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Liar (Why, Liar?)

Post n°55 pubblicato il 14 Ottobre 2007 da retiarius72
 
Tag: Musica

Henry Rollins è un autore strano e particolare, contraddittorio fin dall’aspetto.

Particolare e, per quanto mi riguarda, folle e geniale allo stesso tempo (so che sembra un’espressione trita e ritrita, però, credeteci: Rollins è un genio pazzo, o semplicemente un pazzo geniale, se lo conoscete e pensate che esageri).

Cominciò coi “Black Flag”, in un modo quantomeno anomalo: ne era un fan accanito, e, una sera, in occasione di un concerto, convinse il frontman Dez Cadena ad esibirsi. I componenti dei Black Flag rimasero fulminati dalle attitudini artistiche di Rollins e dalla facilità con cui questi si muoveva sul palco, e, così, il giorno dopo, in un audizione semi-formale, gli chiesero di diventare il cantante definitivo del gruppo.

Fu così che Rollins lavorò coi Flag dal 1981 fino alla loro rottura, nel 1986.

Terminata l’avventura con essi, si impose come performer di “spoken-songs” (canzoni parlate, per dirla in italiano), anche se, in verità, i suoi componimenti non sono né furono mai soltanto quello: le sue opere sono più degli psicodrammi, in cui una voce narrante interpreta o personaggi distinti o, nel caso di Rollins, distinti (e psicotici) aspetti della sua stessa personalità.

Conclusa l’esperienza coi Black Flag, in cerca di nuove esperienze sonore, comunicò all’amico Chris Haskett di essersene separato. Questi lo convinse a creare una nuova band: chiamati a sé il bassista Bernie Wandell e il batterista Mick Green, il gioco fu fatto.

Inizialmente la band si presentò sul mercato col nome di “Henry Rollins”; successivamente divennero la “Henry Rollins Band”.

Ma andiamo con ordine.

“Hot Animal Machine”, il disco d’esordio degli Henry Rollins, presenta già quelle componenti di teatralità che poi sarebbero diventate il tratto distintivo del gruppo.

L'opera in questione è una sorta di spartiacque tra i Flag e la Henry Rollins Band, e in essa sono già chiarissimi i temi dominanti della personalità di Rollins.

In effetti, dire che questi ebbe un’esperienza di vita anomala è dire poco: visse un’infanzia assai problematica, a causa della separazione dei genitori (tanto problematica che arrivarono a somministrargli del Ritalin), poi divenne vittima delle regole ferree in una scuola militare in cui la madre dovette iscriverlo per evitare che si perdesse, e, infine, crescendo, come in una sorta di rifiuto verso ciò che era stato, si fece pervadere dall’etica e dallo spirito punk.

Ma Rollins fu, da sempre, un punker anomalo…

Basta guardarne una qualunque sua recente foto per capire cosa intendo, anche quando parlo di contraddittorietà: ha l’esteriorità di un fanatico del body building militarista (e un poco fascio, in verità) da un lato, e, dall’altro, il corpo coperto di tatuaggi e canta canzoni che sembrano vomito infernale. Inoltre, fatto non da poco, è una bestia da palcoscenico di quelle da spavento, alla Anthony Kiedis dei Red Hot (per come salta, pompa e si contorce, intendo). Congiuntamente a tutto questo, traspare in lui l’etica tutta americano-capitalistico-calvinista del duro lavoro, la quale l’ha da sempre condizionato, facendone uno sgobbone.

Tanto per dire, è cantante, poeta, scrittore, e, occasionalmente, pure attore (anche se le sue parti sono più cameo: in “Johnny Mnemonic” fa la parte di Spider, un membro della resistenza, ma appare per pochissimo).

Se non credete a quanto dico, comprate “Hot Animal Machine”: la tensione che gli si deve essere accumulata per anni nella mente e nel corpo viene scaricata in un miscuglio rabbioso, sconvolto, pieno di richiami allucinanti (diciamo più allucinatori, anzi, no, diciamo più da trip lisergico).

Come prima dicevo, il carattere dello psicodramma teatrale è presente fin da questo disco; però, a differenza ad esempio di “Liar”, cui ho dedicato il post precedente, qui l’unico attore è il suo ego martoriato, che si sfoga in una baraonda spaventosa di urla e strida e distorsioni musicali.

Il bello di Rollins sta proprio in questo, a mio parere: nell’avere e nell’avere avuto, fin dagli esordi, il coraggio di mettere in piazza i propri tormenti, senza cazzeggi compiaciuti di sorta.

Il nome Rollins Band appare ufficialmente per la prima volta con “Life Time”, uscito nel 1988.

Lo stile cattivo, feroce e da granbastardo che aveva contraddistinto il precedente disco è più che mai presente anche in quest'opera. I suoi tormenti interiori sono peggiorati, tant’è che, in sostanza, con quest’album, Rollins sembra prendere cupamente coscienza che l’unica forma di difesa nei confronti degli abominii imposti dalla vita sociale e dalle brutture del mondo sia la solitudine. Lo stile psicanalitico è evidentissimo in “Gun in Mouth Blues”, che sembra essere una sorta di discesa nell’inferno del suo inconscio martoriato. Tutto è sorretto da una voce potente, maniacale, scostumata e lasciva allo stesso tempo.

Nel 1989 esce “Hard Volume”: la coscienza di Rollins pare essersi introiata ulteriormente; ciò non ostante, da un punto di vista tecnico-stilistico, l’album è così ineccepibile da potersi dire granitico. La Rollins Band è ormai l’equivalente di un gruppo di terminators che fanno rock assassino.

Nel 1992 arriva nei negozi di dischi “The End Of Silence”.

Mr. Henry è, se possibile, ancora più inferocito e attoriale che nelle opere precedenti.

Di nuovo, come già con “Life Time”, Rollins dimostra non solo di essere un solitario, ma di volerlo rimanere.

Le sue urla sono lancinanti e devastate, ma, come negli altri suoi dischi, non è pura posa: basta ascoltarlo per capire che sono sfoghi sinceri.

A onor del vero, gli eccessi hard-core di questo disco, specie se ascoltati e ri-ascoltati, possono sfiancare, però “The End Of Silence” è giudicato non soltanto una pietra angolare dell’alternative rock degli anni novanta, ma la loro migliore opera.

E, adesso, veniamo a “Liar”, horse of battle di “Weight”, uscito nel 1994, canzone da me inviata e tradotta nel precedente post, che, malgrado sia da me amata da quando fu pubblicata, non è giudicata appartenere alle loro migliori opere.

Weiss, che fu membro importante del gruppo, lasciò la band prima di questo disco, e la sua mancanza si sente.

Nel complesso, Weight fu giudicata un’opera deludente: in effetti, la capacità di Rollins di dare sfogo ai suoi tormenti con potenza iconoclasta sembra essersi smorzata.

Tuttavia, a mio parere, quanto di meglio Henry Rollins abbia mai prodotto, sia a livello musicale che di testi, è presente, in essenza, in Liar.

Perché quella canzone mi piace così tanto?

Non saprei bene dirlo nemmeno io: forse è il suo alternarsi di momenti di quiete a momenti di ruggita follia, forse è la voce di Rollins, da un lato caldo e languido, dall’altro mantice polmonare che ti farebbe rizzare i capelli se mai ti piantasse un urlo in faccia…

Forse, soprattutto, è la sua struttura (quella della canzone, intendo), e quello che significa (anche se, devo dire, sono io che mi sono preso la libertà di immaginare che il suo interlocutore fosse una donna).

Mi fa impazzire il modo in cui Mr. Henry ha fotografato alla perfezione una situazione tipo che potrebbe benissimo essere reale: da un lato, una persona spersa ed ingenua, di quelle che pensano di meritarsi più di quello che hanno, così disperatamente bisognosa di avere una guida spirituale da non capire di avere, di fronte, non un benefattore, ma un mostro cinico ed opportunista, che, non solo la inganna fingendo di darle ciò che essa angosciosamente vuole una, due, tre volte, ma dichiara, con lucidità perfetta e maniacale, che altro non farà, per sempre, che ingannare e mentire.

Ma non in modo comune o ordinario, facendone una sorta di dichiarazione di principio.

E, in me, tutto ciò, in un mondo dove il buonismo ha fatto, fa e farà non pochi danni, trovare qualcuno che ha il coraggio morale di fare una dichiarazione del genere, non può che suscitare simpatia...

...No, non basta: diciamo più ammirazione.

Over,

Dav

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