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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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SUDITUDINE: UN LIMITE AL TANTO PEGGIO QUOTIDIANO

Post n°615 pubblicato il 16 Maggio 2010 da bargalla




Più passa invano il tempo e più mi domando se ha senso ancora dar corpo ai fantasmi di ieri, al disagio interiore di oggi annotando a piè di pagina di giorni sempre uguali le dissonanti note di un’asfittica realtà da incubo vissuta ai margini di una società che non sento più mia; votarsi quindi al qualunquismo, rassegnarsi all’emarginazione (non solo geografica!) data dal disimpegno politico e culturale: fare come un eremita che rinuncia a sé, direbbe il buon Battiato o magari sperare almeno in un salutare risveglio delle coscienze intorpidite dal regime clerico-mediatico senza assistere con passiva rassegnazione all’inevitabile esaltazione del clericalume imperante e del fariseume trionfante, all’apoteosi della disonestà elevata a sistema e precetto nella satrapia di berlusconi e nel regno dell’ipocrisia papale, manifestando con un flatus vocis sdegno e indignazione dinanzi al perdurare di una situazione sempre più ammorbata dalla mala-etica degli infingimenti e incancrenita dall’emersione di corruttele e di illegalità diffuse.

L’acqua di sentina decanta lasciando trasparire il fondo melmoso di un malgoverno retto e sorretto da un comitato d’affari e da cupole mafiose: stato e antistato, zone grigie, strategie della tensione, disegni eversivi e torsioni integraliste, disinformazione e propaganda istituzionale, servizi segreti deviati, stragi di Stato coperte dal segreto, attentati all’Unità nazionale cucinati in salsa federal-affarista nella bassa cucina berlusconiana da ministri spergiuri e spregiudicati con la servile complicità di altri indefinibili maggiorenti e boiardi di stato molto sensibili ad essere “comprati” e pertanto degni solo del massimo dis…prezzo.
In altri periodi, penso ai cosiddetti anni di piombo, per molto meno, ci fu gente che finì in galera.
Ora i riconosciuti teorici della secessione che  oltraggiano il Tricolore e l’Italia come Nazione, cricche, camarille e confraternite bivaccano in un parlamento infettato dagli untori della malversazione, divenuto foro boario e lupanare, si fanno chiamare onorevoli e senatori e, per ironia della sorte, dettano legge.
Povera Patria, canta il buon Battiato; quanti inutili buffoni ci tocca mantenere e sopportare! 

Un limite al peggio mi viene offerto dalla mia suditudine, un misto di mansuetudine, rabbia, orgoglio e dolce malinconia (forse impotenza, atavica rassegnazione, mai sudditanza) che scatena sentimenti e stati d’animo contrastanti fra loro, specie quando sento certi soloni razzisti, corrotti e intolleranti, sproloquiare di legalità, di riforme, di clandestini, di emigranti e di extracomunitari, di meridionali e di terroni.
Nel compatire i nuovi barbari acquartierati nei clan politici e malavitosi e oltre la linea gotica in difesa di interessi criminali e di un territorio impossibile da considerare alla stregua di una Patria (per la quale hanno pure dato il sangue e la vita intere generazioni di Meridionali) non posso non odiare cordialmente il partito dell’amor proprio e quello della libertà di delinquere in guanti bianchi, non posso anch’io chiedermi “per quale strana alchimia” si debba concedere all’innominato, alle cupole clerico-mafiose che gli tengono bordone e alla sua corte di criminali incalliti e miracolati, l’usbergo degli “arcana imperi”.
Inutile ribadire che sogno un risveglio delle coscienze, una democratica sollevazione popolare che dia il benservito a siffatta gentaglia che si arroga perfino il diritto di voler passare per moralizzatrice dopo che ha fatto del malaffare la sua ragion d’essere. Come affidare all’assassino il compito di trovare il colpevole!

Non vale più la pena leggere i giornali, la disinformazione è il pane quotidiano dei mass media, basta vedere quel che ammannisce ogni sera il telegiornale minzo-mingente servile encomio per avere la conferma della faziosità e dell’assenza di senso critico di certi megafoni della voce del padrone, adusi solo a leccare il culo al potente di turno e a obbedir tacendo: meglio non sapere quel che accade o cercarsi da soli le notizie nel mare magnum della rete, anche perché trovo a dir poco incomprensibile che il popolo bue subisca angherie e quant’atro senza che abbia neanche più la voglia di protestare nemmeno dinanzi alla prospettiva dei soliti tagli che già s’annunciano iniqui e scellerati (come chi li fa) nello Stato sociale trasformato in macelleria dove, parafrasando lo slogan di presentazione dell’ultimo Robin Hood, gli agnelli vengono sgozzati prima di poter sognare di diventare leoni.
Definire malgoverno un esecutivo che prende ai poveri per dare ai ricchi, è un eufemismo specie se invece di tassare le rendite finanziarie taglia la spesa sociale, specie se invece di combattere l’evasione fiscale regala uno scudo agli evasori.

Non mi resta che estraniarmi in quest’angolo di mondo in cui ogni tanto stacco letteralmente la spina, mi isolo ascoltando le voci di Madre Natura, raccolgo frammenti di storia, d’amore e di terra, riverberi accecanti di un sapere e di un’ospitalità solidale derivante da un passato insuperato intriso di civiltà.
Chi arriva per la prima volta da queste parti dice che qui la luce ha un non so che d’indefinito, una lunghezza d’onda che dà al bianco la sfumatura dell’infinito in cui ogni altro colore si sublima.
Ci sarà pure un motivo se fior di registi scelgono il Salento come ideale location per i loro film!
Azzurro, turchese, verde, oro. I colori del cielo, del mare, dell’ulivo e del sole lasciano stupefatti nell’abbagliante nitore del giorno. Resto a lungo ad osservare l’orizzonte senza pensare a niente, una sensazione di leggerezza mi porta lontano dalle usate cose dove la mente vaga senza fratture fra il vissuto di ieri e dell’oggi, tra il tempo delle ninfe e dei fauni, dei miti e delle leggende, e il vacuo tempo presente caduto nella rete del nulla rappresentato dall’egolatria più esasperata che inaridisce l’anima.

Non pozzo nascosto alla vista dall’inestricabile capelvenere d’umidore pregno
, così come scrivevo in versi intrisi d’adolescenziale mestizia, da cui semplicemente attingere quando l’arsura screpola il cuore e la mente, ma fonte inesauribile che tracima oltre l’orizzonte sbrecciato dai ricordi, la memoria deborda silente, produce eccedenze di echi e di significato ai piedi di un faro che guarda verso l’Ellade.
Personaggi e luoghi del mito si embricano ai volti, alle cose, ai suoni, agli eventi di oggi e di ieri.
Cerco gli antichi riflessi nell’abbacinante tempo presente, nella quieta risacca e nel fragore del mare che schiuma rabbia spruzzando di salsedine le pagine di libri che s’aprono offrendomi una saggezza antica: leggo e rileggo i classici, l’Anonimo del Sublime mi ispira con i suoi canoni di bellezza stilistica.
Ascolto il mare e il vento, la mitica arpa eolica vibra scuotendo la fitta trama di un’immaginaria ragnatela che imbriglia la vita e dona la morte: l’ineluttabile parabola segnata dall’alfa e dall’omega.   
Aracne, tessitrice abilissima fino al punto da sfidare Minerva, è trasformata in ragno dalla dea irata.
Magica osmosi, metamorfosi danzante di Donna e Natura al ritmo meridiano di ancestrali “tarante”.

Vortica paziente intorno alla macina una mula bendata, la sua campanella squilla nel buio di un frantoio ipogeo. Mi sembra quasi di vedere le anime dei miei avi in quel purgatorio scavato nei visceri della terra: una ciurma di pescatori e marinai che d’inverno diventavano “trappitari” ai comandi di un nostromo all’occorrenza “nachiru” mette in azione a forza di braccia, i possenti torchi da cui sgorga l’olio, alimento e medicamento, una ricchezza da barattare con altri frutti del mare e della terra.
Pescatori, contadini, briganti e pastori ribelli, protagonisti rabbiosi e ingenui di un’epopea della fame, sono schiacciati dalla brutale repressione dei padroni e dei latifondisti. Unica prospettiva: l’emigrazione.
Sud amaro, per alcuni ancora suolo di etnie dall’anello al naso, palla al piede di un Nord dallo sguardo acre e intollerante che, nella migliore delle ipotesi, chiude gli occhi per non vedere che nelle orribili trincee del Carso e in ciò che resta dell’Unità Nazionale e dello sviluppo industriale (abilmente sfruttato dai cosiddetti “padani”) è disperso un popolo di cui ci si ricorda solo quando diventa schiavo, carne da voto e da macello.   
La sua impronta, a dispetto dei tanti ricchi cristi sciocchi e benpensanti che si fermano schifati ad Eboli, pensando che forse il de finibus terrae è un non luogo a procedere, perdura però negli archetipi trulli a “mandala” tondeggianti, nelle interminabili filiere di muretti a secco delimitanti stradine di terra battuta, nelle bianche casette tufacee, tra tenaci fichidindia e capperi fioriti che attecchiscono e crescono vigorosi proprio dove nessun'altra pianta (della rigogliosa flora “padana”) riuscirebbe a farlo. 
Fuor di metafora: architettura della precarietà e della sussistenza, ma anche della dignità e dell’ingegno.
Tanto da suscitare ammirazione e apprezzamento in Carlo Ulisse De Salis Marschlins, che visitando nel 1789 l’ultimo lembo del Salento così scriveva: “Per quanto disagiata l’escursione, a causa della strada, fummo ben ricompensati dalla bellezza del sito, fra i più belli che esistono; non tanto per quello che ci può essere di romantico e di suggestivo in quell’estremo punto d’Italia in cui ci si trova quanto perché, invece di una roccia quasi nuda, quale voi l’aspettate, vi trovate dinanzi a una terra coltivata come un giardino e seminata fitto fitto da villaggi e borgate, i cui abitanti, forti e benvestiti contadini, hanno lo stampo della probità e del valore”. (da Viaggio nel Regno di Napoli)

Ethos ancestrale e utopia del riscatto: forse non c’è più traccia di tutto ciò nelle cattedrali costruite nel deserto di uno sviluppo senza anima che ha prodotto solo disoccupazione, inquinamento ed emigrazione. 
Fondata sul presupposto capitalista, fragile e inadeguato, dell’uomo egoista, l’economia del falso benessere e dello spreco, il consumismo liberista, genera squilibri e ingiustizie.
Non si tratta di enunciare precetti assoluti, di fatto inapplicabili nella pratica (tangentopoli docet) quanto di ricomporre una consapevolezza etica, abitudini morali trasparenti nella gestione del “Bene Comune” oltrepassando tanto gli interessi di bottega, le derive populiste del cosiddetto “governo del fare” quanto le valutazioni riduttive sui moventi dell’agire: il rubare per sé e non per il partito, come se la cosa fosse “moralmente” più accettabile.
Le motivazioni dell’agire umano sono complesse, a maggior ragione quello politico, influenzato com’è da variabili border-line; vari perciò devono essere i livelli di analisi ivi compresi i rimandi a certo salutare giacobinismo specie in un’ottica rinnovata di crescita e di sviluppo, giacché se non c’è giustizia non ci può essere neanche riscatto sociale.
L’individuo teso alla realizzazione del proprio utile non ha niente di umano, la ricerca del massimo interesse materiale è un dato più etologico che antropologico, l’homo homini lupus è destinato anch’egli a trovarne un altro più lupo di lui a meno che l’appagamento di ciascuno non sia correlato a quello di tutti, alle esperienze, alle capacità, ai progetti e alle speranze di ognuno.
Ritorna, come un mantra, la “spes ultima dea” la cartesiana “disposizione dell’anima a persuadersi che ciò che si desidera avverrà”.
Anche se poi quasi mai ciò accade.  


        


 
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