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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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« IL LIEVITO DEI FARISEILA COERENZA NON ABITA IN... »

PUS: PARTITO UNICO SCOPO

Post n°607 pubblicato il 04 Marzo 2010 da bargalla


C’era una volta in cui la forma e il contenuto erano elementi imprescindibili di un metro di giudizio che determinava l’oggettiva valutazione di qualsivoglia elemento, anche del più astratto come può essere, ad esempio, un articolo di legge che, in quanto parametro, fornisce le coordinate alle quali ognuno deve attenersi per garantire a tutti l’effettivo esercizio di una libertà che è tale solo quando non limita quella degli altri abusando di un potere usurpato proprio con la prevaricante violazione della forma e del contenuto delle più elementari regole di quella che, con un eufemismo, taluni chiamano democrazia.
In tempi di maleducazione civica è inevitabile perdere il rispetto delle regole, la misura di tutte le cose, dell’Etica stessa e del buon senso, di quell’ortografia dei diritti e dei doveri che porta certi inqualificabili soloni a riformare l’idea stessa di Stato: entità populista senza più identità popolare servilmente assoggettata alla legge del più forte, del più spregiudicato fra gli autocrati, il quale per difendere i suoi interessi scende in campo, assolda un esercito di scherani e di legulei, fonda il pus: partito unico scopo, avendo come fine esclusivo proprio quello di legiferare pro domo sua.

Assisto schifato alla perdurante “burlesconizzazione” della politica da parte di chi si fa burla dello Stato giocando una spregevole gara di oscenità sulla pelle del popolo bue; sento parlare di “vulnus” proprio dai sicari dello Stato di Diritto, da quelli che continuano a ledere e a ferire, forse mortalmente, una Res Publica infettata dall’interesse privato, piagata dal bubbone della corruzione, defedata dall’ambizione smodata di un ceto politico arruffone, crapulone e parassitario che disprezza con somma cialtroneria le regole basilari e i Princìpi Costituzionali avendo, ahimè, la presunzione di “riformare” uno Stato non più Nazione né Patria, laddove l’Una e l’Altra sono state svilite dalle spinte secessioniste di eversori legaioli e dalle mire affariste di cricche dedite al ladrocinio e votate al più bieco e malvagio guadagno a buon mercato. Nella patria del puttanesimo, nella sempiterna Italia dei furbi e dei servi, tutto ha un prezzo!
Partiti per la tangente: il do ut des segue il voto di scambio, la dazione in denaro e quella in natura.

Forse è ancora vero che in democrazia (in quel poco che in Italia ancora resta) si possono ingannare tutti per un certo tempo e qualcuno per sempre, ma non si possono imbrogliare tutti per sempre, come sosteneva un Padre della Democrazia, quando la Democrazia era solo una promessa. Purtroppo in mancanza di una diffusa cultura civile, di un’inesistente consapevolezza partecipativa e popolare, come accade oggi in Italia, c’è chi approfitta del qualunquismo plebeista e si compiace dei belati del consenso populista; c’è chi cavalca da par suo l’ignavia italiota e fomenta la crassa ignoranza mediata da vacui omuncoli e pennivendoli teleguidati, continuando ad ingannare a tempo indeterminato una maggioranza potenziale di elettori abbastanza solida (e stolta) da consentire ai meneurs di turno di decidere a loro piacimento la forma e il contenuto dello Stato, un vuoto a perdere in balia di lobby e camarille che partendo da insulsi piani di “rinascita democratica” sono giunti alla deriva assolutista del regime mediatico.
Che dire di certi emeriti palafrenieri elevati al rango di “direttore” di testate giornalistiche, faziosi fino al servilismo più becero, compiacenti fino all’adulazione, che per assecondare i piani eversivi dell’editore di riferimento cancellano i fatti e confondono la prescrizione con l’assoluzione?
Scodinzolini è l’indovinato epiteto di uno di loro il quale, in omaggio all’attributo avuto in dono, dovrebbe almeno una volta riservarsi un resipiscente colpo di coda facendo suo il motto di Henry Louis Mencken:
Il rapporto tra un giornalista e il potere dev’essere quello che c’è fra un lampione e un cane.”    

L’altra sera al posto di Ballarò è andato in onda un programma della Grande Storia, un documentario che analizzava la nascita e la morte del fascismo, il titolo non poteva essere che “Dittatura”.
Inevitabile il paragone con l’attualità, gli spunti di riflessione sono tanti, a cominciare dalla mordacchia messa alla libera stampa per finire alla legge elettorale vigente, una porcata di truffa legalizzata, al cui confronto la legge-acerbo sembra quasi “costituzionale”. La stessa “aggressione” al ducetto in Piazza Duomo, sembra fare il verso agli attentati contro mussolini e diventa un miserabile pretesto per inaugurare una nuova stagione politica, quella delle riforme condivise in cui, a sentire i servi e i leccaculo di silvio, neppure la sedicente opposizione dovrebbe potersi esimere dall’approvare senza batter ciglio un’ondata di “leggi berlusconosissime” così come un’ottantina di anni fa gli attentati al “presidente del gran consiglio” furono un ulteriore, miserabile pretesto per introdurre “leggi fascistissime”.
I tempi però sono profondamente cambiati: se un tempo si intendeva restaurare con le maniere forti il volto arcigno e preilluministico del potere contro le pretese individualistiche della “imbelle Italietta” liberale, oggi è in nome del soffocante abbraccio offerto dal “partito dell’amore” che i supposti oppositori sono invitati dai bondi schifani e dai verdini bonaiuti a ravvedersi, a porgere il podice e l’altra guancia e a unirsi in una solidale riscrittura delle regole politiche (dimenticando la forma e la sostanza) a salvaguardia e a misura di un satrapo, secondo solo ai capi dei regimi del comunismo reale in quanto a concentrazione di poteri economici, politici e mediatici accentrati nelle proprie mani.
Il guaio è che ci sono cascati, vero massimo? Come si fa a dar credito a simile gentaglia?

L’ismo derivato dal patronimico dell’innominato è ora incultura di massa, degenerazione dell’etica pubblica, calpestamento dello Stato di Diritto, cieco asservimento al clericalismo e alle pretese delle gerarchie cattoliche, bacillo che ha infettato anche le mele (marce) della cosiddetta opposizione.
Un’opposizione di panna smontata, rancida e “gelatinosa” tanto quanto basta per mutuare dal sistema delle corruttele non solo moduli organizzativi e subalterni propri dei comitati d’affari (abbiamo una banca, ricordate?) ma anche quella totale estraneità alla democrazia liberale che alcuni vedono come fumo negli occhi. Non c’è neppure molto da stupirsi se alcuni fra i più chiacchierati maggiorenti del partito cosiddetto “democratico” ne hanno assorbito l’assenza di senso storico ripudiando gli antichi ideali, la tiepidezza con cui affrontano la “quistione” (direbbe Gramsci) morale e, perfino, un’analoga propensione all’occupazione estensiva della cosa pubblica e alla pedissequa identificazione fra mala-politica e malaffare.   
Una classe politica “fatta”, drogata dal senso di casta in cui destra e sinistra per me pari son e tale assimilazione da overdose dell’impunità è ancor più omogeneizzata dal coinvolgimento in pesanti fatti di corruzione che rendono gli uni e gli altri tutti uniti appassionatamente nel difendersi da accuse che se fossero rivolte ad un ladro di polli, questi andrebbe diritto in galera, mentre loro fanno carriera come se la propensione a delinquere in guanti bianchi fornisse il lasciapassare per scalare le vette del potere mai fine a se stesso. Tanto per dire, tanto per restare nella più stretta attualità, bisogna essere “riciclatore prima che senatore” e per uno che si fa beccare con le mani nel sacco, tanti altri onorevoli avanzi di galera la fanno franca continuando a fare quello che hanno sempre fatto: corrompere, concutere, rubare e legiferare.

Si riciclano in un sol colpo due miliardi di euro sporchi come se fossero bruscolini: quattromila miliardi di vecchie lire; mentre c’è anche chi dall’alto delle sue “inindagabili ricchezze” in un anno guadagna (faccio per dire) un miliardo di euro (duemila miliardi di vecchie lire) in barba ad ogni conflitto d’interessi e senza nemmeno sprecare una goccia di sudore. Tassassero almeno le rendite finanziarie!
Tanto per gradire ci sono pure i “milioni” di nome, ma forse non di fatto che, per conservare la media di tanti zeri in condotta, non riescono nemmeno a rispettare le scadenze burocratiche; come dire: da una parte i furbi che evadono anche il fisco, dall’altra i servi che non riescono neppure a fare i galoppini di partito non riuscendo a presentare in tempo utile le liste elettorali.
Non solo, lungi dal riconoscere la loro cafonesca sciatteria (sulle responsabilità è meglio stendere il classico velo pietoso del mediocre pressapochismo) si aggrappano miseramente alle ragnatele e gridano al complotto se qualcuno osa richiamarli perfino al rispetto della forma e del contenuto. Come se tutto fosse loro dovuto in ragione di una “maggioranza” che cavalca i cavilli del capo, salvo poi imbizzarrirsi dinanzi agli “orpelli” della forma e al merito del contenuto.
La cultura dell’illegalità oltre che bearsi dell’ignoranza, si pasce anche dell’arroganza!
Tutti quegli “zeri” in onestà e legalità fanno vorticare le rotanti sfere, eppure non riescono a far girare le  palle eoliche così tanto da alimentare la lotta all’illegalità diffusa. Troppo comodo prendersela con i ladri di polli, con gli extracomunitari e con gli zingari! Lor signori così facendo danno l’impressione di combattere la criminalità e, nel contempo, strizzano l’occhio alle cupole, alle caste, alle camarille infarcite di politici cleptocrati e corrotti, di evasori scudati pronta cassa, di truffatori e di bancarottieri: imbonitori, finti statisti d’un infimo stato, specialisti in paradisi fiscali, dottori in malversazione, falso e peculato.

Nella classifica 2009 dell’onestà pubblica redatta da “Transparency International” l’Italia, nazione infetta e putrefatta dal Pus del malaffare, ha avuto la forza di sprofondare ancora di più dal 55° al 63° posto con un voto che è passato da un pessimo 4,8 ad un ulteriore pessimo 4,3 superando finanche il Botswana.
E questo non fa altro che dimostrare la pratica fondatezza di un aforisma di Oscar Wilde secondo cui “Ci sono persone che quando toccano il fondo, cominciano a scavare”. Urge a tal proposito ricordare una sentenza lapidaria scolpita a mo’ di epigrafe da Indro Montanelli sulla pietra tombale di un’italietta asfissiata dai miasmi del potere:“L’Italia berlusconiana è la peggiore delle Italie che ho mai visto per volgarità e bassezza…Il berlusconismo è la feccia che risale il pozzo.”
Contentissime le pantegane e i topi di fogna berlusconiani che s’ingozzano degli abusi di potere e squittiscono giulivi in mezzo a cotanta immondizia istituzionale senza provare il minimo schifo.
In questo, danno inconsapevolmente ragione ad un altro Padre della Patria, Norberto Bobbio: “Solo il tiranno platonico può compiere pubblicamente anche quegli atti immondi che il privato cittadino compie di nascosto o, avendoli repressi, si abbandona a compierli soltanto in sogno”.
Già, perché solo sotto la tirannide l’accentratore del potere può sottrarsi al giudizio non riuscendo più a cogliere il limite che c’è fra il lecito e l’illecito, solo per il tiranno “pubblico e privato coincidono in quanto gli affari dello Stato sono i suoi affari e viceversa”.
Quando tutto questo sarà finito, quando l’Italia si riavrà dal torpore berlusconiano spero solo che qualcuno provi almeno un po’ di vergogna. Faccio mia l'amara riflessione del Leopardi che nello Zibaldone scriveva: “Se noi vogliamo risvegliarci una volta e riprendere lo spirito di Nazione, il nostro primo moto dev’essere non la superbia né la stima delle cose presenti, ma la vergogna”.      

      
 

 
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