavese.      

“Quando un uomo è nel mio stato, non gli resta che fare l’esame di coscienza.
Non ho motivo di rifiutare la mia idea fissa che quanto  accade a un uomo è condizionato da tutto il suo passato; insomma è meritato. Evidentemente le ho fatte grosse per trovarmi a questo punto.

Anzitutto, leggerezza morale. Mi sono mai posto davvero il problema di che debbo fare secondo coscienza? Ho sempre seguito impulsi sentimentali, edonistici. Su questo non c’è dubbio.
Persino il mio misoginismo era un principio voluttuario: non volevo seccature e mi compiacevo della posa.
Quanto questa posa fosse invertebrata si è visto poi. E anche nella questione del lavoro, sono mai stato altro che un edonista?
Mi compiacevo del lavoro febbrile a scatti, sotto l’estro dell’ambizione, ma avevo paura, paura di legarmi.

Non ho mai lavorato davvero e infatti non so nessun mestiere. E si vede chiara anche un’altra magagna.
Non sono mai stato il semplice incosciente, che gode delle sue soddisfazioni e se ne infischia del resto.
Sono troppo vile per questo.
Mi sono sempre carezzato con l’illusione di sentire la vita morale, passando attimi deliziosi – è la parola giusta – a farmi dei casi di coscienza, senza decidermi di risolverli nell’azione.
Se poi non voglio dissotterrare la compiacenza che un tempo provavo nell’avvilimento morale a scopo estetico, sperandone una carriera da genio. E questo tempo non l’ho mai superato.   

Alla prova. Ora che ho raggiunto la piena abiezione morale, a che cosa penso?
Penso come sarebbe bello se quest’abiezione fosse anche materiale, avessi, per esempio, le scarpe rotte.
Soltanto così si spiega la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore.
E’ questo che mi atterrisce: il mio pensiero è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità.
Il terribile è che tutto quanto mi resta ora non basta a raddrizzarmi perché nell’identico stato – a parte i tradimenti – c’ero già stato in passato e già allora non avevo provato nessuna salvezza morale.
Nemmeno questa volta mi indurirò, è chiaro.

Eppure – o che l’infatuazione mi inganna, ma non credo – avevo trovato la via della salvezza.
E con tutta la debolezza ch’era in me, quella persona mi sapeva legare a una disciplina, a un sacrificio, col semplice dono di sé. E non credo che questa fosse la virtù di Pierino, perché il dono di lei mi alzava all’intuizione di nuovi doveri, me li rendeva corpo dinanzi. Perché abbandonato a me, ne ho fatta l’esperienza, sono certo di non riuscirci.
Fatto una carne e un destino con lei, ci sarei riuscito, ne sono altrettanto certo. Anche la mia stessa viltà: sarebbe stato un imperativo al mio fianco.
Invece, che cosa ha fatto! Forse lei non lo sa, o se lo sa non gliene importa. Ed è giusto perché lei è lei ed ha il suo passato che le traccia l’avvenire.

Ma ha fatto questo. Che io ho avuto un’avventura, durante la quale sono stato giudicato e dichiarato indegno di continuare. Davanti a questo tracollo non è assolutamente più nulla il rimpianto dell’amante che pure è così atroce, o la rovina della posizione, che pure è grave.
Si confonde, il senso di questo tracollo, con la martellata che aveva cessato di picchiarmi: via l’estetica, via le pose, via il genio, via tutte le balle; ho mai fatto qualcosa io nella vita che non fosse da fesso?
Da fesso nel senso più banale e irrimediabile, da uomo che non sa vivere, che non è cresciuto moralmente, che è vano, che si sorregge col puntello del suicidio, ma non lo commette.”

                    
Cesare Pavese, da “Il mestiere di vivere” - 10 aprile 1936 -

 

 
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