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Messaggio N° 1769 26-02-2006 - 14:54

"Villa Adriana" - Racconti di community

L’udienza era fissata per il giorno stesso, ma appena arrivato gli fu riferito che l’incontro era stato spostato all’indomani nella speranza che l’imperatore si sentisse un po’ meglio.
Camillo era giunto alla Villa al tramonto, ansioso di riferire della situazione dei confini, ma per ordine di Ermogene, il suo medico di fiducia, era stata vietata qualsiasi visita, almeno per quel giorno.
Gli fu messo a disposizione un servo che esaudisse ogni suo desiderio; ne usufruì solo perché era volere di Adriano, ma a quei privilegi cui non era avvezzo, nonostante fosse lontano dal disdegnarli, avrebbe di gran lunga preferito qualsiasi privazione, solo per essere più vicino alla sofferenza del suo imperatore.
Tuttavia la stanchezza prese il sopravvento e dopo essere stato lavato e nutrito secondo la sua volontà, si ritirò nell’alloggio che gli era stato assegnato. Appoggiò il mantello sulla sedia e si sdraiò sul letto; la luce della luna crescente che filtrava dalla finestra posta a nord est, rischiarava la camera e ciò gli diede un senso di beatitudine nonché la certezza di un buon auspicio e si addormentò.
La mattina, alle prime luci dell’alba, Camillo si alzò e trovò già il suo servo personale pronto a soddisfare ogni sua necessità. Chiese un abbondante bicchiere d’acqua e subito dopo di essere condotto immediatamente dal segretario dell’Imperatore. Questi lo accolse freddamente, ma nel più perfetto dei protocolli, fece ufficialmente gli onori di casa. In quell’unico occhio che lo scrutava, Camillo poté leggere solo l’arroganza della stupidità e non si capacitò di come un imperatore illuminato come Adriano potesse circondarsi di tali persone, ma non poteva dubitare che la ragione fosse ben lontana dal poter essere compresa da lui: seppure ufficiale era un semplice soldato, la cui fievole luce era data da un astro che illuminava il mondo molto più del sole. Il segretario lo informò che Adriano lo avrebbe incontrato solo alla sera: dopo il rapporto che era venuto a fornirgli, lo avrebbe allietato con una cena in suo onore.
Adriano lo pregava di aggirarsi all’interno della villa a suo piacimento e di usufruire di qualsiasi servigio gradisse.
Camillo era ansioso di parlare con lui e per un momento s’indispettì di un tale ritardo, ma si riebbe subito nel considerare che non era quella nullità di uomo che aveva di fronte a ordinarglielo, ma il suo unico e solo Signore ed era intenzionato ad obbedire.
Uscì all’aria aperta e decise di cavalcare verso la collina che sovrastava la Villa e che aveva intravisto la sera prima dalla finestra della sua stanza. Giuntovi trovò ad attenderlo un panorama straordinario che tuttavia lo attirò meno che la visione di quella immensa costruzione che dava asilo e sollievo ad un uomo grande con un dio, ma malato come un mortale. Non l’aveva mai vista prima, ma era certo che quella Villa non potesse essere più bella che in quel giorno di maggio inoltrato. Da lontano poteva scorgere ogni edificio che la costituiva e si ritrovò a cavalcare al galoppo verso quell’opera che neanche la natura, nella sua perfezione, avrebbe potuto mai concepire.
Lasciato il cavallo nelle scuderie, cominciò ad avventurarsi tra quelle costruzioni così sontuose da farlo sentire insignificante, ma al contempo così degne di un essere umano da infondergli la sensazione di essere non in una casa, ma nella Casa: quella dell’Impero, quella che anche lui, nella sua infinita nullità di militare, aveva contribuito a erigere.
In molti edifici notò che continuavano i lavori, soprattutto quelli di rifinitura: un pavimento, una parete dipinta; ovunque incontrava servi che si aggiravano tra i giardini e gli edifici, tutti indaffarati a rendere meraviglioso ciò che meraviglioso, almeno ai suoi occhi, già era.
Quei pochi studi che aveva fatto e quel poco che aveva visto nelle sue campagne militari all’interno dei confini, gli permise di constatare quanto di greco ci fosse tra quei muri, quelle vasche, quelle statue. Tra la moltitudine di quest’ultime non poté fare a meno di notare che in ogni stanza che percorreva ve n’era una del giovane che sapeva essere stato molto amato da Adriano. Nessuna assomigliava all’altra, ma a Camillo ognuna di loro dava la stessa impressione: sembravano tutte rappresentare l’unica sconfitta di Adriano: la morte dell’amore; ma non poté fare a meno di constatare, non senza irrispettosa ironia, quale grande sollievo doveva rappresentare per Roma lo scampato pericolo di averlo forse come imperatore. Troppo bello, troppo amato, troppa grazia in quel viso troppo greco: non sarebbe mai stato un romano.
Decise di raggiungere le terme dove rimase qualche ora nell’ozio più totale, fatta eccezione per un ripasso di quanto avrebbe dovuto riferire ad Adriano. Era facile adattarsi a questo tipo di vita e Camillo rimproverò a se stesso le proprie mollezze, ma osservò che godere di ciò che è bello è altrettanto onorevole che difenderlo. Suonava come una giustificazione un po’ debole, ma volle crederci ugualmente.
Ritemprato dai bagni, si avviò verso le biblioteche seguendo il consiglio del segretario che nel frattempo lo aveva raggiunto per assicurarsi che tutto procedesse secondo il suo piacere. Attraversò un grande giardino ed entrò prima nella biblioteca greca per poi passare a quella latina e in entrambe il potere di quelle migliaia di libri era così incombente che per un attimo pensò che avrebbe preferito avere davanti a sé un’orda impazzita di barbari piuttosto che quel nemico di cui non conosceva le armi. Non era certo un intellettuale e tanto meno un filosofo e di rado si era lasciato cullare dal piacere della lettura, ma il segretario fu lì, immerso tra i libri, che lo trovò quando venne ad avvisarlo che l’ora dell’udienza era giunta.
Camillo scattò in piedi come all’allarme di una sentinella e con passo degno del soldato che era, si presentò al cospetto del suo Imperatore.
Adriano si rallegrò delle consolanti notizie che gli portava Camillo e gliene fu grato. Camillo a sua volta gioì nel vedere negli occhi di quell’Uomo, destinato all’immortalità seppure stanco e malato, la soddisfazione; ed era proprio lui a procurargliela.
Il loro colloquio si protrasse anche durante la cena. Sdraiati sul triclinio avevano continuato a parlare tra una portata e l’altra. Camillo gustò ogni cibo come se fosse ambrosia, nonostante il disagio che provava nel vedere il suo divino ospite assaggiare qualcosa qua e là, limitato dalla dieta impostagli dal medico. Ben più imbarazzante però, sarebbe stato rifiutare un tale dono e a prova che lo aveva gradito gli rese onore con un sonoro rutto.
Adriano si ritirò e così pure Camillo, ma questi non riusciva a prendere sonno così decise di fare una passeggiata notturna nella Villa ancora illuminata dalle fiaccole.
L’Imperatore lo aveva a tal punto emozionato con le sue parole, con i suoi progetti, con la sua dignità, la sua nobiltà, la sua fierezza nonostante la fine troppo prossima, che non riusciva a distrarre la mente. Camminava ripercorrendo tutta la giornata trascorsa in quel paradiso di bellezza coronato adesso da una cornice di stelle, quando un’ombra attraversò il suo campo visivo che, da buon soldato sempre all’erta, non poté non notare. Non aveva un’aria furtiva, cosa che lo tranquillizzò riguardo l’incolumità di Adriano, ma ne era comunque incuriosito e la seguì. La vide dirigersi verso un isolotto di marmo al centro di un laghetto circondato da colonne. Una lucerna illuminò per un attimo il viso di quell’ombra e ciò che Camillo aveva solo supposto, ora era certo. Quell’anima che vagava era il padrone di casa la cui insonnia obbligava alla veglia: lo vide sdraiarsi tra quelle colonne e quel rozzo soldato, mentre una lacrima solcava il suo viso, intravide in quel semplice gesto, la fine.

...

di Salote



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