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I sotterranei, Jack Keroua

Post n°2080 pubblicato il 04 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

Risorse della biblioteca scolastica

Andrea Pomella

Per contribuire a un momento d'incontro,

approfondimento e scambio come Tempo

di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano

dall'8 al 12 marzo, abbiamo creato uno

speciale doppiozero | Tempo di Libri dove

raccogliere materiale e contenuti in dialogo

con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera.

Riprenderemo i temi delle giornate - dalle

donne al digitale -, daremo voce a maestri

che parlano di maestri, i nostri autori

scriveranno sugli incipit dei romanzi più amati,

racconteremo gli chef prima degli chef,

rileggeremo l' "Infinito" di Leopardi e

rivisiteremo la Milano di Hemingway,

rileggeremo insieme testi e articoli del

nostro archivio, che continuano a essere

attuali e interessanti.

"Ero una volta giovane e aggiornato e 

lucido e sapevo parlare di tutto con

nervosa intelligenza e con chiarezza e

senza far tanti retorici preamboli come

faccio ora; in altre parole questa è la

storia di uno sfiduciato che non è più

padrone di sé e insieme la storia di un

egomaniaco, per costituzione e non

per facezia, - questo tanto per cominciare

dal principio con ordine ed enucleare la

verità, perché è proprio questo che voglio

fare. Cominciò con una calda notte d'estate,

sì, con lei seduta su un parafango quando

Julian Alexander che sarebbe...

Ma cominciamo dalla storia dei sotterranei

di San Francisco". 

Intorno ai vent'anni mi innamorai di

questo incipit letterario del quale mi sono

disinnamorato solo oggi, 24 gennaio 2018,

per le ragioni che spiegherò di seguito. 

Il libro in questione è I sotterranei di Jack

Kerouac (nella mia edizione - Feltrinelli, 1994

- alla voce "traduzione dall'americano" è

scritto "di ANONIMO").

A dirla tutta, il mio amore, o dovrei dire la

mia ossessione, riguardava più in generale

l'opera complessiva di Jack Kerouac, ossia

colui che - citando Henry Miller - "ha violentato

a tal punto la nostra immacolata prosa, che

essa non potrà più rifarsi una verginità".

Ma questo incipit, questo particolare incipit,

negli anni a seguire ha martellato più di tutti

nella mia testa, e così a lungo da avermi

condizionato ogni volta che mi sono seduto

al computer anche solo per stilare un

protocollo d'intesa, o per scrivere una

lettera velenosa alla mia compagnia

assicurativa.

I sotterranei è ambientato nelle caves 

di San Francisco, popolate di droga, jazz,

puttane e messicani "che fanno yayà nei locali",

e narra l'amore turbolento tra un bianco e

una nera. Inizia con una frase piena zeppa di

"e": E, e, e, e, e... una congiunzione via l'altra,

come un'ouverture suonata col charleston

della batteria che mette subito in chiaro

quale sarà il ritmo portante della serata.

"Questa è la storia", dice Kerouac.

Va bene, ma quale storia? Qui si dà avvio ad

almeno TRE storie, con TRE personaggi diversi

(tre  di un unico io schizofrenico): lo sfiduciato,

quello che non è più padrone di sé e l'egomaniaco.

Per poi, subito dopo, far entrare in scena altri

due personaggi che non sono né lo sfiduciato,

né quello che non è più padrone di sé, né

l'egomaniaco, bensì una donna seduta sul

parafango e un tale di nome Julian Alexander,

che sarebbe... no, Kerouac non ce lo dice

(a onor del vero lo svelerà nel paragrafo

successivo). Perché l'autore sembra riconoscere

di aver messo troppa carne al fuoco, perché ci

ha già detto tutto e non ci ha detto niente, e

perché prima d'ogni altra cosa deve trovare la

chiusa del paragrafo, ed è una cosa che

occorre fare nella dovuta maniera.

E quanta umana, vezzosa debolezza in quel 

 che l'anonimo traduttore ha messo tra le

virgole: "Cominciò con una calda notte d'estate,

sì, con lei seduta su un parafango" 

(nel testo originale c'è un ancor più vezzoso

"ah": "It began on a warm summer night - ah,

she was sitting on a fender...").

Ora, intorno ai vent'anni sentivo nell'incipit

di I sotterranei, e in tutta l'opera di Kerouac,

una sincerità dolorosa e commovente.

Mentre oggi, da lettore scafato quale sono,

oggi avverto la catena dello stile.

Lo stile è il giogo che impediva a Kerouac di

giungere alla verità; la completa, nitida,

luccicante verità di qualsiasi cosa egli volesse

raccontare. Lo stile è la sua prigione, la

gabbia dalla quale non è mai evaso.

Va bene, ma perché me ne sono accorto

solo adesso? Forse una risposta ce l'ho:

perché nel frattempo ho smesso di avere

vent' anni. 

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