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Post n°615 pubblicato il 21 Agosto 2011 da antonio.gambini
 

La magia di Leopardi

 

La magia di Leopardi

 

di ROBERT POGUE HARRISON

da ''The New York Review Of Book''

GIACOMO LEOPARDI, Canti, translated from the Italian and annotated by Jonathan Galassi, New York, Farrar, Straus and Giroux, pp. 498, $ 35,00

Letteratura: una nuova edizione americana dei Canti di Leopardi è recentemente uscita in America. Ma come è possibile tradurre in un’altra lingua una poesia così musicale e profonda come quella del poeta di Recanati? Un’analisi delle difficoltà di traduzione dei testi è integrata da una ricerca approfondita sulla vita e sulla poetica di Leopardi.

Giacomo Leopardi (1798-1837) soffrì di molti disturbi nel corso della sua infelice esistenza1 – asma, scoliosi, oftalmia, stitichezza, idropisia e depressione, per citarne alcuni –, ma l’insonnia è quello più strettamente associato al suo genio. Mentre tutti dormivano nella sua città natale, il piccolo borgo di Recanati, Leopardi rimaneva sveglio a leggere, scrivere, tradurre o fantasticare. Come figlio primogenito di un conte, poteva pretendere che i domestici di famiglia, nonostante la loro rabbia, gli servissero la prima colazione nel pomeriggio e il pranzo a mezzanotte. Mai in pari con i ritmi diurni del resto del mondo, era, nel miglior senso nietzschiano del termine, “inattuale”.

Leopardi trascorse la giovinezza tra gli antichi, in una delle più grandi biblioteche private d’Europa: quella di suo padre. Quando gli altri bambini della sua età ancora recitavano i tempi dei verbi, lui già padroneggiava la lingua latina e aveva imparato il greco da autodidatta, leggendo in ordine cronologico tutte le opere di autori greci trovate sugli scaffali del padre. A sedici anni presentò al padre un’opera filologica sulla vita di Plotino, con traduzione latina e commento. Nello stesso anno elaborò un commentario sui retori del II secolo dopo Cristo e poco tempo dopo imparò l’ebraico per leggere la Bibbia senza mediazioni. L’elenco delle sue traduzioni e dei suoi commentari giovanili fa tremare i polsi. Se, nei primi anni dell’adolescenza, non avesse compromesso la sua vista e sviluppato una deviazione della spina dorsale come risultato del troppo tempo speso a studiare ricurvo sui testi, la filologia avrebbe guadagnato un grande genio, mentre la storia letteraria molto probabilmente avrebbe perso un sommo poeta.

Oltre che la filologia, Leopardi studiava assiduamente e in maniera frenetica anche le opere in poesia e in prosa dei maestri italiani. Imparò inoltre la scienza moderna e il pensiero illuminista, indagò a fondo l’astronomia post-copernicana, l’empirismo inglese e la teoria meccanicistica della natura. Poco più che ventenne aveva già compreso il pensiero di Galilei, Pascal e vari pensatori dell’Illuminismo, così come le metriche di Virgilio. Aveva letto Voltaire, Locke e decine di altri contemporanei nella loro lingua. In questo modo la sua erudizione spaziava ampiamente tra epoche e discipline, attraverso lingue antiche e moderne, e in tutta l’Europa, nonostante egli non si fosse avventurato oltre i confini della sua provincia natale fino all’età di 24 anni.

 
 
 
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MALATTIE LETTERARIE

http://www.radio.rai.it/podcast/A42415801.mp3

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


 

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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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