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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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IN...ATTUALE RIMEMBRARE

Post n°589 pubblicato il 20 Ottobre 2009 da bargalla

     


Una caduta di stile o di tono, non so come chiamarla, il fatto è che in “una sera d’ottobre” sono per caso inciampato nella visione di un film che mi ha fatto “ri-trovare” una parte del mio dolente passato.   
Non è da me piangermi addosso o autocompatirmi, ma ogni tanto mi capita di soggiacere a me stesso, l’umano affanno degli affetti perduti prende il sopravvento e invano rincorro le fuggevoli ore perdersi nell’implacabile scorrere del tempo.
Lascio da parte il diversamente premier con i suoi disegni eversivi e i suoi lapsus freudiani anche perché quando un sedicente statista con la storia politica e giudiziaria dell’innominato,  in odore fra l’altro di corruzione, che nell’elencazione delle sue svenevoli vanterie concettuali scambia i giudici per avvocati, dice più di quanto la voce dal sen fuggita rivela.
Rispondendo ad una domanda sul lodo alfano, il diversamente premier (per la serie come lui nessuno mai) si è definito il “più perseguitato dalla Magistratura di tutta la storia degli uomini in tutto il mondo” poiché, a suo dire, avrebbe subito più di 2500 udienze e nessuna condanna.
Mai abbastanza sufficienti da appurare la verità sull’origine delle sue “inindagabili ricchezze”!
Peccato non dica mai il motivo sotteso a quelle udienze spargendo su di esse un fumus persecutionis che solo un venditore di fumo potrebbe avvalorare stante una storia giudiziaria certo degna di un sedicente statista il quale ha testé dichiarato: “Ho la fortuna, avendo lavorato bene nel passato e avendo messo da parte un patrimonio importante, di aver potuto spendere più di 200 milioni di euro per consulenze ai giudici…
Un’autorevole conferma anche del ruolo svolto da un giudice corrotto nel lodo-mondadori che per 450 milioni di lire redasse un arbitrato molto…arbitario proprio a favore del diversamente premier.

Al diavolo il diversamente premier, le sue putinate e i suoi lacchè, vengo a noi e a te che per me continui ad essere la persona più importante al mondo. Concedimi l’illusione di parlarti ancora, lo faccio in un giorno carico di pioggia, di violenti squarci d’azzurro e di cupa malinconia, un giorno trascorso a rimuginare il passato sperando che l’eco di quel che penso giungerà a sfiorare il tuo cuore così come per gioco facevamo quando da lontano ci pensavamo l’un l’altro coltivando una corrispondenza d’amorosi sensi che ora vivo alla stregua di un naufrago in balia di travolgenti quanto effimere passioni lacerate dal vento dei ricordi e dall’amore del nulla.
Sublime per vizio estremo resti tu, musa di riferimento del mio anonimo verseggiare nel vago fruscio di pagine che scorrono fra le dita, vibrazioni della memoria, del presente inviso ai più e di un cuore rimasto da sempre in inverno.
Versi “verseggiati” rimandano a un’età lontana, mi sorprendo nel rivedermi com’ero in quel recondito nido di care sembianze sfatte e svanite.
Ogni tanto passo vicino a quella che fu casa tua, non ci abita più nessuno, eppure la mia immaginazione mi porta a vederti ancora oltre le persiane socchiuse in quella dimora divenuta metafora della mia esistenza dove aleggia sovrana la presenza di una grande assenza.

Gelido il maestrale increspa il mare e se il tuo pensiero il mio elide, attonito resto colpito dal fragore della tempesta nella vaghezza d’albe e tramonti consunti dall’ossessivo mulinare dell’immoto ricordare.
Ti cerco nelle vane sembianze di ombre fugaci, ti trovo nel cavo di una conchiglia, tumide labbra dischiuse sature d’amore e di salsedine traendomi da corte maliarda ebete ancora mi lasciano contemplare il tuo seno, pudica di ritrai negli anfratti d’umidore pregni ondoso sciabordio.

Anche se non parli, so quale nome dare al tuo silenzio, le tue labbra tremano ancora per quel mai pronunciato, ma non fartene una colpa; dopotutto anch’io ho molto da farmi perdonare e sconto la mia pena morendo di sete presso una sorgente inaridita dal rimpianto.
Restituiscimi il mio cuore, io da tempo ti ho reso il tuo, ciascuno è andato per la sua via, amanti dalla vita esiliati, ma io mi sono perso a due passi da casa quando, credendo troppo angusti i limiti del nostro amore tradito e calpestato, ho sospinto la disperazione oltre i confini di una tacita accettazione della realtà non riuscendo però a cancellare l’inganno del tempo ad un passo dal cielo…Ricordi?
Restiamo amici” mi dicesti, la tua voce anche stasera si spegne nel pianto e si confonde con la risacca.  
Se oggi dovessi definire l’amore e l’amicizia, non avrei più dubbi:
l’amore è un atto di rivolta contro l’amicizia. L’amicizia è lo stato di grazia dell’Amore; non per niente il tuo Nietzsche forse pensando a quelli come noi parlava di amicizia stellare.
Mi consola questo pensiero e l’uniforme tedio, quel monotono tedio del vivere che avanza anche perché fatalista come sono non posso fare altro che accettare la mia solitudine ritenendola parte integrante della mia vita, del mio Destino, elettiva inclinazione di un esilio accettato in quest’angolo di mondo, salutare ancoraggio nel deliquio dell’esistenza e nelle piccole dissipazioni quotidiane avvertite nel silenzio di ogni altra voce, nel vuoto di ogni altra presenza.  

Il vento si è placato, è l’ora di ammainare le vele: l’approdo è segnato dalla quieta rassegnazione.
La notte è meglio del giorno, quando beninteso il lavoro mi consente di scorgere l’alba e il tramonto, ogni altro momento, ogni altra parvenza di quella vita che già mi era sembrata irreale per troppa irrefutabile verità e bellezza, è ora riassorbita nella totalizzante consapevolezza di essa.
So che domani dovrò di nuovo levare l’ancora e riprendere la rotta segnata sulle linee delle mie mani racchiuse nel vano tentativo di fermarmi in qualche porto e modificarne il percorso evitando le vecchie insidie annotate nel mio diario di bordo in cui trovo relegate le figure amate e odiate, un triste eliso dell’autocitazione fine a se stessa e votata a sicuro oblio.
Cerco lucidamente di analizzare il nostro, il “mio naufragio” e di farmene una ragione.
Relitto di me stesso, in preda al pelago profondo, mi abbandono al mesto fluire dei ricordi, a quella che Schopenhauer definisce  beatitudine affrancata dalla volontà che spande su tutto ciò che è passato un fascino così suggestivo da presentarci quelle cose (e quelle persone) sotto una luce così favorevole che ne rimaniamo (irrimediabilmente) vittime” e lo faccio ben sapendo di risultare oltremodo patetico nel palesare un vittimismo “affrancato” da un’impreparazione di fondo, riconoscendo di non aver imparato il mestiere di vivere e l’arte di amare.
Quante volte me l’hai rimproverato?
E come avrei potuto se mi è mancata proprio la possibilità di fare quel tipo di apprendistato non avendo potuto vivere la pienezza della mia adolescenza bruciata in uno squallido seminario?
Il sospiro dei vinti e l’ingiuria dei violenti, nemici mortali privi d’oblio, d’onta e di veli…
Spesso rinchiudersi nel chiostro dei ricordi può esser più piacevole che respirare nell’attualità col rischio, al rintocco della campana dei rimpianti, di venire però giustiziati dal nostro “io” di allora e graziati dall’ego vendicativo di oggi. Da una parte l’immonda pretaglia, dall’altra Tu, estasi dell’esistenza immane.
Tanto che, come Catullo, posso fieramente dire:
Odio ed amo. Mi chiederai come faccio. Non so, ma lo sento succedere e mi tormento.”
Perdonami se mi son lasciato andare, so che mi comprenderai, dopotutto devo a te la mia redenzione.

Scogli aguzzi come spine affioranti feriscono gli sguardi di gabbiani planati in riva al chiaroscuro cielo, ritorno all’imbrunire sull’isola che sai dove maestoso s’erge il faro a rischiarare le mie notti di stelle, di fuochi fatui e di anime votate ai gorghi del dolore.
Prismi di luce scompongono la penombra della sera, la tua immagine tremula sull’acqua mi appare sfocata dai contorni di una languida nostalgia: ubiquo il suo sentire, inafferrabile presenza, memorabile, silente iterazione di quel poco che via via si dissolve e scompare oltre l’orizzonte di giorni sempre uguali.


 
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