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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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« ALICE NELLA CHIESA DEI L...MORALE DELLA FAVOLA »

COMES FIDA

Post n°613 pubblicato il 24 Aprile 2010 da bargalla

                             


Isolarsi da tutto e da tutti, ignorare per quanto possibile le res gestae dei politicanti  italioti e dei barbari legaioli, considerare un’offesa per le trote l’essere associate al rampollo tontolone di un “ministro” spergiuro ed eversore al quale difetta il senso dello Stato: un deficit civico (e/o costituzionale) riscontrabilissimo nel resto di una compagine governativa, portatrice sana e malata di inconfessabili e sporchi interessi la cui nefasta portata, seppure nota ai più avveduti, viene inspiegabilmente avallata dall’accidia del popolo bue e dalla complicità di una classe dirigente incancrenita dal centralismo carismatico, spudoratamente autoreferenziale, infarcita di oligarchie politico-mafiose e di caste parassitarie clerico-lobbiste dedite al culto del malaffare e della sistematica sopraffazione del più debole.
Meglio rifugiarsi nei Classici, veri fari di saggezza e di universale conoscenza, mantenendo viva la tensione emotiva suscitata dai recenti casi di abusi sessuali compiuti su minori che i gerarchi catto-vaticani, collusi con i preti pedofili, vorrebbero invece scemare indicendo per il prossimo 16 maggio la giornata del papa-day: roba da culto della personalità che peraltro ben s’addice ad una setta di squallidi personaggi che hanno fatto dell’ipocrisia la loro ragion d’essere. Nessuna meraviglia trovare accanto al clericalume imperante il fariseume trionfante, la rancida crema di un Paese in disfacimento: il mefitico olezzo berlusconiano che esala dalle discariche istituzionali del potere inquinato anche dalle solfuree cloache papali, impone una ventata di aria fresca.

Il salubre fruscio di pagine che sfidano i secoli  mi dice, per esempio, che i preti all’inizio non tutti erano propriamente misogini, ma strada facendo ben presto lo diventarono e, a ogni piè sospinto manifestarono un’insofferenza sempre più grande verso l’altra metà del cielo fino al punto da accentuare una differenza di genere che rasenta l’intolleranza o, se volete, il maschilismo più innaturale e sessista tanto da ridurre la figura femminile ad ancella o, se preferite, a corredentrice di un’umanità teologicamente ancorata alla visione patriarcale di un clero che continua a dare la caccia alle streghe sovente assimilate al peccato e alla perdizione. Sarebbe più naturale “perdersi” e sciogliersi fra le braccia di una donna, come facevano i preti delle origini, oppure incappare nei lacci di un celibato che nel precludere i sani piaceri della carne spalanca le porte del malessere esistenziale sugli abissi della devianza comportamentale?
Scandalizza di più un sacerdote sposato o un prete pedofilo?
Lascio cadere questi interrogativi pleonastici, confortato dalla lettura di un libro che, come tutti i Classici, noti e sconosciuti, porta in sé l’impronta di un’immota e secolare attualità resa ancor più cogente dalle turpitudini clericali di una cronaca che è sotto gli occhi di tutti.
Bisogna arrivare fino all’ultimo verso per apprezzare la “novità” di un poemetto che sembra scritto per i preti di oggi da un sacerdote di ieri, Prospero d’Aquitania, poeta e teologo del V secolo, il quale, titola per l’appunto “alla sua sposa” un compendio di teologia e di vita vissuta accanto alla donna che ama; uno scritto di una modernità inconsueta data la perdurante tradizione misogina e il clima sessuofobico sempre più condizionato dai veti fondamentalisti e dalle incontinenti depravazioni dalla setta catto-vaticana.  

Dopo quasi cento versi dedicati all’elogio di una vita pia e cristiana tesa alla compenetrazione con Dio e con la sua chiesa, Prospero si rivolge direttamente alla sua donna, incitandola quale “fedele compagna” a prepararsi alla “battaglia” per meritare il premio finale.
Le dice: “Tu che Dio diede in aiuto a me, troppo debole, piena di sollecitudine, frenami se mi esalto, confortami se sono addolorato” e prosegue esortandola a dare “con reciproco scambio” e ad essere come un angelo “custode del tuo custode”. Un’immagine bellissima che per estensione mi riporta alla mente quel detto secondo cui non si vola con un’ala sola, metafora di un Amore vissuto a metà che non potrà mai essere totalizzante.
E ancora: “aiutami a rialzarmi se cado, a risollevarmi con la tua capacità di consolarmi”. Conclude: “perché noi non solo abbiamo la medesima carne, ma anche la stessa mente e un solo spirito ne nutre due”. Sono versi che suonano modernamente “eclatanti” per la mentalità pretesca dei nostri giorni perché rovesciano il cliché della donna invalso in certa ortodossia patristica concedendole un ruolo paritario e di reciprocità con l’uomo, addirittura adottando una terminologia “militaresca” (comes, compagna, al posto di  uxor o coniux) e attribuendole virtù erroneamente considerate di esclusiva pertinenza del genere maschile: intelligenza, forza, coraggio.
Compagna, proprio come si suole chiamare adesso la donna che vive more uxorio con un uomo non sposato con gran dispetto del clericalume imperante che parla di indissolubilità del sacramento del matrimonio, vieta la comunione ai divorziati e poi permette che al campione dell’ipocrisia italiota, sol perché si chiama berlusconi silvio, venga offerto in diretta televisiva “il corpo di Cristo”.
Si fosse rivelato per lui indigesto (il corpo di Cristo, intendo) forse a quest’ora avrei rivisto la mie convinzioni in tema di Eucaristia e transustanziazione. I sofismi “ex ante” di tale fisichella, di professione prelato della chiesa dei papi, sono delle stupide astrusità degne del peggiore bizantinismo clericale.    
Il grottesco nel tragico (uno, silvio intendo,) che si fa burla di un funerale e ruba la scena al protagonista si commenta da solo e merita soltanto il massimo disprezzo. Altro che comunione, ex ante!

Tornando alla muliebre concezione di Prospero c’è da rilevare che siamo distanti, e di molto, dai toni generalmente misogini e sessuofobici di molti cosiddetti “padri” della chiesa. Uno di loro, Origene, arrivò perfino ad evirarsi tagliando alla radice l’eventuale strumento del peccato. E l’hanno fatto pure santo!
Condivido l’argomentare di Stefania Santelia, che questo poemetto “Ad coniugem suam” di Prospero di Aquitania ha recentemente editato, corredandolo di prefazione, traduzione e note. La curatrice del volume, docente di Letteratura tardo-antica dell’Università di Bari, continua così la sua proficua ricerca nella letteratura latina del IV-VI secolo, privilegiando in particolare la sfera femminile nel solco di un impegno letterario che anni fa la portò a presentare “Per amare Eucheria” un breve testo di sedici distici elegiaci, scritti da una sconosciuta, ma raffinata poetessa della Gallia romana che conteneva, anch’essa nei versi conclusivi, il succo arguto e amaro di una poesia ispirata da un amore non corrisposto.

Dunque, la comes fida, la fedele compagna di lotta e di vita del teologo Prospero, pur vivendo nel silenzio e nell’anonimato (difatti il suo nome resta del tutto ignoto) si stacca dal pregiudizio che annoverava tutte le donne sotto l’infido segno di Eva, la prima tentatrice. Tertulliano, uno scriba integralista d’antan, che forse aveva qualche conto in sospeso con l’altra metà del cielo, definisce la donna “porta del demonio”.
Una definizione “sposata” nei secoli dalla gerarchia ecclesiastica che non ha fatto nulla per correggere tale oscenità concettuale coltivando una caccia alle streghe che parte dalla Maddalena, passa da Ipazia e arriva ai giorni nostri con certe prese di posizione, da santa inquisizione, degne del malleus maleficarum. 
Pagano ancora dazio a Paolo di Tarso e ad Agostino d’Ippona, continuando a teorizzare l’esistenza di un “ordo rerum” in cui la donna è sottomessa all’uomo e definisce la moglie ancilla del marito, considerato spudoratamente dominus.
Sfruttamento allo stato puro di una condizione di sottomissione propugnata dalla religio hominis!

Nato verosimilmente nel 390, la figura di Prospero d’Aquitania negli ultimi anni è emersa dalla penombra in cui sono confinati certi “autori” ritenuti minori o addirittura scomodi; anche se all’epoca in cui visse, il Nostro occupò un posto di rilievo nella curia pontificia essendo “notarius” di Leone Magno, il papa che fermò Attila. Non ci sono più i papi di una volta! Ora i barbari bivaccano in quel di Roma senza suscitare la minima reazione di chi pure avrebbe dalla sua una presunta autorità morale da far valere in toto e non solo quando sono in gioco i valori non negoziabili offerti in garanzia in cambio di leggi ad ecclesiam. 
Sue opere certe sono il De Providentia Dei e il Liber Epigrammatur  (che la curatrice acclude in coda al volume traducendo le variazioni liriche su frasi agostiniane).
Prospero dovette scrivere il poema sotto la forte impressione del declino della Gallia: nel 406 un’orda di barbari invade la provincia romana approfittando della spessa coltre di ghiaccio che copriva il fiume Reno.
Devastazione ambientale e declino morale, scenari da fine del mondo impressionano da sempre le menti degli intellettuali e li inducono a ritenere imminente il giorno del redde rationem.
Guerre, epidemie, fame e mutamenti climatici capricciosi (“algore, calore”) con il carico di morte e infelicità si riversano fatalmente anche nell’opera di Prospero.
Unico rifugio a tutto questo per un teologo resta la speranza in Gesù, in cui fortificarsi non da solo, ma insieme alla fedele compagna. Dichiarare di essere con lei una cosa sola, non solo nello spirito, ma anche nella carne è un tocco di delicatezza e di amore, ben lontano dalla concezione imperante che attribuiva e attribuisce alla “carne” una fragilità e una debolezza da controllare e reprimere.

Se l’uomo Gesù aveva dichiarato che “la carne è debole” soggiacendo secondo gli apocrifi a quel tipo di “tentazione” i suoi sedicenti “rappresentanti” in terra inventarono la castrante castità e stabilirono non senza una punta di perversione che “il corpo delle donne è più debole”.  
Forte di tale inverecondo becerume c’è chi continua ad alimentare tale credenza riuscendo a ritagliarsi anche un’assurda aura di “santità” professando l’unica religione universale che consente a questi lenoni di sfruttare impunemente gli uomini e le donne: il puttanesimo; con tutto quel che comporta il dare un prezzo ad ogni cosa pur di soddisfare ambizioni smodate, egoismi, sete di potere e a dis…prezzare perfino Dio usato come specchietto per gli allocchi da un branco di lupi travestiti da agnelli i quali nello spargere a piene mani l’oppio dei popoli amano circondarsi di farisei, pederasti, prosseneti e magnaccia e poiché, parafrasando Goya, il sonno della religione non può che generare dei mostri, ecco spiegato perché il trono e l’altare copulano contro natura trovando in tale perversa complicità un modo molto redditizio per fare i propri porci comodi e continuare, indisturbati, su fronti opposti a fottere il prossimo.    
 

 
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